UNA DONNA AL MESE – XXD 7

Hai mai sentito svantaggi nell’essere donna? No. Mi sono sentita svantaggiata, più per come mi sento, per come sono le mie capacità di avere a che fare col mondo, per il modo in cui il mio cervello pensa, e non penso che sia il cervello femminile in generale. Quando ho sentito questi svantaggi, e le lotte che ho dovuto fare, è stato più per come io penso e come vedo le cose, non perché sono femmina. Penso comunque di essere molto fortunata a essere cresciuta in quell’epoca in Irlanda. Sono nata nel 1954, e quando sono arrivata negli Stati Uniti per studiare al college avevo diciotto anni. Per le esperienze che ho fatto al college, non c’era differenza tra uomini e donne. Anche quando mi sono sposata, non avevamo ruoli tradizionali, ci spartivamo le faccende di casa e a lui piaceva pulire e far da mangiare, più di quanto non piacesse a me. Io non volevo fare il suo bucato, non ho voluto prendere il suo nome. Ho vissuto con molta libertà, non ho mai sentito come uno svantaggio il fatto di essere una donna, per niente. Come hai capito di essere femmina, da piccola? Io, di tutti i miei fratelli e sorelle, ero quella che combinava casino. Se riesco a ricordare… Credo di aver sempre pensato a me stessa come una donna – prima una ragazza e poi una donna. Potrebbe non essere vero, ma i miei ricordi del rapporto con i miei fratelli e sorelle sono molto più vivi, così come del rapporto con mia madre. Il fatto di avere a che fare con una madre che spesso è arrabbiata. Non mi ricordo bene quando ho pensato la prima volta di essere una donna… probabilmente quando a mia sorella hanno dato il primo reggiseno per fare sport. Io ero molto indietro nello sviluppo, anche quando sono arrivata alla sua età non ero ancora pronta per averne uno. Era una cosa che mi imbarazzava molto, ricordo, perché tutte le ragazze ne avevano uno. Le mie amiche hanno avuto le mestruazioni prima di me, e portavano il reggiseno. Quando ho pensato di essere abbastanza vecchia, ho trovato il primo reggiseno di mia sorella e l’ho provato, poi ho chiesto a mia mamma il permesso di indossarlo. È stato un momento importante. E poi, credo, ero impaziente di averlo perché ero diversa e mi prendevano in giro. La lezione di ginnastica era dura per me, perché qualche volta facevamo ginnastica insieme ai ragazzi, che ridevano di me perché avevo il petto piatto. Ed è stato allora che ho cominciato a sentirmi imbarazzata, prima non penso che me ne importasse un granché, anzi proprio per niente. Veramente il momento in cui ho voluto sembrare una donna come le altre è quando hanno cominciato prendermi in giro per il fatto che non sembravo una donna mentre le mie amiche sì. Che cosa signifca per te essere una donna adesso? È una cosa che adoro! Per me essere una donna significa esser una persona che è molto in contatto con i suoi sentimenti e con quelli delle altre persone: una persona che vuole essere sempre con gli altri, in comunità, parlare con gli altri e condividere, anche nutrire gli altri. Non tanto per proteggerli, ma per essere sempre parte della vita di altre persone. Per me essere femmina è quasi come includere il maschile. Non proprio nel senso di avere dentro di sé il maschile, le caratteristiche maschili, ma più perché sento che le femmine sono persone a tutto tondo, che usano tutte le parti del loro cervello. Sono molto contenta di essere una femmina, e ho avuto dei grandi modelli di ruolo. Un mio modello, nella prima parte della mia vita, è stata una donna che mi ha insegnato a essere molto indipendente, una donna molto forte, con una carriera. Era un’inglese. Ho avuto delle amicizie così belle, nelle quali ho davvero sperimentato e vissuto come le donne possono sentirsi così vicine le une alle altre, avere amicizie grandi. Io non credo che il significato di essere donna stia nell’essere madre, anche se per me la maternità è una parte che esprime il fatto che le donne sono molto intimamente coinvolte nelle vite delle altre persone, e condividono e incoraggiano. Significa anche lasciare che le altre persone ti incoraggino e ti insegnino. Per esempio lo fanno i figli quando crescono: è un percorso a due vie. Io ho cinque figli, cinque figli meravigliosi. Ora vivo molto nel presente, potrei dirti che cosa significa per me ora averli, non quando ero incinta – perché ogni volta è stato diverso, essere in gravidanza e poi crescerli, nutrirli. Mi è piaciuto molto, mi è proprio piaciuto vedere queste piccole persone crescere e le loro personalità svilupparsi.

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ALLE DONNE IL POTERE DI SALVARE L’AMBIENTE

