BUON COMPLEANNO ROE VS WADE

di Daniela Danna. (xxd 5, marzo 2011)
L’ABORTO NEGLI STATI UNITI È COSTANTEMENTE SOTTO ATTACCO DA PARTE DELLA DESTRA RELIGIOSA, CHE GODE DI UN NOTEVOLE SUPPORTO POPOLARE. CRONACA DI UNA DOPPIA MANIFESTAZIONE A SAN FRANCISCO.
Una folla oceanica si è radunata il 22 gennaio all’Embarcadero di San Francisco, come in molte altre città statunitensi, per ricordare l’anniversario della sentenza della Corte suprema che nel 1973 ha legalizzato l’aborto: Roe vs Wade. Avvicinandosi alla piazza la prima cosa che si vede sono i cartelli gotici con disegni di radiografie di feti, e un sacco di ragazzi e ragazze che si accalcano intorno a un palco enorme. “Sono qui come uomo, perché l’aborto è una questione che riguarda anche noi, che vogliamo essere padri” sento gridare dal megaimpianto di amplificazione. Penso che dev’esserci qualcosa di sbagliato, forse nella mia comprensione della lingua inglese. Solo dopo aver attraversato la folla che innalza madonne e crocifissi arrivo finalmente al raduno dei prochoice, uno sparuto gruppetto bizzarramente vestito (i giovani e le giovani) e recante insegne storiche del NOW e della Planned Parenthood (le vecchie) e della campagna del Nastro d’argento (ancora decisamente vecchiette), che simbolizza la fiducia da avere nelle donne, nonché nella scienza per praticare interruzioni di gravidanza sicure: fiducia che non abortiranno tutti i figli di cui gli uomini vogliono essere padri, ad esempio. Folla oceanica sì, peccato solo che gli oppositori cattolici fossero duecento a uno rispetto ai sostenitori: 50.000 pro-life “contro” 2-300 pro-choice. Da sette anni a San Francisco la manifestazione che ricorda la data storica del 1973 ed esprime il continuo sostegno al diritto a interrompere la gravidanza in modo sicuro è “clonata” e numericamente stracciata da un raduno di antiabortisti. Dopo i comizi paralleli, comincia la marcia parallela: sul marciapiede la nostra armata Brancaleone, con musica ballabile e costumi carnevaleschi e slogan oltraggiosi quanto inappuntabili, tipo che leccare la pussy è il contraccettivo più sicuro; sulla strada a quattro corsie l’esercito di Dio con canti di chiesa e preghiere e davvero un sacchissimo di ragazzini, nonché folti gruppi di latinoamericani che pregano in spagnolo. Una treenne portata in braccio dal nonno viene edotta sul fatto che noi, da questa parte della strada, andremo tutti all’inferno. Fa un segno della croce tipo esorcismo rivolto anche verso di me. Per questa volta lascio perdere, sorrido solo alla ragazzina preoccupata. Dimenticavo: in mezzo alle due correnti parallele e contrapposte prima una fila di transenne, poi le transenne finiscono (il percorso è lunghissimo), subentra una fila di poliziotti in bicicletta (!), che poi sparirà (in una dozzina a un certo punto si gettano su un barbone che stava in mezzo ai cristiani, e gli torcono le braccia per mettergli le manette di plastica, come fos
se un bambolotto e non un essere umano dolorante) lasciando finalmente le due manifestazioni a contatto. Loro ci ignorano, per lo più, a parte simpatiche risate nel vedere il contingente queer, con slogan sulla venuta di Cristo in senso sessuale, e travestimenti di genere molto molto spinti. Ho pensato che la grande quantità di ragazzini e ragazzine che componevano gran parte della folla dell’altro lato fossero venuti apposta per vedere i queer, i freak, e infatti molti si facevano delle grasse risate, direi sincere e non di scherno. C’è molto più sforzo di comunicare da parte nostra: “Diritto alla vita, è una menzogna, non vi interessa se le donne muoiono”, di aborto clandestino, si sottende. “Tenete i vostri rosari fuori dalle nostre ovaie” (in inglese fa rima) è il mio slogan preferito, rappato all’infinito. C’è chi cerca di distribuire preservativi (non li accettano), chi