Una lettera pubblica condivisibile
sull’Università, dal collega Francesco Benozzo
Premessa obbligatoria. Sono un professore universitario. Insegno filologia a Bologna, nella più antica università del mondo occidentale. Sono il coordinatore di un dottorato di ricerca presso la stessa Università. Dirigo tre riviste scientifiche internazionali classificate in classe A dall’ANVUR (l’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca). Ho fatto parte e faccio parte di commissioni di valutazione ministeriale. Sono il responsabile di quattro progetti inter-universitari internazionali – uno patrocinato UNESCO – che vedono coinvolte, oltre alla mia Università, quelle di Bonn, Londra, Los Angeles, Toronto, Calgary, Valencia, Istanbul, Cairo, Brest (Bretagna), Blida (Algeria), Shahid Beheshti (Tehran) Rabat (Marocco). Coordino insieme ad altri colleghi dei centri internazionali di ricerca e dei progetti di cooperazione tra università e mondo extra-universitario. Ho partecipato su invito a circa 300 convegni scientifici internazionali, e sono stato il relatore plenario (keynote speaker) a 15 di essi. Sono il direttore di alcune collane accademiche, tra cui una collegata al centro delle Medical Humanities dell’Università di Bologna, di cui sono membro. Faccio parte del comitato editoriale di diverse riviste e collane scientifiche in Italia e all’estero. Ho all’attivo circa 700 pubblicazioni scientifiche. In breve: quando parlo di università non lo faccio come un giornalista che si è bene o male informato sui fatti. Ma ne parlo dall’interno, conoscendo ciò di cui parlo.
Nel marzo del 2020, quando tutto ciò che stiamo vivendo ebbe inizio, ho espresso pubblicamente alcune perplessità sulla narrazione univoca della pandemia, ricevendo come conseguenza – oltre a diverse attestazioni di ringraziamento e di solidarietà – insulti, minacce nonché moniti da parte di colleghi più potenti. A cadenza più o meno regolare, negli scorsi mesi, ho continuato a dire come la penso relativamente alla dittatura scientocratica in atto, difendendo – con consapevolezza – un’idea di scienza come arte del dubbio e del confronto.
L’autoritarismo politico cresciuto in seno alla narrazione pandemica è nel frattempo, come previsto, peggiorato, con una situazione che è precipitata in barba a ogni garanzia costituzionale, con la totale complicità di ogni forma residuale delle opposizioni nelle post-democrazie dell’Occidente in sfacelo, e con una lobotomizzazione ormai generalizzata dei cittadini, diventati nel frattempo anche aggressivi, intolleranti, giudicanti.
Generalmente, in situazioni simili, a provare a salvare qualcosa incarnando un punto di vista alternativo, sono i cosiddetti “intellettuali”, o sono le forze del pensiero creativo. Niente di tutto questo: addirittura gli ex-ribelli che hanno fatto la loro fortuna annunciando che avrebbero spaccato il mondo per difendere le libertà (qui da noi mi viene in mente il conterraneo appenninico Vasco Rossi, ma tra i minori spiccano ex-ribelli come l’onnipresente Cisco – al secolo Stefano Bellotti – e tutta la schiera di coloro che, meno noti di lui, continuano a cantare contro il sistema infarciti di concetti d’accatto di partigianesimo e Resistenza) si sono mostrati inermi, incapaci, grezzi.
Personaggi addomesticati e definitivamente squallidi che si sono anche prestati per spot governativi su come indossare le mascherine e come salvare il paese con comportamenti virtuosi: Fedez, altri rapper più undergorund che dovevano guidare la rivolta, e gli epigoni degli epigoni (l’unica eccezione in cui mi è capitato di imbattermi: il sempre lucido ed eversivo Giorgio Canali).
(Cito ora volentieri il monumentale Eric Clapton, sotto attacco mediatico proprio in queste ore per il pezzo anti-lockdown Stand and Deliver, firmato da Van Morrison: un brano pubblicato online proprio mentre questo mio articolo era già in pubblicazione).
Gli altri? Più zelanti dello zelo, più zerbini del concetto di zerbino. Nemmeno mi ricordo i nomi (a parte i soliti, tra le migliaia di quelli à la page che sgomitano per emergere nelle loro gare di fighetteria nazional-popolare: Michele Serra, Severgnini, Gramellini, Daria Bignardi).
Ma vengo all’Università. Dove va registrato, per le aspettative che si sarebbero potute avere, il punto nevralgico del decadimento. I Dipartimenti dell’Alma Mater/Università di Bologna, dove io lavoro, sembrano oggi bracci isolati di Alcatraz o San Quentin. Via tutte le sedie. Seguire il flusso indicato dalle frecce. Disinfettarsi. Indossare sempre le mascherine. Divieto di conversare. Biblioteche inaccessibili. Monitoraggio dei buoni comportamenti. Invito a segnalare comportamenti non consoni. QR code su ogni porta che si valica. Sto parlando dell’Università, della sede del libero pensiero.