di Isabel. (xxd 7, maggio 2011)
IN OCCASIONE DEI PROSSIMI REFERENDUM XXD INCONTRA ROSSELLA MURONI, TRENTASEI ANNI, DA SEDICI MILITANTE DI LEGAMBIENTE, DA TRE DIRETTRICE GENERALE DELL’ASSOCIAZIONE.
E’ stato facile per te, come donna, diventare direttrice generale? Non è stato facile e continua a essere durissima. Perché come spesso accade per le donne quando arrivano ad avere dei ruoli di responsabilità la realtà è che comunque sei circondata da uomini e soprattutto il metodo di lavoro e le logiche continuano a essere maschili e l’idea che avevo sempre avuto che arrivi in luoghi di potere e cambi le regole non è cosi attuabile. Quanto successo in Giappone pensi che influenzerà la politica sul nucleare in Italia? Purtroppo la notizia del disastro nucleare in Giappone così come è apparsa sugli schermi italiani è cosi rapidamente scomparsa. La cosa che non si sa è che la situazione è lungi dall’essere sotto controllo, che c’è un danno ambientale epocale. Ma di questo si parla poco. In seguito alla revoca del referendum sul nucleare pensi che sarà più difficile raggiungere il quorum di affluenza per quelli sull’acqua pubblica e il legittimo impedimento? Indubbiamente. Ma noi ci lavoreremo con passione e faremo di tutto perché si raggiunga il quorum. E’ evidente che la mossa del governo è dettata dalla convenienza e non dalla convinzione. Parleremo con gli italiani, staremo nelle piazze per mobilitare i cittadini e portarli a votare. Abbiamo calcolato che dobbiamo portare a votare 26 milioni di persone e che la televisione e la politica al solito si stanno occupando di altro. C’è un problema di informazione che stiamo cercando di superare organizzando centinaia di banchetti su tutto il territorio e incontri nelle scuole, anche sul nucleare. Il 21 e 22 maggio stiamo organizzando una catena umana intorno alle centrali nucleari per continuare ad attirare l’attenzione e ricordare agli italiani che si devono occupare del nucleare. C’è chi considera estrema la politica della decrescita. Purtroppo la parola decrescita nell’immaginario rimanda a un rinunciare a un benessere già raggiunto. Invece si può vivere benissimo e con tutte le comodità consumando meno e mangiando sano con prodotti a km zero e biologici. Quindi dovremmo parlare di decrescita dei consumi nel senso che bisognerebbe consumare meno e consumare meglio tutti quanti. Per cui la fonte rinnovabile per eccellenza diventa proprio il risparmio energetico. A livello mondiale come siamo messi con gli accordi per la tutela ambientale? Beh da una parte ci sono un sacco di fenomeni che dicono che effettivamente dei cambiamenti climatici sono in atto. Cambiamenti che non vanno confusi con quelli metereologici. Dall’altra parte abbiamo avuto una comunità internazionale molto reticente a parlare di tutela ambientale, tanto che il protocollo di Kyoto è stato a lungo osteggiato dalle grandi potenze. In questo senso l’elezione di Obama in America è stata un segnale di grande speranza per tantissimi, per la prima volta si è creduto nella green economy non solo per i cambiamenti climatici ma anche come risposta alla crisi economica. Che cosa è la green economy? È l’economia legata alle fonti rinnovabili quindi solare, eolico geotermia. Qui c’è una contraddizione tutta italiana. Perché l’Italia attraverso i progettisti, le aziende che ci sono poteva, su questo, giocare un ruolo da leader a livello mondiale. Tuttavia quanto successo con il decreto Romani, che ha messo in discussione gli incentivi statali, ha fatto quello che non si dovrebbe mai fare in economia cioè cambiare le regole mentre si sta giocando: questo ha fatto impazzire il mercato, mandando in crisi un sistema fatto di piccole e medie imprese che contano più di 400 mila dipendenti. È stato un vero peccato perchè la green economy è un pezzo sano del nostro paese e soprattutto rispetto alla crisi economica è riuscita a superarla anzi a guadagnarci. L’ecofemminismo: perché c’è all’estero e da noi in Italia è tutto molto sfumato? In Italia non esiste neanche la parola. Devo dire che la Legambiente pur avendo tante donne tra le sue fondatrici ha avuto sempre un pudore fortissimo ad accostare il femminismo all’ecologismo. Invece io credo che l’ambientalismo abbia ricevuto dalla tradizione femminista tanti aspetti. Dall’attenzione alla qualità della vita, alla salute, al corpo, valori presenti in un certo femminismo e che in un certo senso sono stati riscoperti da un ambientalismo come quello della Legambiente. Poi però la Legambiente è stata sempre governata da maschi per cui è stato molto difficile fare un ragionamento sull’ecofemminismo. Anche se io sto lavorando molto su questo tanto che La nuova ecologia, il nostro mensile storico, ha dedicato due numeri tematici proprio all’ecofemminismo. Le donne inquinano di più? Le donne inquinano di più perché sono sempre loro a occuparsi della famiglia e quindi dei loro consumi. Su questo abbiamo un potere molto forte in mano. Per cui se tutte le donne italiane decidessero per esempio che i bambini devono mangiare biologico ciò accadrebbe subito. Le condizioni pessime in cui versa la qualità urbana nel nostro paese vede nelle donne le vittime per eccellenza. Quindi sono loro le protagoniste eccellenti di una riscossa della qualità ambientale perché sono quelle che ne trarrebbero maggior benessere. Da qui la nostra scelta anche di indirizzare gli acquisti indicando quali sono i prodotti che dal punto di vista ambientale producono meno CO2, sono “a km zero” oppure come sono riciclati. Una piccola rivoluzione dal basso in cui l’ambientalismo non è una dimensione possibile solo per chi ha una coscienza critica ed è consapevole ma uno stile di vita comune. Che ne pensa della campagna di Greenpeace Save the forest e sull’uso del corpo delle donne? Per i trent’anni della Legambiente ho fatto fare un manifesto da Milo Manara che è un disegnatore storico che ha lavorato tanto per noi. Manara è un fumettista che ha fatto del corpo delle donne il suo tratto caratteristico. E devo dire che mi sono arrivate delle critiche su questo manifesto. Tanto che mi è venuto il dubbio che anche noi fossimo cadute nell’idea di utilizzo del corpo. Io credo che da una parte c’è modo e modo di usare il corpo. Ormai per vendere qualsiasi cosa si usa il sedere delle donne. In questo caso però penso che la qualità ambientale e il fatto che ci sia una terra madre forse è uno dei pochi casi in cui invece il corpo delle donne racconta molto bene questa bellezza assoluta dell’ambiente e quindi questa forza della natura che quando viene offesa diventa devastane per cui appunto è bella e poetica ma se provocata la natura è devastante e questo credo che sia una caratteristica molto femminile