grida indignato contro la violenza dell’imporre a tutti la propria concezione religiosa. Gli atei hanno portato uno striscione stile avvertenze ai consumatori del ministero della Sanità: esporsi alla religione può causare molestie ai vostri figli da parte di preti, gravidanze indesiderate, la credenza in fate celesti onnipotenti o la morte come attentatore suicida o per lapidazione. Una donna – dall’altra parte – porta un cartello che proclama che bisogna crescere e moltiplicarsi, dice la Bibbia. “Non crede che ci sia un problema di sovrappopolazione?” “Dio provvede a ogni bocca da sfamare” “Ah sì? Ma i bambini che muoiono di fame…” La chiacchierata sulla teodicea viene interrotta dal loro servizio d’ordine (dalla nostra parte siamo talmente in pochi che non è sorta questa specializzazione) che le dice di continuare a marciare. Lei obbedisce, e si para il viso con il cartello. “Non puoi parlare?” dico stupitissima. “Non puoi pensare?” le grido dietro. Non si volta. Ancora dall’altra parte della strada una quantità sterminata di cartelli firmati I Cavalieri di Colombo, il cui emblema è un fascio, da cui spuntano una spada e un’ancora. C’è da dire che sono stati fondati nel 1892, tuttavia… “Sa che sta portando un simbolo fascista’” “No, dove?” era la risposta di quelli a cui gliene poteva fregare qualcosa (pochi). Infine vedo arrivare, in fondo alla manifestazione, lo striscione dei Cavalieri di Colombo in persona! Un tipo alto, tratti latinoamericani, la faccia anche un po’ sfigurata, regge uno dei bastoni dello striscione. “Salve, voi siete i Cavalieri di Colombo, uau. Che cos’è un cavaliere di colombo?” “Un cavaliere”. Non molto affabile. “Perché portate un simbolo fascista?” “È il nostro simbolo. C’è anche un simbolo massonico”. Testardi, però. Magari riusciranno pure a cambiare il significato di questi simboli, da un orrore all’altro

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CACCIA ALLE STREGHE IN AFRICA

di Silvia Federici. (xxd 5, marzo 2011)
TESTO TRATTO DA “WITCH-HUNTING, GLOBALIZATION, AND FEMINIST SOLIDARITY IN AFRICA TODAY”, JOURNAL OF INTERNATIONAL WOMEN’S STUDIES, 2008, DISPONIBILE ON LINE (ADATTAMENTO DELLA REDAZIONE)
Migliaia di donne sono state bruciate o seppellite vive o picchiate a morte in Africa negli ultimi anni perchè accusate di stregoneria. In Ghana mille presunte streghe vivono segregate in campi di raccolta dopo essere state espulse dalle loro comunità e a volte dalle loro famiglie. La stessa caccia alle streghe si sta verificando in India, Nepal, Papua. Il paragone storico che si impone è la caccia alle streghe che si svolse in Occidente dal 15 al 18 secolo, quando vennero mandate al rogo centinaia di migliaia di donne. È un precedente che coloro che si occupano dell’attuale persecuzione in Africa non amano riconoscere, perché vi sono differenze incommensurabili nei contesti storici e culturali ma, anche se non sono ordinate da magistrati, re e papi, come nel passato, i crimini di cui le streghe africane sono accusate sembrano presi a prestito dalla demonologia europea, per influenza dell’evangelizzazione che continua oggi, soprattutto per opera di sette cristiane fondamentaliste. Si parla cosi di voli notturni, metamorfosi, cannibalismo, uccisioni di neonati, distruzioni di raccolti. Le “streghe”, come nelle persecuzioni in Europa, sono in grande maggioranza donne anziane, povere contadine, spesso sole, oppure donne che si crede che siano in competizione con gli uomini. La cosa più importante è che questa nuova caccia alle streghe accade in società in cui vi sono processi di “accumulazione primitiva”, in cui molti contadini sono costretti ad abbandonare la terra, in cui si affermano nuove relazioni di proprietà e nuovi concetti di come si crea valore, e dove si spezza la solidarietà comune sotto l’impatto della pressione