Le madri lesbiche tirano la volata alla Gpa
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pubblicato sul Manifesto del 9 maggio 2018
Le madri lesbiche tiravolata alla Gpa
di Daniela Danna.
Un giorno a Torino si registra la figlia di una donna con la sua compagna madre sociale, e il giorno dopo si è travolti da coppie di uomini che ricevono dallo Stato una doppia paternità. La sindaca di Torino rivendica la decisione in termini simmetrici: “ferma volontà di dare pieno riconoscimento alle famiglie di mamme e di papà”. Come se fosse la stessa cosa nascere da una donna che ha una compagna invece che un compagno, insieme alla quale ha deciso di far nascere e allevare il piccolo con il contributo maschile in termini di seme e basta, e nascere invece da una madre retribuita dalla quale si viene separati alla nascita per incontrare all’improvviso il padre biologico – mai stato prima al fianco della madre, che è all’estero – e il suo compagno, in barba alle leggi dello stato italiano.
Lo stato italiano prevede due modi di registrare la filiazione: a seguito del parto per discendenza biologica (sono figlia di una coppia sposata, o di una donna e del suo compagno che mi riconosce alla nascita), oppure l’adozione: mia madre mi ha partorita ma è voluta rimanere anonima e i servizi sociali sono incaricati di trovarmi una famiglia, vagliando la qualità della coppia. (Se nasco da madre single posso anche essere adottata dal compagno o persino dalla compagna di mia madre, che dimostrano di essersi occupati di me.) Il fatto che la decisione sia stata comune in una coppia lesbica dà certamente una base a che lo Stato riconosca la famiglia: per scelta della madre l’altro genitore è una donna invece di un uomo.
Quando due uomini “diventano padri” (o anche un uomo e una donna che vadano ad esempio in Ucraina tornando con un neonato non partorito da nessuno di loro) si appropriano del neonato che necessariamente una donna ha partorito. Come se ne appropriano? Pagandola – il fatto che uno di loro sia padre biologico non è certo sufficiente (in California non è nemmeno necessario). Questo non è possibile in Italia (fortunatamente: sarebbero le donne immigrate, già sfruttate nel segreto delle case come badanti, ad essere ingaggiate per questo ulteriore sfruttamento), ma è possibile in alcuni stati stranieri. Accettare i certificati di nascita di questi stati e registrarli all’anagrafe significa accettare la pratica di mettere sotto contratto una donna, come se fosse un contenitore di figli altrui, al fine di separare il neonato da sua madre, cosa che va contro il diritto umano di continuità nella vita familiare. Al momento in Italia, questo diritto può rimanere inadempiuto solo per cause di forza maggiore, e il neonato va in adozione. Ma il diritto, sancito anche dalla Convenzione di Stoccolma, non può e non deve essere calpestato da un pagamento – che lo si chiami “rimborso spese” aggiunge al danno la beffa. E come ha scritto Silvia Niccolai, il corpo di una donna non è suo perché lo metta sul mercato nella capacità materna, e nemmeno il neonato è una proprietà cedibile.
Una donna lesbica può – trovando disponibile del seme maschile (banca del seme, accordi privati) – fare tutti i figli che vuole, ed è giusto che la sua compagna partecipi della maternità decisa in comune. Un uomo gay dovrebbe poter adottare, o persino mettersi d’accordo con una donna per avere figli, ma è inaccettabile che la naturalità della filiazione delle donne lesbiche venga usata come paravento per la mercificazione della gravidanza e dei neonati. E ancora più inaccettabili sono le prevedibili repliche di chi dirà che “quella non è una madre ma una portatrice perché lei si vuole chiamare così”, come se il neonato non avesse cognizione del corpo materno nel quale si è sviluppato, delle sue emozioni, dei suoi sapori, dei suoi suoni. Chiedetelo al neonato chi è sua madre, quando si fa strada per raggiungere il capezzolo che lo nutrirà, quando si sente rassicurato dalla presenza del corpo materno.
Le lesbiche addormentate
Qualche giorno dopo il quotidiano, direi ormai allo sbando, pubblica un inconsistente appello di più di cento lesbiche – alcune purtroppo le conosco – che sostanzialmente mi dicono di tapparmi la bocca perché a loro la Gpa non interessa, e comunque è uno sfruttamento come un altro. Rispondo con questa lettera alle “Cento lesbiche talmente stanche da essersi addormentate”, grata per l’opportunità di una bella ciranata (“Alla porta di Nèl!”):
Spett. Redazione del Manifesto,
le lamentele delle 100 lesbiche stanche vanno indirizzate più correttamente non alla sottoscritta ma a Famiglie Arcobaleno, che ha imposto al movimento Lgbt (con pronta adesione della parte maschile) la rivendicazione della compravendita di neonati, con “portatrice” retribuita e trattata dalla legge come un’operaia della gravidanza a cui naturalmente si toglie il prodotto.
Non solo nessuna è obbligata a diventare madre, ma non rientra in nessun caso nell’autodeterminazione delle donne sul proprio corpo la facoltà, legale in alcuni stati, di disporre del proprio neonato per venderlo o (quasi mai) regalarlo. Che i figli siano desiderati e nascano desiderati è l’essenza dell’autodeterminazione femminile – non sto e non stiamo dicendo proprio nulla di nuovo.
Il neoliberismo avanza con la surrogazione di maternità, come con gli ormoni agli inesistenti “bambini trans”, con la regolamentazione della prostituzione, tutti mercati che gli stati creano in questo momento di crisi e che il movimento Lgbt (almeno in una sua parte) promuove. Tacciamo, e intimiamo al silenzio, e ne saremo complici.
Quanto alle accuse di essere di destra, vorrei citare Totò: “Ma mi facci il piacere!”
E poi… cento contro una! Chi ha paura di chi?
Un sorriso
Daniela Danna