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ORA ET LABORA

di Alessia Muroni. (xxd 7, maggio 2011)
Quando leggerete, la Chiesa conterà un nuovo beato, Giovanni Paolo II, festa 22 ottobre. Le notevolissime spese dell’evento non rientreranno nella copertura elargita dallo Stato italiano ai Grandi Eventi, in cui sono generosamente iscritti anche tutti gli eventi relativi alla Chiesa Cattolica che implichino un qualsiasi effetto logistico in territorio italiano. Ogni spesa strettamente relativa all’organizzazione delle varie iniziative sarà sostenuta da privati (donazioni sul sito www.karol-wojtyla.org) e da sponsor. Tutto a posto? Da un certo punto di vista sì: è lecito che la Chiesa Cattolica festeggi un nuovo Beato, nei modi e nei tempi opportuni. Sono affari loro. Eppure… Il giorno 1° maggio 2011, ma già dal 30 aprile e fino al 2 maggio, Roma sarà completamente dedicata al nuovo beato. Questo significa, tra le altre cose, un impatto sulla città in termini economici, logistici ed ambientali enorme. Questo impatto verrà sostenuto anche dal Comune di Roma, con una spesa prevista di circa 3 milioni di euro, e pagato dalla stessa amministrazione che all’indomani dell’elezione del nuovo sindaco Alemanno dichiarò che Roma si trovava sull’orlo del collasso economico a causa dell’avventata gestione Veltroni. Si dirà che nel frattempo sono arrivati i fondi di Roma Capitale. Ma Roma è una città in condizioni difficili, con strade impraticabili e pericolose, una totalmente manchevole pulizia urbana, una pessima rete di trasporti pubblici e una serie incredibile di problemi relativi a cose non proprio secondarie, dagli asili nido alle politiche sociali ed assistenziali di vario genere. Invece ci occuperemo di impiegare centinaia di agenti di pubblica sicurezza, di pulire tonnellate di immondizia, di donare ore di corse gratuite sui mezzi pubblici, di pagare straordinari. Altra considerazione: il 1° maggio, Festa dei Lavoratori, ratificata in Italia nel 1891, riconfermata dopo il Ventennio fascista nel 1945, è una delle poche feste nazionali laiche e condivise da tutti. A Roma questa festa è celebrata ormai dal 1990 da una festa-concerto organizzata da Cgil, Cisl e Uil. Anche questo evento pone annualmente qualche problema a Roma e ai suoi cittadini, ma la scala è a dir poco ridotta. Tolte queste considerazioni pratiche, occorre rilevare con certo fastidio questa sovrapposizione di una festa nazionale laica con un evento religioso. Diciamo pure che il calendario gregoriano ha 365 giorni, a volte 366: si poteva evitare. Soprattutto quest’anno, in cui la concomitanza con il 150° carica l’evento di ulteriori momenti di riflessione, essendo l’Italia una Repubblica basata sul Lavoro – almeno finché continueremo ad avere una Costituzione. Si è detto che la data è stata scelta perché il 1° maggio è anche Festa della Divina Misericordia, istituita da Giovanni Paolo II, ma quest’anno è anche Domenica in Albis e festa dei santi Grata, Valpurga, Brioc, Marculfo, Panarete e altri ancora e non per questo nessun cattolico ha mai avvertito l’urgenza di sottolineare la cosa organizzando una beatificazione. Le polemiche sono tante, ma il problema è uno e, temo, di impossibile risoluzione: da 2000 anni Roma è città cristiana e città laica. Dal 1929 è sede di un disgraziato connubio di Stati e invito tutti a rileggersi i termini dei Patti lateranensi e dell’Accordo di Villa Madama del 1984, nonché a scoprire le innumerevoli e sorprendenti concessioni seguite soprattutto nel Ventennio berlusconiano. La nostra Costituzione all’articolo 7 sancisce una netta separazione dello Stato italiano da quello della Chiesa, i quali “ciascuno nel proprio ordine, sono indipendenti e sovrani”. Questa la Costituzione, questo uno dei molti articoli la cui applicazione è stata largamente disattesa. Dovremmo rivedere i Patti lateranensi. Sarà molto più facile – e onesto – modificare l’articolo 7

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UNA DONNA AL MESE – XXD 6

La femminilità, come altri aspetti del sé, è qualcosa il cui significato è altamente individuale. Per me essere femminile aveva poco a che fare con i rigidi rituali di genere degli anni 50, volti in realtà a promuovere le nascite, come la scuola di ballo e poi i balli delle debuttanti. Essere femmina non era una costruzione fragile, e neppure stretta e costringente, ma era anche qualcosa di più che un puro codice di comportamento. Tempo addietro, io provavo un senso incrollabile della mia femminilità, anche se in realtà non giocavo molto con le bambole, maternamente, e invece mi piaceva andare in bici senza mani, pedalando intorno all’isolato con i miei vestiti da ragazza cowboy. La vera femminilità, che è una cosa opposta all’impersonare una donna, è radicata così profondamente nelle nostre menti che non può essere scalfita dal fatto di avere o meno dei figli. Inoltre, dal momento che siamo femmine, tutto quello che facciamo deve essere, per definizione, femminile. “Essendo me stessa, sono femminile” mi ha detto solennemente una mia amica, moglie senza figli. “Mai, nemmeno per un attimo ho pensato che dovessi avere dei bambini per essere una donna o per essere femminile”. La femminilità, ne ho concluso, è una sensibilità che si evolve insieme ai sogni e ai desideri, una serie di valori che sono influenzati dagli ormoni e dall’educazione, un complesso che può includere la maternità oppure non includerla. A trent’anni, poco prima di lasciare il mio lavoro per diventare una scrittrice a tempo pieno, la mia personale etica diventava più netta. A natale del 1977, spinta dal carattere sentimentale del periodo (e seguendo le orme di mia madre) ho annotato nelle mie pagine private che non mi piacevano “la mobilità sociale ascendente, il materialismo che viene preferito ai valori umani come il calore, il dare nutrimento, la gentilezza. La mancanza di gentilezza in particolare mi infastidiva”. Due decenni dopo, credo che la mia vita a cinquant’anni sia molto femminile, ed è arricchita da mio marito, dalla mia casa e dal giardino, dal mio lavoro e dalle persone a cui voglio molto bene, inclusi un certo numero di bambini. Scrivere mi permette di dare un’espressione piena a quello che mi importa come donna. Trovo molto femminile lavorare a casa, dove posso integrare la scrittura con quegli aspetti così piacevoli della vita quotidiana come cogliere fiori, far da mangiare, portare a spasso il cane, lavorare a fianco di mio marito artista, prendere il té con un’amica e salutare i vicini alla posta. Sono arrivata a credere che la femminilità sia abbastanza vasta da comprendere il fortificare gli altri e l’esprimere se stesse. Se noi donne senza figli possiamo coraggiosamente accettare tutte le nostre inclinazioni e interessi come assolutamente legittimi e donnani (womanist), possiamo allargare il significato di cosa vuol dire essere una donna. Laurie Lisle: “Senza figli. Sfidare lo stigma della non procreazione” (Without child. Challenging the stigma of childlessness, Ballantine books, Ney York 1996, pp. 193-4).

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DONNE DISCRIMINATE, DONNE DISCRIMINANTI