economica. Non è una coincidenza che in queste circostanze le donne, in particolare le anziane, subiscano un processo di degradazione sociale e diventino il bersaglio di una guerra tra i sessi. In parte questa guerra può essere attribuita alla riluttanza dei giovani a mantenere i propri familiari in un contesto sociale in cui le risorse economiche scarseggiano sempre più. Ma la cosa decisiva è che quando i rapporti monetari diventano predominanti, le attività delle donne legate alla riproduzione e il loro contributo alla comunità vengono completamente svalutati. Questo è particolarmente vero per le donne anziane che non possono più avere figli o fornire servizi sessuali, e sono viste come un ostacolo alla creazione di ricchezza. C’è un parallelo significativo tra l’attacco che viene mosso alle contadine africane anziane con l’accusa di stregoneria e la campagna ideologica che la Banca mondiale ha montato in tutto il continente per promuovere la commercializzazione della terra, affermando che la terra è un “bene morto” se viene usata come mezzo di sussistenza e garanzia per il futuro, perché la terra diventa produttiva solo quando è usata come garanzia per avere prestiti bancari. Molte donne e uomini anziani sono perseguitati oggi in Africa come streghe perché anch’essi sono visti come “beni morti”, incarnazione di un mondo di pratiche e valori che sempre più è considerato come sterile, improduttivo. Con ciò non si intende minimizzare l’importanza del complesso di accuse e lamentele, vecchie e nuove, che in ciascun caso sfociano nell’accusa di stregoneria. Ciò che fomenta nel quotidiano le persecuzioni in Africa, come nelle cacce alle streghe in Europa, sono maldicenze collegate a morti misteriose, specialmente di bambini, la brama di appropriarsi di proprietà ambite (qualche volta anche solo una radio o una tv), la rabbia per un’infedeltà subita e, soprattutto, i litigi per la terra. La struttura della famiglia poligama contribuisce a fomentare tali accuse, perché crea gelosie e competizione tra le co-mogli e i figli sulla distribuzione dei beni di famiglia, della terra in particolare. La crescente scarsità della terra intensifica questi conflitti, perché i mariti oggi trovano difficile provvedere a tutte le mogli. In certe zone del Mozambico, dopo la fine della guerra, è stata la lotta per la terra a portare le donne ad accusarsi a vicenda di stregoneria. L’economia comunitaria del villaggio si sta disintegrando, quell’economia in cui sono le donne anziane a difendere più strenuamente l’uso non capitalistico delle risorse naturali, praticando l’agricoltura di sussistenza e rifiutando, ad esempio, di vendere la terra o gli alberi, allo scopo di conservarli per la sicurezza dei loro figli. Invece una nuova generazione di giovani sta crescendo inquieta per le difficoltà economiche e la mancanza di prospettive con cui devono confrontarsi, convinta che gli anziani non possano più provvedere al loro futuro, o peggio che blocchino il loro accesso al benessere, identificato ora con l’accesso all’economia monetaria. Come scrive Mark Auslander, a partire dalla sua esperienza nella terra degli Ngoni in Zambia orientale, anche gli uomini anziani sono presi in questo conflitto tra i valori del vecchio mondo comunitario orientato alla sussistenza e quelli dell’economia di mercato, che avanza. Nelle canzoni e nelle commedie popolari si lamentano che i figli li avveleneranno per vendere il loro bestiame in cambio di contanti con cui comperare fertilizzanti chimici o un camion. Ma la “battaglia” è combattuta, come scrive Auslander, soprattutto sul corpo delle donne anziane, perché si crede che siano una minaccia alla riproduzione delle loro comunità, che distruggano i raccolti, che rendano sterili le giovani e si accaparrino le risorse esistenti. In altre parole, la battaglia