La riforma antiuniversità
L’università è stata riformata, con grande soddisfazione di tutto il mondo politico: a leggere i programmi elettorali di tre anni fa delle due coalizioni non c’era differenza di intenti. “Riformare”, una gloriosa parola della sinistra novecentesca, è diventata sinonimo di “distruggere” nella neolingua neoliberale condivisa da tutte le parti del parlamento, nonché dal presidente della Repubblica, che ha approvato quasi senza battere ciglio una legge autocontraddittoria e inconstituzionale.
La nostra Costituzione prevede che l’istruzione, anche quella superiore o terziaria, sia pubblica e la ricerca scientifica libera. La cosiddetta riforma invece porta a termine un percorso ventennale di privatizzazione del sapere, introducendo compiutamente logiche di mercato all’interno della vita accademica. Le università saranno governate da consigli di amministrazione aperti ai privati, perdipiù senza che questi ci debbano mettere una lira. Liberi di vendere risorse comuni agli amici degli amici, come è stato per tutte le privatizzazioni della Repubblica, in cui i governi di sinistra hanno eccelso su quelli di destra.
Si prepara anche la valutazione ministeriale dell’operato di ricercatori e professori tramite l’Anvur, un’agenzia dipendente dal governo che stabilirà i criteri per valutare il nostro mestiere. Lo storico Fernand Braudel, che scrisse il suo capolavoro sul mondo mediterraneo in più di due decenni, sarebbe stato licenziato perché poco produttivo. Le lesioni dell’autonomia universitaria e della libertà di insegnamento sono state denunciate da molti lavoratori dell’università: la Rete 29 aprile dei “ricercatori indisponibili”, gruppi della Federazione dei lavoratori della conoscenza, l’Andu (Associazione nazionale docenti universitari), l’unica organizzazione sindacale che ha presentato una proposta di riforma che avrebbe realmente spezzato il potere del baronato – cioè della gestione privatistica di una risorsa pubblica, rendendola effettivamente un bene comune.
E gli studenti? Si preparino a pagare – se han soldi – per supplire ai tagli di fondi pubblici. Oppure si indebitino con le banche! Il Village Voice di New York ha pubblicato il 7 gennaio un’inchiesta tra gli studenti ingannati dai college for profit, che si ritrovano con migliaia di dollari di debito e un pugno di mosche in mano. Come al solito, è la Merica che ci mostra il futuro, e gli studenti e le studentesse che hanno dato vita a questo grandioso movimento lo hanno capito – ma i loro canali di rappresentanza politica sono bloccati, e un patetico personaggio come una signora diventata avvocato con un viaggio dove gli esami sono più facili è diventata la fiera piazzista di “meritocrazia” (chi ha merito lo decideranno l’Anvur, cioè il governo, e “il mercato”).
Ma non è certo merito suo, cara signora Gelmini: “La tendenza all’accumulazione illimitata non devasta solo la natura, ma la stessa società umana. Essa conduce infatti, alla fine, all’estensione del rapporto sociale capitalistico a tutti gli ambiti della società, anche a quelli la cui logica di funzionamento è del tutto incompatibile con esso (la scuola, per esempio)” (da “Marx e la decrescita. Per un buon uso del pensiero di Marx” di Marino Badiale e Massimo Bontempelli, disponibile in rete su vari siti). È ora di invertire la marcia.