di Marta Gallina. (xxd 6, aprile 2011)
LA FATICOSA LOTTA PER L’EGUAGLIANZA: È GIÀ STATO FATTO TUTTO? LA STRADA È ANCORA LUNGA? E, IN FONDO, CONTRO CHI BISOGNEREBBE COMBATTERE?
Lady Mary Wortley Montagu, scrittrice e nobildonna inglese, lasciò nel 1716 la sua patria per seguire il marito ambasciatore in Turchia. Dalla sua avvantaggiata posizione, ci offre una descrizione di quello che ella riuscì a vedere, comprendere e scrivere nell’epistolario con sua sorella (Embassy to Costantinople. The travels of lady Mary Wortley Montagu). Ecco un estratto di una sua lettera sulle donne turche: “Si nota immediatamente come hanno una maggiore libertà di quanta ne abbiamo noi. Non c’è donna di qualunque rango alla quale sia permesso di girare per le strade senza due veli di mussola, non vi è uomo che osi toccare o seguire una donna per strada. Un tale perpetuo travestimento dà loro tutta la libertà di seguire le proprie inclinazioni senza tema di essere scoperte […]. Raramente le gran dame rivelano la loro identità ai propri amanti, ed è così difficile scoprirla che essi solo molto raramente riescono a indovinare il nome col quale hanno corrisposto per più di sei mesi. Puoi capire con facilità che il numero di mogli fedeli è quanto mai esiguo in questo piccolo Paese […]. Vero è che la legge permette di avere fino a quattro mogli, ma non vi è uomo di principi che faccia uso di tale libertà, o di donna di rango che abbia avuto a soffrirne […]. Vedi dunque, cara sorella, che i comportamenti del genere umano non differiscono poi così tanto fra loro”. Era il 1716 e probabilmente poco cambiava da una donna occidentale a una orientale, se non il fatto che quest’ultima, grazie all’utilizzo di un velo, riusciva a coprire e preservare oltre alla sua identità anche la sua reputazione. In questi tre secoli che ci separano dall’esperienza di Lady Montagu, cosa è accaduto nel cosiddetto mondo occidentale? Battaglie per il suffragio universale, battaglie per l’accesso agli studi, battaglie femminili, battaglie femministe…e, infine, la famosa emancipazione. Le donne indossano minigonne, escono senza la forzata compagnia di un uomo, gestiscono il proprio patrimonio, sposano chi amano, studiano, lavorano fuori casa, affidano i figli a una baby-sitter. E allora, battaglia terminata? Purtroppo per troppe persone è così. L’altro giorno, ad esempio, ero connessa su Facebook – che, piaccia o no, è ormai una utilissima finestra sul mondo – e ho letto dei commenti di alcune ragazze all’indignazione che qualcuno aveva espresso riguardo all’utilizzo sconsiderato della prostituzione in politica, scandalo delle ultime settimane. Dicevano pressappoco questo: “In passato c’erano motivi seri per lottare, per pretendere diritti, rispetto, considerazione. E parità. Oggi siamo mogli, madri, lavoratrici, siamo emancipate, in molti casi siamo anche più in gamba degli stessi uomini, abbiamo uno spirito organizzativo tra lavoro e famiglia invidiabile a qualsiasi essere umano appartenente al genere maschile! E state qui a lamentarvi se delle donne scelgono di essere puttane?! A voi che cambia?! Dove viene minata la vostra dignità?!”. Non c’è più bisogno di lottare, quello che era da fare è stato fatto nel ’68, capitolo chiuso. Allora, chiedo, il fatto che la maggioranza delle persone laureate sia donna, ma che poi la maggioranza di chi trova un lavoro sia uomo non importa? O il fatto che le donne sempre e comunque abbiano uno stipendio inferiore e se sono in età di maternità vengano facilmente non assunte? O che vengano stuprate e violentate dentro e fuori dalla famiglia? Che, se hanno un lavoro, una volta a casa debbano fare anche le faccende domestiche mentre il marito è seduto in poltrona? Che le donne abbiano al giorno molto meno tempo libero rispetto agli uomini? E che se una donna aspira a un posto di prestigio, un qualche pezzo grosso magari le chiederà di passare prima sotto la sua scrivania? È aberrante non tanto il fatto di venire continuamente discriminata, quanto il sentirsi dire dalle stesse donne di smetterla di lamentarsi perché si è discriminate. Penso che questo sia, da parte loro, un meccanismo di difesa. Come ho sentito dire nelle aule della mia università da una ragazza a proposito della possibile esistenza o meno di una metodologia femminista nelle scienze sociali: “Non è giusto fare ancora differenze. Dividere delle correnti di pensiero in base a due diverse sensibilità non ha senso perché significa da parte delle donna auto-discriminarsi. La parità tra i sessi si è già raggiunta, è inutile rivangare nel passato”. In pratica, non bisogna più parlare di rivendicazioni delle donne, altrimenti si accentuano le differenze. Quindi, se nel tuo paese per fare carriera devi usare il corpo come lasciapassare, così sia. È una libera scelta. No, accidenti, non lo è! Un breve esempio: mia nipote, tre anni e mezzo. Lei gioca, corre all’aperto, si diverte e talvolta guarda anche la tv. Cosa può vedere in quella scatola? Balletti di ragazze seminude, che magari si avvinghiano al presentatore, che non aprono bocca ma parlano col corpo. Se non ci fosse sua mamma a cambiare canale e farle vedere i cartoni o a spiegarle che non è così che va il mondo, quello non diventerebbe forse il suo unico modello? E un modello diventa presto uno stile di vita da seguire. Le ragazze o le donne che vediamo nude in televisione o che saltano la gavetta politica per una qualche nascosta abilità non hanno scelto di vendere il proprio corpo per degli scopi a loro cari, hanno solamente continuato sulla scia di un ruolo che è stato loro imposto. Come affermava Judith Lorber, spiegando l’affermazione di Connell “Il corpo, senza cessare di essere tale, viene disciplinato e trasformato in prassi sociale”; “I corpi fisici sono sempre corpi sociali”. Perciò, anche oggi, non possiamo dire che tutto è stato fatto e di essere totalmente libere. Molto è migliorato, molto rimane da migliorare. Cercare di colmare le differenze esistenti fra i sessi non significa vivere nel passato. Significa avere abbastanza senso critico da ammettere a se stesse – anche se è dura – che bisogna ancora lottare. A testa alta e senza paura.

