Vai al corteo dell’8 marzo?
Ecco un’utile lettura!
Lettera aperta a chi manifesterà l’8 marzo 2025
L’8 marzo accomuna da più di un secolo chi vuole la libertà delle donne, quindi ci sentiamo coinvolte in questa data. Da alcuni anni, tuttavia, proviamo sconcerto per l’uso di parole neutre a base di asterischi: come può essere celebrata la giornata delle donne, se si rifiuta la parola “donna”? E l’estetica truce dei cortei, con i fumogeni e a volto coperto, non fa pensare al femminismo che è conflittuale, ma non violento. La rivoluzione delle donne è e rimane nonviolenta, fa leva sulla presa di coscienza soggettiva e sul partire da sé.
In Italia i temi dell’8 marzo ormai classificano l’umanità in base al grado di oppressione. Può sembrare un modo solidale di fare giustizia, di non lasciare indietro nessuno e di dare priorità ai bisogni più gravi, ma così si ricalcano conflitti che oppongono storicamente tra loro gruppi di uomini, non si mettono al centro le donne. Tutte siamo state educate ai valori universali che fanno apparire insufficiente occuparsi di una parte invece che di tutti e siamo state abituate a mettere gli altri prima di noi: sarà questo che fa considerare riduttivo il femminismo se non si fonde nelle lotte a favore di altri? Si propone allora un femminismo del 99% in marcia contro l’1% dei privilegiati, ma in questo magma proprio le donne rischiano di scomparire.
In questa Lettera aperta mettiamo a fuoco alcuni concetti per aprire una discussione, da tempo soffocata.
Donna
Monique Wittig definiva “donna” l’adulta destinata alla relazione con l’uomo, accuditiva e subalterna, madre dei figli di lui, e concludeva provocatoriamente che le lesbiche non sono donne, ma non intendeva dire che le lesbiche sono trans, bensì che si sottraevano a quanto previsto per loro dal patto sociale. Noi definiamo donna “un’adulta umana di sesso femminile”: essere donna non è un sentimento, ma un dato di realtà.
In ogni parte dei paesi del mondo, è il nascere donna che espone a un pesante fardello di obblighi, limitazioni e violenze. Il femminismo ci ha insegnato l’amore femminile per la madre, che la genealogia maschile ci spinge a negare.
Il nuovo linguaggio neutro che cancella la nostra esistenza con simboli astrusi (asterischi, schwa, chiocciole) non tiene conto della forza delle relazioni tra donne di ogni età, fatte di riconoscimento reciproco e anche di gratitudine.
Sesso e genere
Il movimento delle donne e delle lesbiche si è ribellato fin dalle origini alle norme tradizionali di genere che ci vogliono graziose e disponibili, combattendo i ruoli patriarcali cristallizzati (i generi). Siamo favorevoli a tutte le più varie espressioni di genere e sappiamo che spesso quelle trasgressive aiutano a decostruire la fissità dei generi, tuttavia il sesso è la biologia del nostro corpo. Negli umani ci sono solo due sessi, il maschio e la femmina – gli intersessuali sono eccezioni, non rappresentano tanti altri sessi, ma semplicemente un diverso sviluppo e una diversa combinazione dei caratteri femminili e maschili. Per inciso, gli intersessuali chiedono giustamente di non subire fino alla maggiore età interventi chirurgici miranti a stabilirne arbitrariamente il sesso, accettando solo quelli necessari per la salute, perché nessun corpo sano andrebbe mutilato.
Anche i generi sono due, perché corrispondono alle norme culturali che gli uomini hanno imposto alle donne e a sé stessi per mantenere il loro potere. Liberandoci dal genere, cioè da quanto ci viene imposto spacciandolo per “naturale per una donna”, contribuiamo a produrre nuovi rapporti sociali più giusti per tutti oltre che per tutte.
Transgenere
Trans-misoginia, trans-cidi, trans-femminismo sono concetti che sovrascrivono misoginia, femminicidi, femminismo. Le sinistre da sempre difendono i vulnerabili e sembrano oggi dare centralità ai corpi trans, denunciano ad esempio le leggi che non li includono negli sport femminili. Ma chi si cura del diritto delle atlete a competizioni giuste? Vincere un torneo è il traguardo di chi fa sport e comporta premi e borse di studio. Perché le donne dovrebbero privarsene a favore di persone trans? Essere solidali non è essere sacrificali.