è combattuta sui corpi femminili perché le donne sono viste come il principale agente di resistenza all’espansione dell’economia di mercato, e come tali sono considerate individui inutili, che monopolizzano egoisticamente risorse che i giovani potrebbero usare. Ciò che è in gioco sono non solo le vite delle donne, ma i valori trasmessi alle nuove generazioni e la possibilità stessa di cooperazione tra donne e uomini. Ciò che è in gioco è anche il destino dei sistemi comunitari che hanno dato forma all’esistenza umana in Africa e in molte altri parti del mondo fino all’avvento del colonialismo. Più che in qualunque altro luogo è stato in Africa che il comunitarismo ha definito la vita sociale e la cultura, sopravvivendo fin oltre gli anni 80, soprattutto perché in molti paesi la terra non è mai stata venduta, nemmeno nel periodo coloniale, anche se molta terra è stata appropriata per le monoculture per l’esportazione. In realtà l’Africa è stata a lungo considerata uno scandalo dai programmatori dell’economia internazionale, che hanno visto arrivare con sollievo i programmi di aggiustamento strutturale della Banca mondiale, in quanto opportunità di sviluppare un mercato africano della terra. Le attuali cacce alle streghe indicano che il comunitarismo africano sta affrontando una crisi storica, ed è qui che appare la sfida politica per i movimenti sociali, perché gli usi e costumi tradizionali hanno spesso discriminato contro le donne sia nell’eredità della terra che nel suo uso, ma allo stesso tempo il tipo di riforma che la Banca mondiale e altri fautori dello sviluppo (per esempio Usaid e l’Unione europea) stanno promuovendo, portano benefici solo agli investitori stranieri, causando maggiore indebitamento nelle campagne, nuove espropriazioni di terre, e conflitti cruenti tra coloro che ne sono stati spossessati. Non solo. Si è anche notato che episodi di caccia alle streghe sono stati in questi anni più frequenti in aree da adibire a usi commerciali, come l’eco-turismo e i parchi naturali destinati ai safari. È importante dunque che i movimenti femministi, come quelli che sono stati presenti al Forum mondiale di Dakar a febbraio, non sottovalutino l’importanza di questo fenomeno e il suo rapporto con il diffondersi dei rapporti capitalistici di mercato nel continente africano. C’è da temere infatti che se il saccheggio delle risorse economiche e naturali del continente africano procederà, così pure procederanno le cacce alle streghe, sia da parte di chi opportunisticamente vuole liberarsi del peso di donne che non sembrano contribuire al benessere della comunità, sia, se non soprattutto, da parte di chi fomenta queste accuse per accelerare processi di espropriazione delle terre che spianano la via all’assoggettamento delle economie africane al capitale internazionale

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IL FEMMINICIDIO: NON SOLO CIUDAD JUAREZ, RIGUARDA ANCHE NOI.

di Barbara Spinelli. (xxd 5, marzo 2011)
NEL 2011 GIÀ DUE DOZZINE DI FEMMICIDI IN ITALIA (HTTP://BOLLETTINO-DIGUERRA. NOBLOGS.ORG) L’AUTRICE DEL LIBRO “FEMMINICIDIO” SCRIVE PER NOI. IL SUO BLOG È HTTP://FEMMINICIDIO.BLOGSPOT.COM
Femmicidio è un neologismo che indica ogni forma di discriminazione e violenza rivolta contro la donna in quanto appartenente al genere femminile. È salito alla ribalta delle cronache internazionali per i fatti di Ciudad Juarez: centinaia forse migliaia di ragazze e donne uccise dall’inizio degli anni 90, senza uno straccio di colpevole Ha assolto alla funzione di individuare una responsabilità sociale nel perdurare, ancora oggi, di una situazione di diffusa subordinazione sociale delle donne, che le rende soggetti discriminabili, violabili, uccidibili. Si parla infatti di femmicidio e femicidio per evidenziare come le forme più estreme di violenza contro