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NUD* ALLA MECCA

di Daniela Danna. (xxd 6, aprile 2011)
DALLE PASSEGGIATE NATURISTE PER CASTRO AL BURLESQUE LESBICO ALLA WORLD NAKED BIKE RIDE. TUTTE LE OCCASIONI PER MOSTRARE IL “VESTITO DEL GIORNO DELLA NASCITA” (IN INGLESE = “COMPLEANNO”) A SAN FRANCISCO. La biciclettata mondiale nuda!” grida Jeff, un aficionado del nudo alla Massa critica dell’ultimo venerdì del mese, quando indossa solo un boa piumato. “Solo a dicembre non ce l’ho fatta a spogliarmi per il freddo”, mi racconta. È l’indiscusso leader dell’appuntamento specificamente mirato ad attraversare la città in bici “come mamma ci ha fatti”. Non è obbligatorio, ma la maggior parte gradisce e si toglie i vestiti. È un’iniziativa verde, con l’invito a usare l’unico veicolo a emissioni zero, la bicicletta, e accettare questa parte della nostra natura animale: il piacere di sentire il sole sulla pelle e l’assenza di vergogna per il corpo. “Quest’anno ci siamo moltiplicati, l’anno scorso l’abbiamo fatto per la prima volta, con un percorso prestabilito al contrario della massa critica che sciama per la città decidendo di volta in volta la meta. L’anno scorso eravamo in dodici, sei nudi e sei no”. Un centinaio di partecipanti ci scorazzano intorno, pedalando con diversi gradi di nudità, ma i più completamente senza vestiti. Promette bene per il prossimo appuntamento: il 20 aprile, Giorno della Terra. Le donne sono in forte minoranza, alcune sono nude ma si coprono il viso. Il motivo? “Ci sono troppi fotografi. La gente non sa più vivere nel momento”, “Non voglio farmi riconoscere con le Nike”. Commenta un passante: “È come l’Islam. Solo, al contrario”. La reazione degli astanti è esilarata. Colpi di clacson e grida “Siete grandi!” Solo a qualche bambino i genitori coprono gli occhi (ma non ci sono scene sessuali…), qualche fidanzata (dall’aspetto sono turisti venuti da lontano) molla un ceffone al ragazzo che vorrebbe fotografare. Presente alla biciclettata anche Gypsy Taub, che fa pubblicità al suo blog dove, nuda, intervista uomini e donne più o meno celebri e altrettanto nudi che parlano di argomenti scomodi, come l’educazione sessuale per i minori. Si scrive col rossetto sulla coscia l’indirizzo www.mynakedtruth.tv. “A San Francisco non vediamo l’ora di toglierci i vestiti”, mi dice una partecipante alla biciclettata. Ed è vero – persino per le lesbiche! Nell’ultimo mese tra San Francisco e Oakland – dall’altra parte della baia, un luogo ad altissima concentrazione queer – ci sono stati almeno tre spettacoli di burlesque fatti da donne, e anche trans ftm, per un pubblico queer. Il primo cui ho assistito è di una donna parecchio grassa e parecchio tatuata che porta in scena un’enorme vagina “parlante”: era il pupazzone a fare il lip-synch a un pezzo soul mentre la sua portatrice lentamente e comicamente (effetto voluto!) si spoglia. Anna Conda, la drag queen che conduce la serata, commenta: “Mi procurerà un bel po’ di incubi stanotte…” Inventarsi un personaggio (la sirenetta, il gentleman dei film anni 40, la pirata), scegliere una canzone (dai Muse a Frank Sinatra a canzoni inventate per l’occasione…), studiarsi le mosse per togliersi i vestiti (il più bizzarri possibile) in modo sensuale ma anche divertente, sorprendente (come le calze a rete indossate da un trans ftm operato, con le x nere sui capezzoli – scelta fatta anche da un drag king barbuto) è un hobby molto diffuso, e significa non oggettivazione standardizzata del proprio corpo, ma espressione libera di sé, sperimentazione del potere che dà il palcoscenico, anche quello di seduzione di corpi veri, con tutta la loro varietà di altezze, grossezze, sproporzioni varie, gradi di bellezza e di bruttezza. Indipendentemente dal grado di bellezza, uomini nudi del Free Body Culture passeggiano per San Francisco, si bevono una birra fuori e dentro i locali. “In un posto ci hanno fermati perché eravamo in troppi. Hanno spiegato che uno o due nudi possono andare, ma un intero gruppo no”. Un reporter del giornale di quartiere gratuito Castro Courier, J. Dean Woodbury, ha deciso di esplorare la questione, ma prima di scendere in strada nudo ha chiamato la polizia. Il sergente Chuck Limbert ha dichiarato: “Ci chiamano tutte le settimane, ogni genere di persona, per questioni legate alla nudità, ma è raro che facciamo una denuncia. Trovo che sia molto più utile parlare con le due parti e arrivare a un accordo. Alla fine si tratta più di aprire un dialogo che accusare la gente di un reato minore. Qualche volta non è nemmeno un problema di nudità ma di igiene: la gente si lamenta dei tipi che si siedono nudi sulle panchine a Jane Warner plaza”. Woodbury nota che queste scene non accadono in altre parti della città ma solo a Castro, e da anni. Solo ora sono però diventate oggetto di controversia, probabilmente perché il quartiere è abitato sempre più da famiglie, comprese quelle gay e lesbiche, che non vogliono che i figli guardino uomini nudi che passeggiano per strada. Ed ecco il report del reporter: “Camminando per il quartiere gay con nulla se non le mie scarpe da tennis, ho avuto l’impressione che alla maggior parte delle persone non importasse molto. Ho avuto un po’ di fischi e di occhiate stupite, ma per la maggior parte del tempo sembrava il vestito nuovo dell’imperatore. Non molti volevano parlare con un giornalista nudo”, ma alla fine ha trovato la drag queen Thirsty Alley, che ha dichiarato: “Mi sento molto offesa in realtà da quelli che passeggiano in tuta da ginnastica e ciabatte. Mandano il messaggio ‘non me ne frega nulla di come appaio’, mentre una persona nuda probabilmente ci ha riflettuto almeno un pochino prima di apparire così. L’apatia è così poco attraente…” Nelle guide per i turisti Culture Shock si legge che in molte città è normale vedere due persone dello stesso sesso che si baciano. Dovrebbero aggiornarla con le scene di nudità. Certo, non si salverà il pianeta con il nudismo, ma il divertimento è garantito.