In Italia una legge sul cambio di sesso è già disponibile per le persone che ne hanno bisogno. Il movimento omosessuale si è battuto contro le terapie di conversione, ma ora vediamo con orrore tante adolescenti e perfino preadolescenti che non si conformano alle norme di genere (come parecchie di noi da piccole) chiedere di essere convertite in “uomini” a suon di farmaci, senza che si dica loro che cambiare sesso è impossibile e che se continuano su quella strada saranno medicalizzate a vita, e senza tener conto delle e dei detransitioner, persone trans pentite che adesso cercano di tornare indietro da interventi irreversibili.
Inclusione
È una bella parola, inclusione. Sembra aprire nuovi orizzonti di uguaglianza e amicizia, ma purtroppo le sue conseguenze non sono sempre così positive. Le soggettività hanno bisogno di spazi autonomi, senza uno spazio tutto per noi non sarebbe esistito il femminismo né il movimento lesbico, come altri movimenti di liberazione.
Nel 2023, in nome dell’inclusione, associazioni femminili come UDI e ArciLesbica sono state messe di fronte a una scelta obbligata: o permettere l’iscrizione anche agli uomini, o non essere iscritte come associazioni di promozione sociale del RUNTS (registro unico nazionale del terzo settore) e declassate in una sezione diversa. Ecco cosa fa l’inclusione: per difendere il diritto di “tutti” (leggi: degli uomini) a partecipare a tutto, si discriminano le donne, il nostro diritto di associazione, di riunione, si espressione.
Prostituzione, non “lavoro sessuale”
Le donne non sono “vittime” da salvare, tuttavia il dominio maschile esiste e prevede l’avere accesso al corpo delle donne, anche tramite la prostituzione. Nel tardo capitalismo c’è un intreccio perfetto tra mercato e patriarcato. Il primo mantiene le donne povere e precarie rendendole prostituibili, il secondo tramanda attraverso la prostituzione le norme di genere che fondano la virilità sull’uso sessuale delle donne. L’industria globale del sesso è un business dagli immani profitti che riduce le donne a oggetti di consumo per gli uomini. Per questo la prostituzione non può essere chiamata “lavoro”. Farlo nasconde la violenza, l’altissima mortalità, la discriminazione e il razzismo estremi che comporta.
La prostituzione in Italia non è illegale, lo è il suo sfruttamento. Regolamentarla significherebbe assolvere i magnaccia e i trafficanti, legalizzandone gli abusi sulle donne intersezionalmente più vulnerabili: quelle provenienti da paesi poveri, da guerre, da violenze in famiglia, da disoccupazione.
Opporsi alla regolamentazione non significa essere contro le donne, ma contro gli utilizzatori e i mediatori. Prostituzione e pornografia sono per gli uomini un’autorizzazione ad abusare di tutte noi: vogliamo l’incolumità delle donne, anche in prostituzione, e percorsi di fuoriuscita per chi lo vuole.
GPA (gravidanza per altri)
Nei contratti di GPA nulla è gratuito. Trasformare la gravidanza in lavoro significa ridurre la nascita a merce, regolata da contratti imposti dai committenti. Le madri dette “portatrici” devono dissociarsi dalla gravidanza, cioè da se stesse. Seguite da psicologi, imparano a reprimere ogni legame con il nascituro. L’impianto di ovociti estranei e l’espianto di ovuli comportano rischi per la salute fisica e psicologica delle donne coinvolte.
Le difficoltà nel diventare genitori non giustificano il familismo amorale né l’uso del corpo femminile come strumento. Gli omosessuali, come avveniva in anni passati, possono accordarsi con donne solidali che ricorrerrano all’autoinseminazione o chiedere l’apertura delle adozioni, evitando il mercato riproduttivo. La GPA è un business con selezione delle gestanti, tariffari, aborti imposti e impedimento dell’allattamento. Ha analogie con la schiavitù riproduttiva e spesso sfrutta donne vulnerabili. Discutere di GPA non è odio, mentre vietarne il dibattito è autoritarismo e censura.
Omofobia e discorsi d’odio
Negli ultimi anni il termine “omofobia” è diventato onnipresente nel dibattito pubblico, rimbalzando dalle aule scolastiche alle dichiarazioni politiche, dalle proteste di piazza ai social media.