le donne derivino dall’accettazione da parte delle istituzioni sociali e in generale dall’opinione pubblica di una cultura patriarcale che svalorizza il ruolo della donna e non ne riconosce la dignità di Persona, né garantisce il suo godimento pieno ed effettivo dei diritti fondamentali. Il termine femmicidio (femicide) è stato diffuso per la prima volta da Diana Russell nel libro Femicide: the politics of woman killing nel 1992, molto tempo prima di avere a disposizione le indagini statistiche che ci confermano ancora oggi che la causa principale degli omicidi nei confronti delle donne è una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna perché donna. “Il concetto di femmicidio si estende aldilà della definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito di atteggiamenti o pratiche sociali misogine”. La teoria di Diana Russell diviene universalmente nota e utilizzata da numerose scienziate per analizzare le varie forme di femmicidio (delitto d’onore, lesbicidio, ecc). Nello specifico, viene ripresa dalle sociologhe, antropologhe e criminologhe messicane per analizzare i fatti di Ciudad Juarez, e viene adattata a descrivere non solo le uccisioni di genere ma ogni forma di violenza e discriminazione contro la donna “in quanto donna”. Nel mio libro ho raccontato come la ricerca sul femmicidio in Centro e Sud America ha costituito la “base teorica” delle rivendicazioni femministe, ai fini dello sviluppo in quell’area di politiche sociali e istituzionali di genere e per lo sradicamento del machismo, ancora fortemente diffuso, ma anche per l’eliminazione dal diritto interno di tutte le norme discriminatorie nei confronti delle donne, che riflettevano giuridicamente tale cultura. Ha senso parlare di femmicidio in Italia, adottare questo termine, per dare un nome a tutti quegli omicidi e quelle violenze che vengono etichettati dai media come “raptus” e “omicidi passionali”. Se non si dà un nome chiaro a tutti quegli atti (dallo stalking alla violenza sessuale all’omicidio della moglie o della ex alle molestie sul lavoro) che sono espressione di una relazione di oppressione e di potere dell’uomo sulla donna, questi crimini continueranno a venire interpretati non come violenza di genere ma come espressione di diverse forme di disagio sociale o personale, quindi non avremo mai strategie efficaci per combatterli. È necessario promuovere una analisi di genere e le parole aiutano a veicolare i concetti, soprattutto se sono già cariche di storia e di significato come il neologismo in questione. Lo scorso anno i femmicidi sono stati ben 115, a fronte dei 119 nel 2009, 112 nel 2008, 107 nel 2007, 101 nel 2006, nonostante gli omicidi siano in calo nel nostro paese. La percentuale dei femmicidi sul totale degli assassini risulta in aumento: nel 1992 rappresentavano il 15,3% del totale degli omicidi, nel 2006 il 26,6%. Ma aldilà del dato numerico, quel che è maggiormente cambiato è stato l’atteggiamento dei media. C’è infatti stato un aumento di attenzione per questo genere di crimini. Inoltre non userei la parola emergenza. Infatti, secondo una ricerca realizzata dal Centro Reina Sofia di Valenza su 40 paesi europei e dell’area del Mediterraneo, l’Italia risulta 34esima per il numero di femmicidi annui. Senza volere in alcun modo sminuire il fenomeno dobbiamo renderci conto che non è un’emergenza ma un problema culturale e strutturale che va affrontato come tale. Le donne vengono uccise in casa: nel 2009 nel 71% nell’abitazione della donna, del parente o del partner che l’ha uccisa. Nello specifico, nel 2009 il 36% dei femmicidi è avvenuto per mano del marito, il 18% da parte del partner/amante, il 9% da parte dell’ex, il 20% da parte di altro parente, il 4% da parte di un conoscente, senza dimenticare il 3% di uccisioni di prostitute da parte degli sfruttatori, e