Ho letto con attenzione Agamben, qualche mese fa, quando paragonava noi universitari che accettiamo queste limitazioni sproporzionate a quelli (il 99 per cento) che non si rifiutarono di aderire al Fascismo cent’anni fa. L’ho letto e mi ha messo in crisi. La penso come lui. Ho parlato con alcuni colleghi della possibilità di licenziarmi, ho argomentato le ragioni per rifiutarci di prendere parte a questo scempio. Mi hanno dissuaso, fondamentalmente per amicizia. Ne ho parlato ai miei studenti del primo semestre dell’anno accademico 2020-2021. Ho detto loro, senza mezzi termini e fin dalla prima lezione, che a parlare loro davanti a quello schermo c’era un vigliacco (tutte le mie lezioni sono registrate e accessibili).
Confesso di essere un vigliacco. Penso che chi ha una vaga coscienza della sproporzione delle misure adottate dovrebbe rifiutarsi di essere parte di questo scempio. Io dico la mia nei Consigli di Dipartimento e di Corso di Laurea. Ho sempre detto come la penso. Alcuni colleghi e alcune colleghe mi scrivono privatamente per confessare che la pensano come me. Ma quando si tratta di decidere (didattica mista, didattica a distanza, misure di questo o quel tipo) non intervengono mai. Come a dire che a esprimere un’opinione, a esercitare il primo diritto che dovrebbe governare il pensiero universitario – quello alla dissidenza consapevole – deve essere sempre e solo qualcuno.
Sputo nel piatto in cui mangio? Sì. È proprio così, perché non ho avuto la forza di licenziarmi. Ho conosciuto quest’anno la mia vera vigliaccheria. Mi sono scoperto senza altre forze che quelle, inefficaci, di ribadire dei principi, di rilasciare interviste, di scrivere sull’argomento, di esprimere il mio punto di vista con gli studenti e le studentesse. Di non dire mai loro quello che mi dicono di dire loro. Sono deluso da me stesso. E sono deluso dai Rettori, dai Direttori di Dipartimento, dai colleghi e delle colleghe, che avrebbero avuto un’opportunità storica per ribadire i principi dell’autonomia del pensiero critico. O almeno per discutere. E che invece sono tutti complici. Tutti traditori. Io più di loro, perché sento diversamente da loro e mi allineo fatalmente a quanto viene deciso.
A Bologna, e anche altrove, eravamo in piazza per gridare davanti alle telecamere “Libertà! Libertà!” per il nostro studente Patrick Zaki – che qualche dio ti protegga, coraggioso ragazzo! – e siamo stati tutti zitti e complici, negli stessi giorni, davanti all’orrore mononarrativo della pandemia. Quelli che hanno organizzato e promosso ai piani alti le manifestazioni di noi accademici per farci portavoce della difesa della libertà di pensiero sono gli stessi che hanno censurato le mie parole, in siti aperti al presunto dibattito dell’Università, non consentendo alla mia libertà di pensiero di esprimersi.
L’Università non si risolleverà da questo disastro. In termini di breve e media durata, le strategie finto-emergenziali messe in atto (dai milioni di euro spesi per i patetici set cinematografici ora presenti nelle nostre aule, che naturalmente non verranno smantellati dopo la presunta emergenza, al potenziamento della tecnologia per la didattica a distanza) resteranno come un fiore all’occhiello dell’efficienza accademica e istituzionale, compresa la finta didattica in presenza che alla fine sembra inquietantemente solo un escamotage messo in atto per non diminuire le tasse degli iscritti; ma in termini di lunga durata il giudizio su questa supinità acritica ai dettami ministeriali-sanitari peserà come un giudizio senza scampo.
Io nel mio piccolo ho fallito e mi sento un fallito. Ho tradito me stesso e i miei principi. E ho tradito gli studenti e le studentesse a cui, invece di spiegare come la penso e di avviare dibattiti durante le mie lezioni per discutere in modo critico su questi argomenti, avrei dovuto più semplicemente dare l’esempio concreto e senza fraintendimenti di una persona che se ne va via.
Questa mia confessione di vigliaccheria è rivolta specialmente a loro. Non sono stato quello che ho insegnato, non sono quello che insegno. Ho perso ogni diritto di rivolgermi a loro con le parole di Enrico V ad Agincourt: “We few, we happy few, we band of brothers”. Non sono riuscito a barattare niente, ragazzi. Non ho incitato alla battaglia nel giorno di San Crispino. Siate voi meglio di come vi sono apparso e di come vi appaio in questi mesi.
Chissà, forse, riuscirò a stupirvi un giorno in altri modi. Ma sarà solo un piccolo riscatto di fronte a ciò che non sono stato capace di essere oggi.