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PROPOSTA INDECENTE: IL SONDAGGIO SULLA VERECONDIA

Di Christine Seifert. (xxd 6, aprile 2011)
COME VOGLIONO CHE LE DONNE SI VESTANO I FONDAMENTALISTI CRISTIANI STATUNITENSI? TRADUZIONE DI LORI CARSON CAMONA DELL’ARTICOLO APPARSO IN BITCH: FEMINIST RESPONSE TO POP CULTURE, NUMERO 49, 2010. Se avete sempre desiderato che vi dicessero se la canotta a bretelline che portate è troppo provocante per un pubblico maschile dai 12 anni in su, sappiate che potete rivolgervi a un sito fatto apposta. Il Sondaggio sulla verecondia (Modesty survey) è un’iniziativa del sito cristiano Rebelution (lo slogan: “L’adolescenza che si ribella alla svalutazione delle aspettative”), fondato da Brett e Alex Harris, fratelli minori del pastore e autore di bestseller Josh Harris. L’indagine, avviata nel 2007, si proponeva di mettere in chiaro, una volta per tutte, come i giovani cristiani preferirebbero veder vestite le donne. I risultati di recente pubblicazione tratteggiano uno scenario deprimente oltre che tragicamente noto. Ai partecipanti è stato chiesto di esprimere il proprio consenso o dissenso rispetto ad affermazioni come: “Il costume a due pezzi è un indumento impudico”, concetto sul quale più della metà si è detta fortemente d’accordo. Un giovane ventitreenne aggiunge “Se non lo capite, dovete proprio tornare all’Abc”. Un diciannovenne scrive del costume a due pezzi: “Non ci siamo proprio. A chi verrebbe in mente di infilarsi una cosa tanto indecente per andare al parco. E se dovessi inventare un indumento che non induca in tentazione, questo sarebbe veramente il meno efficace…”. Altre asserzioni vanno a saggiare una serie di indumenti e comportamenti. Cose del tipo, è accettabile che i laccetti del costume fuoriescano da una tenuta altrimenti pudica? Il 48,8% dei ragazzi ha risposto “Sì”. È dignitoso che una ragazza, nel piegarsi, metta in mostra un pezzettino di schiena? Attenzione signore mie: il 63,6% dei partecipanti lo ha definito un comportamento potenzialmente eccitante. Il sondaggio definisce “elementi di intralcio” tutti gli indumenti o comportamenti che producono un effetto tonante nelle mutande. Un intralcio piuttosto importante sembra riguardare tutto ciò che le ragazze celano sotto i vestiti o nel proprio cuore. Anche una mise in apparenza pudica può tradire atteggiamenti inverecondi: secondo il 57,4% dei referenti, l’avvistamento di una bretellina del reggiseno – pur se accidentale – rappresenta un elemento di intralcio perché svela l’indole più autentica di una ragazza. A proposito di bretelline di reggiseni, un partecipante diciassettenne ci tiene a precisare che: “Le bretelline di per sé non sarebbero gran cosa, se non fosse che il 90% delle volte che ne vedi una, poi ti accorgi che si accompagna ad altri particolari inopportuni”. Un altro adolescente scrive che lo scivolare della bretellina: “Invita la mente a domandarsi cosa ci sia sotto la maglietta e a cercare di indovinare come sia fatto il resto dell’indumento”. Un altro giovinetto è convinto che le leggi della fisica dovrebbero sottostare al volere del suo pistolino quando scrive: “Per favore, smettete di farvi ballonzolare il petto. Scusate se ve lo dico, ma è veramente una grossa fonte di distrazione”. Non c’è quindi da stupirsi se più che descrivere i rischi dei jeans elasticizzati il sondaggio va a rovistare, svelandoli, tra i segreti rodimenti di coloro che si sono presi la briga di partecipare. A proposito, secondo il 64.9% delle risposte, i jeans elasticizzati sarebbero da abolire. Un rappresentante della fascia d’età 40-49 anni scrive che chi porta una canotta con le bretelline sopra la maglietta “Sta provocando. Sta invitando il maschio che le sta di fronte a immaginare come starebbe la canottiera senza la protezione offerta dalla maglietta”. La ringraziamo, viscido signore, per averci dato l’idea di come sbava sulle adolescenti quando le guarda. Rebelution si ingegna a prevenire qualsiasi accusa di sessismo – o di pura misoginia – tranquillizzando i lettori che il sondaggio non è inteso a dettare alle ragazze cosa mettere e cosa evitare: “Vi stiamo solo dicendo quali sono le cose da cui noi, in quanto ragazzi, ci dobbiamo difendere”. Sembra persino che vi siano state giovani donne che morivano dalla voglia di sapere cosa ne pensano i coetanei delle scollature sulla schiena, del rimmel e dei body. Più di duecento tra ragazze e donne di ogni età hanno inviato a Rebelution domande sui vestiti e sui modi di vestirsi. E nel giro di pochissimi giorni hanno ricevuto il parere di ben 1600 partecipanti di sesso maschile. L’implicazione sottile è che se ci sono donne che desiderano questo tipo di responso, l’indagine non può essere tacciata di sessismo. La triste verità è che il Sondaggio sulla verecondia rinforza l’idea trita e pericolosa che le donne sono responsabili dei pensieri impuri di uomini e ragazzi — come dice uno dei partecipanti “se una tipa si mette uno spacco sopra il ginocchio mi domando quali siano le sue intenzioni”. Ciò significa che le ragazze devono stare attentissime, perché la minima provocazione può comportare il risveglio dell’incontenibile arrapamento maschile. Ora, se veramente la lussuria trova modo di scatenarsi, grazie al Sondaggio sulla verecondia ora sapranno tutti a chi dare la colpa