il 9% di femmicidi irrisolti. Negli ultimi cinque anni meno del 10% di femmicidi è stato commesso a causa di patologie psichiatriche o altre forme di depressione o disagio psichico. Altresì meno del 10% dei femmicidi è stato commesso per situazioni di stress o di conflitto legate a problemi economici o lavorativi. Possiamo quindi dire che i fattori concausali del femmicidio rappresentano una percentuale veramente minima. Molto spesso si pensa erroneamente che l’uomo che uccide la propria coniuge o ex sia preda di un raptus. La verità è che non si tratta di delitti di impeto o, come qualcuno li ha chiamati, di delitti kamikaze. L’uomo quando arriva a uccidere nell’ambito o al termine di una relazione lo fa per chiudere una situazione che vede come altrimenti non risolvibile a suo vantaggio: si tratta di un gesto estremo di controllo e di possesso sul corpo, sui desideri e sulle scelte di una donna il cui consenso sa di non poter avere altrimenti. Si parla anche di gioco dei ruoli. Nell’ambito delle relazioni affettive e famigliari c’è sempre un partner che tende a prevaricare, a imporsi sull’altro, a controllarlo. Il grado di “prevalenza” di un partner o di un familiare sull’altro può attestarsi su livelli di normale conflittualità, dialogici, o può assumere forme patologiche di prevaricazione, assidue o occasionali: violenza economica, violenza psicologica, maltrattamenti, isolamento, stalking nei confronti del soggetto che sceglie di “uscire dal gioco” (figlia disubbidiente, moglie che sceglie di separarsi). La violenza può essere una costante della vita di coppia, che si manifesta assiduamente o solo come espressione di “riequilibrio di potere” nell’ambito del gioco dei ruoli. Ma può anche finire nel femmicidio, come risposta estrema dell’uomo alla scelta autodeterminata della donna di sottrarsi alla sua sfera di controllo. In termini metaforici, se la donna non vuole più stare al gioco, lui compie l’ultima mossa del gioco, uccidendola. Si tratta di un problema relazionale e va risolto partendo da un ripensamento di quelli che sono i ruoli, gli stereotipi legati all’immaginario della famiglia e dell’amore. È quindi necessario partire dall’educazione di base, del rapporto con l’altro, persona diversa da sé della quale va sempre rispettata la dignità. Parlare di delitti passionali, come continuano a fare i media, non fa che aggravare la confusione sul fenomeno. Infatti, il delitto passionale, il delitto d’onore, nel nostro codice penale fino a poco tempo fa costituiva un’attenuante per l’uomo che sceglieva di “chiudere i giochi” uccidendo la propria moglie. Continuare a parlare di delitti passionali giustifica e in un certo senso rafforza l’idea che si tratti di atti isolati di individui retrogradi che non dobbiamo prendere in considerazione come fenomeno sociale. C’è una responsabilità da parte delle istituzioni per la manifesta incapacità di sviluppare piani adeguati per la prevenzione della violenza sul piano culturale, per l’assenza di progetti di prevenzione adeguati, per gli scarsi investimenti nella formazione delle forze dell’ordine e gli operatori sociali, per l’incapacità di fornire adeguata protezione alle donne vittime di violenze che decidono di denunciare. Nell’ultimo decennio, 7,5 femmicidi su 10 sono stati preceduti da altre forme di violenza già denunciate dalla donna, o comunque comunicate a qualcuno: significa che si sarebbero potuti evitare. È compito delle istituzioni sviluppare azioni adeguate per intercettare e risolvere gli episodi di violenza domestica ed evitare che trascendano in femmicidi.

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STATUA DELLA MADONNA PIANGE SENZA MOTIVO

di The Onion. (xxd 5, marzo 2011)
MIRACOLO A WORCHESTER: LA STATUA DELLA MADONNA SI TRAMUTA IN UNA FONTANA. PERPLESSITÀ TRA I FEDELI E TRA IL CLERO.
