Autodeterminazione in due parole

A seguito della dichiarazione di lesbiche e altr* contrarie all’introduzione in Italia (e ovunque) di regolamenti che consentano la “gestazione per altri”, gli argomenti contrari più diffusi, dopo gli insulti, sono stati 1) l’accusa di voler limitare l’autodeterminazione femminile; 2) l’accusa di ricorrere a una mistica della maternità, 3) nel capitalismo o cambia tutto o non cambia niente. Di seguito le risposte:

  1. Sono i regolamenti e le leggi con i quali è stato introdotto il concetto di “gestazione per altri” che stanno limitando l’autodeterminazione femminile nei paesi in cui vigono. Questo concetto di autodeterminazione è nato nel femminismo degli anni ’70 che rivendicava l’aborto e la disponibilità di mezzi di contraccezione a scelta della donna, perché ogni gravidanza deve essere voluta responsabilmente, ogni bambino deve essere desiderato. Desiderato dalla madre, e non da una “portatrice”per conto terzi: in Israele queste operaie della gravidanza non si toccano più la pancia da quando cominciano a sentire i movimenti fetali. (Chi crede nella perfettibilità della Gpa tramite regolamenti si affretterà a specificare che saranno i committenti a metterle le mani addosso per far sentire la/il futuro/a bambino/a in comunicazione con il mondo?) “L’utero è mio e lo gestisco io” vuole sembrare l’aggiornamento di slogan di quel periodo sul corpo, ma non stiamo parlando di parti del corpo, stiamo parlando della pianificazione di nascite eterodeterminate, per lo più da sistemi di agenzie, cliniche, avvocati che traggono profitto dalla disponibilità delle donne ad autosacrificarsi (vedi punto 2). L’utero e qualunque altra parte del corpo non sono “propri” nel senso di beni di proprietà da commerciare liberamente (non si può vendere un rene, una cornea, nemmeno il sangue che pure ricostituiamo). Nel caso di un/a neonato/a – perché di questo si tratta e non di un utero – non se ne può decidere liberamente la destinazione perché un essere umano non è di proprietà di nessuno, non si deve ricavare profitto dal suo “passaggio di proprietà”, non deve costituirsi un sistema che incentivi le nascite da donne più povere (che – guarda un po’ – esistono anche nella ricca California e in Canada) per fornire figli ai più ricchi: la madre può certo autodeterminarsi rinunciando a riconoscere la/il neonata/o (mica si può imporre una relazione), ma al massimo potrà essere il padre naturale a riconoscerlo,

Se i campioni dell’autodeterminazione femminile sono Famiglie Arcobaleno e gli altri sottoscrittori della Dichiarazione di Bruxelles sulla Gpa “etica” (le parole hanno veramente perso ogni senso) siamo messe bene! Il “diritto” della gestante in questo documento è il suo obbligo a dar via il/la figlio/a. Tutto bene per le donne (ad esempio tutte quelle presentate nel e dall’associazione Famiglie Arcobaleno) che dopo nove mesi di gravidanza ancora vogliono mantenere la promessa di separarsi dal/la neonata/o, ma per le altre? La Gpa etica significa che hai firmato un contratto, ti han dato dei soldi, il bambino/a non è tuo. “Il bambino ha bisogno di amore” – già, e se la madre volesse darglielo lei? Non può, ha firmato un contratto.

E in questo contratto ha rinunciato proprio all’originario diritto su cui il femminismo si è mobilitato negli anni ’70: la facoltà di decidere in prima persona di un aborto, che invece decideranno i committenti (si chiama in gergo “riduzione embrionale”, ed è spesso necessaria per non avere gravidanze plurigemellari dopo la fecondazione in vitro e l’impianto degli embrioni così ottenuti).

2. Se evochiamo la possibilità di un legame madre-creatura allora sottoscriviamo la mistica della maternità. A me sembra la situazione non solo normale, ma anche auspicabile: che chi venga al mondo mantenga la continuità relazionale con la donna che al mondo ce lo ha fatto venire (e con le persone con cui lei ha voluto fare una famiglia), con nove mesi anche sicuramente di difficoltà e con un parto che comunque lo si viva rappresenta una grande prova nella vita di una donna. Al punto precedente ho considerato questo legame madre-creatura dal punto di vista della madre che non lo vuole – con le leggi attuali è libera di rifiutarlo, e sembra solo sensato che possa essere solo il padre naturale a riconoscerlo (ecco fatta una cosiddetta Gpa altruistica senza bisogno di altre mosse legislative), altrimenti se non c’è un padre naturale si tratta di adozione, regolata da apposite leggi.