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LA REGOLA DEL PARTO CESAREO

di Annalisa Priolo. (xxd 6, aprile 2011)
L’ALTA PERCENTUALE DI TAGLI CESAREI IN ITALIA ESPONE LE DONNE A RISCHI EVITABILI: IL PUNTO DI VISTA DI UNA GINECOLOGA SULLA NECESSITÀ DI UNA RIFORMA A FAVORE DEL PARTO NATURALE NON SOLO PER MOTIVI ECONOMICI.
L’ effetto collaterale delle scelte degli ultimi 20 anni in campo ostetrico-ginecologico è un numero troppo elevato di tagli cesarei. Motivazioni culturali e scelte di tipo politico, sociale, giuridico, organizzative e professionale dei numerosi attori coinvolti hanno prodotto, in maniera del tutto inconsapevole, rischi notevoli per la salute della donna, ricadute importanti di natura economica per il sistema sanitario, perdita di credibilità dell’offerta di salute e dell’autorevolezza delle varie competenze professionali coinvolte. Il percorso che ha portato all’uso scriteriato della chirurgia è stato lungo e altrettanto sarà porvi rimedio. Lo sviluppo di una Medicina di Genere, l’Ostetricia e Ginecologia, ha consentito alle donne di modificare nel profondo l’esperienza fisica con il proprio corpo, attraverso il controllo della fertilità, la diminuzione netta dei rischi del parto, l’abolizione dell’aborto clandestino, la conoscenza sempre più dettagliata delle cause di malattia, lo sviluppo della prevenzione delle malattie femminili, il diritto ad una sessualità consapevole. Il “corpo femminile” ha una sua storia legata ai cambiamenti che dagli anni 30 ha consentito alle donne di affrancarsi da un concetto di femminilità essenzialmente negativo – determinato dal terribile condizionamento storico imposto da una salute cagionevole con alti tassi di mortalità e morbilità legati alle complicanze del percorso riproduttivo – fino ai giorni nostri in cui ci si confronta con una maternità sempre meno possibile o rinviata ad una età che nulla ha più di fisiologico. Le scelte personali e i cambiamenti sociali, rispetto a tempi e modalità di scelta della nascita di un figlio, si incontrano con altre cause culturali e determinano paura, disagio, sfiducia e pregiudizio nella donna che deve partorire, facendola optare per il taglio cesareo. Per esempio, il valore dato al corpo femminile, in senso prevalentemente estetico, induce a non accettare i cambiamenti inevitabili prodotti dalla gravidanza e dall’allattamento, ma si riscontra anche la paura che la vagina dopo il parto non sia più la stessa e che di conseguenza possa cambiare la vita di relazione sessuale. Tuttavia, anche la medicina moderna ha diffuso il falso messaggio che il dolore è un nemico da eliminare e non un sussidio alla diagnosi delle patologie. Nel parto è il percorso obbligato per il raggiungimento di un risultato: il proprio bambino. Come il concetto di fatica ed impegno personale nella vita quotidiana e nel mantenimento della propria salute non è più parte essenziale del messaggio educativo, così partorire è faticoso ed impegnativo. Per inciso, neppure lontanamente paragonabile all’investimento fisico e psichico del crescere un figlio, che è spesso causa d’importanti sindromi depressive post parto e di maltrattamenti e violenze agite sui bambini in ambito familiare, e del tutto sottostimate. La classe medica, soddisfacendo logiche di mercato personali, ha diffuso la convinzione che i risultati in termine di salute fossero dipendenti dal singolo professionista, più che da solidi presupposti scientifici, da strutture di riferimento, da un buon lavoro d’equipe e soprattutto dall’alleanza terapeutica con il paziente. Ciò ha determinato l’affidamento passivo, acritico, inconsapevole – erroneamente chiamato fiducia – che si sposa all’eccessivo protagonismo delle decisioni terapeutiche, che non è mai messo in discussione, né sottoposto a verifica costruttiva. Questa cattiva pratica è barattata, in ambito riproduttivo, con la garanzia del bambino perfetto richiesta di tutti i genitori, legittima ma oggettivamente irreale ed irrealizzabile. La riduzione progressiva della natalità, iniziata negli anni 50, ha prodotto maggiori investimenti emotivi ed enormi aspettative sull’unico evento gravidanza, creando l’immagine, anche negli operatori della Sanità, del bambino prezioso. Non c’è più spazio per le complicanze patologiche, che pure sono previste, anche in assenza di dolo da parte dei sanitari, durante il percorso riproduttivo. Inoltre, la progressiva riduzione della mortalità materna ed infantile e la rilevanza data dai mass media agli incidenti ostetrici – che non sempre accadono per colpa grave – ha indotto nell’immaginario collettivo e scientifico la totale negazione ed ignoranza dei rischi legati alla gravidanza e al parto. Infine, la fecondazione assistita, creata originariamente per le persone affette da patologie che precludevano il raggiungimento di una gravidanza, ha di fatto indotto le persone sane dal punto di vista riproduttivo a dilazionare il più possibile la ricerca della gravidanza stessa, nell’erronea convinzione che tutto sia possibile, anche il superamento delle leggi biologiche. Oltre alle ragioni culturali e sociali riferibili alla donna ci sono anche quelle di ordine organizzativo, professionale e giuridico dei medici che fanno optare per la scelta del cesareo, come tecnica più sicura rispetto al parto spontaneo ma che espone le partorienti ad un numero di complicanze non accettabili (tromboembolie, sepsi, emorragie) oltre a rischi chirurgici. L’autonomia professionale riconosciuta alle ostetriche, nel parto fisiologico, impedisce di fatto ai giovani medici in formazione di acquisire le competenze indispensabili per affrontare l’emergenza ostetrica e la patologia, a giudicare con serenità e competenza quando un parto possa essere espletato per via vaginale con metodiche operative – ventosa e forcipe – oppure sia indispensabile il ricorso al taglio cesareo. Perché se si vuole diminuire il numero di tagli cesarei bisogna aumentare i parti operativi, ma invece i medici con meno di 45-50 anni non sono più capaci di eseguire un forcipe, relegato al ruolo di soprammobile d’antiquariato in sala parto, accusato ingiustamente di sequele neurologiche da troppe sentenze. D’altra parte, la ventosa non offre identiche possibilità di espletamento del parto e obbliga, in caso d’insuccesso, all’effettuazione di un taglio cesareo in emergenza con maggiori tempi di esecuzione che possono peggiorare la prognosi sul neonato e portare a complicanze chirurgiche per la donna. I ginecologi sanno che nel corso della loro carriera il rischio di subire una o più denuncie è dell’80% e che le assicurazioni, a fronte di premi sempre più elevati, non coprono integralmente le richieste danni e che quindi quotidianamente – in sala parto in particolare – il loro patrimonio è a rischio. Inoltre la specialità di Ostetricia e Ginecologia, insieme alla Chirurgia Estetica, è la più denunciata al mondo ed in Italia il trand è in continuo aumento, cosa che rende inevitabile un atteggiamento difensivo. L’incubo della denuncia ha determinato in molte nazioni, come gli Stati Uniti, la carenza numerica di professionisti dedicati all’ostetricia mettendo in crisi il sistema assistenziale. Infine, in seguito alle riforme sanitarie attuate negli ultimi 15 anni, si è annullato un meccanismo di carriera della dirigenza medica basato sulla competenza e si è creato un sistema fondato sull’affidamento d’incarichi organizzativi, valutando la gestione ed il risultato economico, mortificando le competenze tecniche e professionali ed i risultati clinici. Nelle Aziende non esistono sistemi di valutazione professionali che tengano in considerazione i singoli, misurando lo sforzo personale impiegato nel raggiungimento di un obiettivo, per esempio la riduzione di numero di cesarei. Un caso esemplare sono i piccoli Punti Nascita: hanno personale ridotto ed un unico medico a copertura della maggior parte dell’orario di servizio che, se si trova in difficoltà, può mettere a rischio la salute della madre e del bambino. Per i ginecologi la situazione è diventata drammatica dovendo fare i conti con la mancanza di risorse, anche umane, le aspettative della popolazione, le carenze organizzative e le richieste aziendali e regionali, i rischi insiti nella gravidanza e nel parto, il confronto con due vite – madre e bambino – e la paura della denuncia, oltre all’imponderabilità di molti eventi ed anche le inadempienze proprie o dei colleghi. Una decisa marcia indietro non è più procrastinabile, non solo per motivi economici ma nell’interesse della salute delle donne