WORCESTER, Massachusetts—A meno di una settimana dalle prime lacrime sul volto di una statua della Madonna, i fedeli della chiesa cattolica dedicata a S. Alfonso han dichiarato ai giornalisti di averne le tasche piene dei suoi piagnistei ininterrotti. Piagnistei che peraltro non accennano a diminuire. “Sulle prime, come tutti, ci sono cascato anch’io”, ha raccontato il reverendo Paul Doherty, parroco della chiesa. Ha ammesso di aver persin baciato le lacrime profuse dagli occhi della figura lignea di un metro e mezzo esposta nella pala d’altare. “Ma quando è troppo è troppo: arrivo la mattina e piange, celebriamo i battesimi e piange. Piange, piange… non fa altro che piangere. Ho fatto un giro di telefonate e nelle altre parrocchie le Madonne stanno tutte bene, anche quelle di stucco da due soldi perennemente esposte alle intemperie. Nella regione di Boston ci saranno migliaia di Madonne: la nostra è l’unica che non riesce a darsi un contegno”. “E pensare che ho creduto si trattasse di un miracolo”, ha aggiunto padre Doherty, alzando lo sguardo verso il volto della scultura, scintillante per i lucciconi. “Il vero miracolo sarebbe se la signora Fontana qui sopra chiudesse i rubinetti per cinque secondi”. Agnes Wright, che svolge da anni la funzione di organista, ha riferito ai giornalisti che tutto quel lacrimare è diventato motivo di distrazione, il che l’ha segretamente portata a sperare che qualcuno prenda l’iniziativa di incappucciare la statua ormai priva di autocontrollo o che si decida almeno di ruotarla in modo che il viso sia rivolto al muro. “Che è triste si è capito. Ma non crederà mica di essere al centro dell’universo?”, ha sbottato la signora, precisando che a causa di quel cordoglio così ostentato persino ricevere la comunione è diventato un “fardello”. “Negli ultimi dieci anni, mentre assistevo la buonanima di mio marito tra le spire dell’Alzheimer, ho sempre pianto in privato. Non ho mica messo i cartelloni, io”. “E tira fuori un po’ di dignità, no?” ha incalzato l’organista. “La statua di Gesù ha i chiodi infilzati nelle mani e nei piedi, Santo cielo. E ti pare che pianga?”. Nonostante gli ammonimenti dei portavoce clericali, convinti che i pellegrinaggi alla statua potrebbero solo incoraggiare il fenomeno delle lacrime, migliaia di fedeli da tutto il mondo sono accorsi nella speranza di poter sbirciare anche da lontano questa Madonna travolta dalla commozione. Si parla di file di mezzo chilometro, a tutte le ore del giorno e della notte, per assistere in prima persona alla portata della sua autocommiserazione. “Ho attraversato mezza America per accertarmi personalmente della cosa”, ha riferito Jen Gammons, 53 anni. “Quando finalmente sono stata abbastanza vicina da vederla con i miei occhi, mi è venuta solo voglia di mollarle un ceffone. I problemi ce li abbiamo tutti. Ma intanto non ci arrendiamo — e certo non ci mettiamo a frignare come mocciosi”. Al momento di andare in stampa, i portavoce ecclesiastici hanno confermato che nonostante gli eccessi della statua, nel prossimo futuro intendiamo procedere facendo finta di niente. “Sinceramente non ci voglio avere nulla a che fare, e quindi ho deciso che la ignorerò”, ha confidato padre Doherty. “Perché dargliela vinta? Non ho la minima intenzione di abbassarmi a consolarla. E poi cosa le dovrei dire?, ‘Oh, poverina, cosa c’è che non va?’ Fanculo. Io vado avanti con la predica e se vuol fare l’addolorata per attirare l’attenzione, si accomodi. Mi rifiuto persino di guardare dalla sua parte”. Raggiunto finalmente dai giornalisti, un portavoce del Vaticano ha dichiarato che Benedetto XVI si recherà in visita a Worcester la prossima settimana, così: “Glielo darà lui un motivo per piangere”. Pubblicato da The Onion il 3 gennaio 2011, traduzione di Lori Carson-Camona. http://www.theonion.com/articles/virgin-marystatue- crying-for-no-good-reason,18708/

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COME L’OLIO SULL’ACQUA

di Stefania Doglioli. (xxd 5, marzo 2011)
SEPARARE NON SIGNIFICA ESCLUDERE, MA CREARE LUOGHI PER INCONTRARSI TRA DONNE ALLA RICERCA DI LIBERTÀ DAL SESSISMO. ALLA RICERCA DI UN LUOGO DOVE LA MAIONESE NON IMPAZZISCE…