Vediamo ora il legame dal punto di vista del/la neonata/o: riconosce del mondo quasi solo il corpo, la voce, il contatto materno. Ha bisogno della madre per il suo nutrimento e la sua rassicurazione. Ha anche un diritto umano alla continuità della sua vita familiare – che per carità non si può imporre alla madre – di cui la Gpa fa strame assegnandolo a chi ha fatto firmare un contratto alla donna pagandola, mentre chi adotta deve essere minimamente controllato. Perché il movimento lgbt non chiede l’inclusione nei procedimenti di azione, piuttosto?

A me sembra che la mistica della maternità più grande, nel senso dell’esaltazione del sacrificio materno, invece appartenga proprio ai fautori della cosiddetta Gpa, che tolgono alla madre anche questo nome (la chiamano seriamente “portatrice”!) e si aspettano che mantenga la promessa faustiana di separarsi dalla sua creatura fin da prima di concepirla. Non mi interessa quante donne lo fanno presumibilmente volentieri: ce ne sono troppe che non vogliono più anche se hanno firmato un contratto, e che sono schiacciate da questo sistema. In Gran Bretagna, alla faccia dell’altruismo, una donna rumena è stata costretta a separarsi dalla sua bambina – in teoria era nelle sue facoltà proseguire la relazione con sua figlia ai sensi della legge inglese che ammette solo la Gpa altruistica, ma i tribunali l’hanno assegnata alla coppia gay che gliel’aveva commissionata. (vedi per esempio: http://www.independent.co.uk/news/uk/baby-girl-removed-from-homophobic-biological-mother-after-court-battle-10227810.html)

Perché? La mia, la nostra risposta collettiva che anticipa il possibile analogo sviluppo in Italia, è “appunto perché quella era una gravidanza per altri, non la sua”.

Una donna in un dibattito mi ha detto anche, riguardo al caso della madre che vuole allevare la sua creatura a dispetto della promessa: “Ne può fare un altro”. Questo è imbarbarimento, è calpestare le relazioni umane, che non sono sostituibili.

Quanto al non voler ridurre la maternità a un lavoro, non è necessaria una mistica particolare: si tratta di autodifesa della classe lavoratrice, che non può accettare di lavorare per nove mesi ininterrottamente – questo non è consentito da nessuna legge sul lavoro, ed è bene che sia così. Se in India non lo è, è perché le disuguaglianze impediscono l’autodifesa della classe lavoratrice, costretta ad accettare un tale sfruttamento. Non bisogna avere una “mistica della notte” per cercare di difendersi dal lavoro notturno, né una “mistica delle feste” per rifiutare di lavorare nei giorni festivi. Purtroppo con l’aumento delle disuguaglianze sociali anche nel nostro paese, i lavoratori sono messi gli uni contro gli altri e hanno anche perso la cultura dell’autodifesa del corpo della classe lavoratrice da lavori nocivi e rischiosi. Gli intellettuali presumibilmente di sinistra non stanno coltivando questa memoria, constato.

3. Siccome non ci siamo pronunciate contro la precarietà del lavoro, l’esistenza della schiavitù, l’uso del debito per distruggere i welfare state, allora avremmo dovuto stare zitte. Ma come si fa a cambiare tutto se non si comincia da qualche parte? Non è che proprio abbiamo cominciato ora, ma adesso è il momento di affrontare questo tema, che è appunto l’espansione del circuito del profitto a coinvolgere la nascita degli esseri umani. Noi ci opponiamo, e voi? Aspettate la rivoluzione?

È adesso che il movimento lgbt ha preso questa brutta china, la rivendicazione di una istituzione legale che calpesta l’autodeterminazione delle donne. (E farei una riflessione anche sulla continuità della vita familiare dei neonati.)

Infine: perché “cosiddetta Gpa”? Perché non esiste una “gestazione” per altri: una donna che dà alla luce un/a bambino/a è sua madre. Nella maggior parte dei casi sarà anche madre sociale, ed è auspicabile che lo sia, sempre più spesso, per tutti i neonati. Allora dite chiaramente il vostro slogan: “Il bambino è mio e ne faccio quello che voglio”, in barba appunto alle leggi sull’adozione, che nel secolo scorso hanno finalmente regolato una situazione di libero mercato, in cui gli esemplari migliori venivano venduti al migliore offerente.