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IMPUGNARE I LICENZIAMENTI: PROROGA A FINE ANNO

di Prima Maggio. (xxd 6, aprile 2011)
LE RIFORME DELLE LEGGI CHE REGOLANO I RAPPORTI DI LAVORO CONTINUANO A PROPORRE NORME CHE SVUOTANO DI SIGNIFICATO L’ARTICOLO 1 DELLA COSTITUZIONE: “L’ITALIA È UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA, FONDATA SUL LAVORO”
Lavoravi con un contratto precario e ti hanno licenziato? Hai sessanta giorni per ricorrere. Ti hanno licenziato prima del 24 novembre 2010, quando è entrato in vigore il nuovo Collegato lavoro? Allora dovevi presentare ricorso entro il 23 gennaio 2011 (ai sensi dell’articolo 32). Sessanta giorni passati veloci, con i sindacati e le associazioni dei precari che cercavano di informare gli interessati, contrariamente al sito del governo che non ne faceva per niente pubblicità. Non l’hai saputo e non sei riuscito a fare ricorso? Grazie a una modifica dell’opposizione al cosiddetto Decreto milleproroghe, in vigore dal 26 febbraio 2011, si riaprono i termini fino al 31 dicembre 2011: ma lo slittamento della data per l’impugnazione del licenziamento è circondata da sinistre interpretazioni sulla sua attuabilità per il fatto che sarebbero sbagliati i riferimenti normativi. Comunque, entro il 23 gennaio sono stati già presentati circa 10.000 ricorsi individuali per anomale modalità di scadenza e interruzione dei contratti atipici (a termine, collaborazioni a progetto, somministrazione etc), anche nei casi di allontanamento verbale dal posto di lavoro. Però il giudice, anche quando darà ragione al lavoratore sulla mancata conversione del contratto a tempo determinato, non potrà più imporre la riassunzione ma solo il pagamento per il datore di un’indennità sostitutiva inclusa fra le 2,5 e le 12 mensilità. Proprio sulla questione dell’esiguo risarcimento previsto, un’ordinanza del tribunale di Trani del 20 dicembre 2010 ha rinviato alla Corte costituzionale proprio l’art. 32 del collegato lavoro. Nel corso di un processo tra un precario e le poste italiane, il giudice del lavoro ha ritenuto di segnalare alla consulta la violazione degli articoli 3, 11, 24, 101, 102, 11 e 117 della Costituzione. E intanto, sul sito di Codacons si promuovono due class action. Una gratuita dei precari della scuola per l’assunzione a tempo indeterminato in riferimento alla direttiva dell’unione europea 1999/70/CE, un accordo quadro sul lavoro a tempo determinato tra le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori a livello comunitario che ha l’obiettivo di definire principi generali e requisiti minimi e parità di trattamento tra contratti e termine e no. Ci sono già state in proposito delle sentenza favorevoli del Giudice del lavoro di Siena. L’altra invita i 36.000 professori a contratto che hanno ricevuto incarichi presso le università, svolgendo in sostanza tutti i compiti di un professore di ruolo ma percependo in cambio un compenso notevolmente basso senza neppure il riconoscimento dei diritti previdenziali, a partecipare a un’altra class action contro il Miur al fine di raggiungere i compensi almeno dei ricercatori universitari con gli interessi e la rivalutazione. Aspettiamo le sentenze, resistendo alla retorica dominante che vuole convincere disoccupati e lavoratori che la flessibilità è una cosa bellissima, il precariato una cosa normale del mercato ‘libero’ del lavoro e i contratti a tempo indeterminato straordinari anzi obsoleti

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SORELLE D’ITALIA

di Stefania Doglioli (xxd 6, aprile 2011)
I “150 anni” celebrano l’invisibilità della donna. Si festeggia questa grande impresa di uomini e ci si dimentica che c’erano anche le donne, destinate a partorire solo i novelli cittadini italiani – e mai arresesi a tal fato. Una delle tre principali mostre dedicate all’evento è a Torino e si intitola Fare gli italiani, e da qualsiasi punto la si veda non si può esserne contente. Nel comunicato stampa si legge “All’inaugurazione erano presenti, oltre al sindaco C., al presidente della Provincia Antonio S. e agli assessori regionali, Michele C. e Massimo G., i tre curatori della prestigiosa rassegna: Riccardo L., Giovanni De L., Walter B. ed Enzo B. G.. A fare da madrina, Miss Italia 2010”. Contate gli uomini e vedete chi è l’unica donna, una madre e per di più piccolina, forse perché miss e non signora. Si organizzano in tutta Italia iniziative come Uomini, luoghi e segni del risorgimento in Calabria, a passeggio con la storia. Si passeggia anche a Roma con Il risorgimento a Roma. Uomini, luoghi, eventi, e in Piemonte uno dei principali bandi di finanziamento era titolato Uomini e luoghi del risorgimento, dove non sono stati selezionati progetti sulle donne – e in effetti dal titolo avremmo dovuto capirlo. Potrei andare avanti ancora a lungo. L’Italia, con l’inconsapevole senso dell’ironia che spesso la contraddistingue, decide di celebrare l’evento trasmettendo il Nabucco, la cui protagonista femminile si chiama Abigaille, un schiava sanguinaria usurpatrice di troni, il cui nome significa “Il padre si rallegra”, e che dopo il 1613 grazie a una commedia, The scornful lady, venne usato nello slang per indicare le serve Cantiamo tutt* insieme le perfide serve d’Italia! La diretta televisiva dei festeggiamenti che il paese dedica all’evento ha anch’essa una madrina, la Sofia Loren (e qui non infieriamo), ed è condotta da Baudo e Vespa, sul palco si alternano Frizzi, Morandi, Vecchioni e Giannini, giusto per non dimenticarsi che le donne non c’entrano nulla in tutto questo e comincio ad esserne orgogliosa. Gli uffici stampa che promuovono i festeggiamenti ignorano il linguaggio inclusivo e si legge quindi esclusivamente di cittadini e sudditi, e in questo caso me ne rallegro, ma fa un po’ impressione. Eppure in questi 150 anni l’Italia è stata costruita anche grazie all’impegno sociale, civile e politico delle donne. Ignorandolo si tengono le donne lontane della sfera pubblica, vero ambito della cittadinanza fino a quando non riusciremo a riformarne il senso. Siamo state durante il risorgimento viaggiatrici, artiste, combattenti, imprenditrici, letterate, cospiratrici, corrispondenti, studiose, siamo state capaci di una straordinaria libertà, ma veniamo ricordate solo come madri e mogli. Serve. Queste celebrazioni concorrono a rafforzare l’immagine di inferiorità delle donne semplicemente cancellandole o sminuendole, umiliandole. Contro la sudditanza e l’invisibilità c’è prima di tutto l’autorappresentazione: valorizziamo le figure, le esperienze e le eredità che le donne ci hanno lasciato. I tredici punti del programma di Anna Maria Mozzoni, pubblicato nel 1864, non sono ancora tutti realizzati, c’è da lavorare. Buon lavoro e buona Italia, che accidenti, è l’unica donna al centro dei festeggiament

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