Potremmo rallegrarcene, ma è una vittoria apparente. Infatti questa parola è stata usata per etichettare ogni dissenso verso le richieste delle comunità LGBTQ+ su questioni come la gestazione per altri o la somministrazione di bloccanti della pubertà a preadolescenti. Se la parola “omofobia” viene usata per silenziare il dissenso non è più uno strumento di liberazione, ma di controllo. In particolare, le donne critiche verso quelle rivendicazioni sono accusate di fare “discorsi d’odio”. Non è diffamazione, insulto o minaccia dire
che nessun diritto passa per l’uso del corpo e delle funzioni fisiologiche altrui o lanciare l’allarme sui rischi per la salute delle donne sottoposte a gestazione per altri e per bambine e bambini trattati con i bloccanti della pubertà: non si invita a fare del male a nessuno, anzi si cerca di evitare che a qualcuno ne venga fatto. Etichettare questo come discorso “d’odio” significa voler restringere la libertà d’espressione.
Libertà
Oggi si spaccia per libertà vendere il proprio corpo, vendere/donare la creatura che si mette al mondo, il disporre del proprio corpo come di un abito intercambiabile o uno strumento inanimato separato da sé e si riduce il desiderio a quello individuale che può essere soddisfatto dal mercato. Ma possiamo parlare di libertà se una donna è pressata da necessità economiche? Se si mette a disposizione dei desideri altrui rinunciando al proprio? No, questo è il modello individualista proposto dalla forza manipolatrice di un capitalismo predatorio, che fa di esseri umani e desideri oggetti di consumo e condanna ciascuna alla solitudine.
Invece la libertà femminile guadagnata per tutte e tutti è libertà relazionale e non si afferma in astratto e in solitudine. Non vogliamo la parità con l’uomo preso a modello e misura di valore, ma la nostra soggettività libera, in un intreccio di relazioni inevitabilmente interdipendenti.
Solidali ma differenti
In conclusione, la nostra intenzione è sollevare interrogativi su una visione dell’inclusione e dei diritti che rischia di perpetuare sfruttamento e subordinazione delle donne a solo vantaggio del biomercato neoliberista. Consideriamo la mercificazione della vita come l’espressione più recente del patriarcato che vogliamo eliminare. Come femministe, crediamo che la lotta per la libertà delle donne passi prima di tutto dal riconoscimento della nostra differenza: non siamo né quello che gli uomini dicono di noi, né copie conformi degli uomini stessi. Il femminismo da sempre sfida i ruoli imposti dal patriarcato.
Ci opponiamo alla guerra e rifiutiamo l’aumento delle spese militari, vogliamo un pianeta vivo e sano, in cui l’umanità possa vivere senza stenti. Vogliamo un mondo senza razzismo e senza muri. Vogliamo lavori dignitosi e paghe eque, per produrre attività e cose utili e non distruttive, nocive o fonte di inutili sprechi.
Le nostre alleanze, la nostra solidarietà verso comunità oppresse è solidarietà di donne che sanno la forza e la durata delle loro lotte, nonostante la cancellazione tentata dalla storia ufficiale. Nessuno può chiederci un’alleanza che ci obblighi a dimenticarci di noi.
Le donne sono il soggetto del femminismo. E senza femminismo non si può porre fine alla strage di donne, a tutte le violenze e mutilazioni, alla privazione dell’istruzione delle ragazze e al furto delle proprietà intellettuali, alle paghe ridotte. Il femminismo ci restituisce a noi stesse. Solo noi possiamo costruire la nostra storia e la nostra libertà.
Mettendo al centro le relazioni politiche tra donne intendiamo trasformare tutta la civiltà, per arrivare a un mondo radicalmente diverso e migliore per tutte e tutti e non solo un po’ meno ingiusto di quello attuale.
Ilaria Baldini, Silvia Baratella, Grazia Cerulli, Alessandra De Perini, Daniela Dioguardi, Flavia Franceschini, Nuccia Gatti, Lucia Giansiracusa, Cristina Gramolini, Monica Lanfranco, Anna Merlino, Laura Minguzzi, Roberta Trucco, Roberta Vannucci, Stella Zaltieri Pirola (donne in relazione nella rete Dichiariamo)