Recentemente, a un gruppo femminista di cui faccio parte, è stato chiesto da parte di alcune giovani donne di un neonato collettivo che senso avesse il separatismo. È una domanda che mi sono sentita ripetere innumerevoli volte: per il gruppo wendo, per il campo di agape, per il cdm, per le cinque giornate lesbiche ed ogni volta che si dice che un evento, una serata, un luogo è per sole donne scatta il “ma così vi ghettizzate!” e le gli accusatori-trici sono i più disparati, anche persone al di sopra di ogni sospetto, e spesso con toni accusatori e utilizzando il fin troppo e malamente usato concetto di ghetto. Una parola così semplice da usare, così forte e di impatto, che appare perfetta per nascondere la realtà, o quantomeno per chiudere un discorso evitando di farsi altre domande. Io ho una fottutissima paura delle parole che vogliono fermare il pensiero, che non lasciano spazio al dialogo, parole arroganti, e oltretutto odio le manipolazioni, anche quelle inconsapevoli. Ogni volta mi chiedo come aggirarle, come renderle inoffensive e c’è un solo modo, cercarne i punti deboli, il che in questi casi significa semplicemente cercarne il vero significato, sia dal punto di vista linguistico, sia da quello culturale. E mi chiedo prima di tutto se avete mai notato che ci sono più uomini interessati ai destini delle foche che a quelli delle donne. È talmente banale, così abituale che non ci si può neppure stupire se non ci è mai balzato agli occhi. Fino ad ora non mi è mai capitato di ricevere la richiesta di entrare a fare parte di un gruppo o realtà femminista da parte di un uomo a meno che non si dicesse che gli uomini erano esclusi. A ben vedere la garanzia per la perfetta riuscita del separatismo è semplicemente non dire che uno spazio è separatista perché gli uomini si separano dalle donne come il limone nel latte in modo assolutamente naturale se si esce dal setting della riproduzione. Ho deciso di chiedere a tutti gli uomini che mi capita di frequentare quanto siano sensibili alla mancanza di diritti delle donne e decidere il futuro di ogni relazione in base alla risposta. Perché è davvero assurdo che io non frequenti fascisti, razzisti o cacciatori e poi pensi di poter frequentare un maschilista magari pensando come spesso succede che sia qualcosa di inevitabile o un fenomeno di folklore. Avete mai visto un giocatore di calcio che fa di tutto per andare a giocare in un campo di basket? O un celiaco che segnala nella sua pagina facebook la migliore pizzeria della città? Vi è forse capitato di vedere un cattolico mentre prega rivolto verso la mecca? Perché se un gruppo di donne dice di avere organizzato un evento a cui non potranno accedere gli uomini subito si levano alte le voci ad intonare la parola ghetto? Io davvero non sopporto la parola ghetto e amo rifletterci con chi la ama tanto. L’isola della Giudecca era abitata dagli ebrei prima che fossero costretti a risiedere nel ghetto di Venezia in terraferma, evento dopo il quale la Giudecca divenne un luogo esclusivo per la nobiltà dell’epoca. Cogliete la differenza tra ghetto e luogo esclusivo non appena si esce dagli stereotipi? Ma non è ancora esattamente lo spazio di pensiero dove volevo arrivare, era solo un dubbio. Il termine giudecca definisce un luogo dove io desidero vivere in modo separato da altre categorie di persone ma la cui porta resta aperta e quindi io posso transitare da questo luogo protetto verso l’esterno e viceversa a mio piacimento. Il ghetto è invece un luogo di reclusione dove io sono costretta a vivere e la cui porta viene aperta solo dai miei carcerieri. Bisogna stare attent* ad usare le parole. La giudecca è il luogo dove io posso riposare, dove posso dimenticare pregiudizi snervanti, sguardi curiosi, dove non sono costretta a rispondere a domande ripetute all’infinito, dove posso dare per scontate alcune cose, dove vivo un sentimento pieno di partecipazione e gruppo, dove il mio valore, la mia identità, non sono messe in discussione in base a categorie predefinite, ma possono essere discusse, sperimentate, costruite e modificate o anche semplicemente vissute senza influenze esterne perturbatrici. Assomiglia molto alla casa in cui si torna la sera se abbiamo potuto sceglierla, alla propria squadra quando le compagne ci accolgono, alla famiglia nel senso più ampio possibile quando ci è riuscita bene. Il ghetto è invece il luogo le cui mura le mie battaglie vogliono abbattere se le chiavi non sono nelle mie mani. Ma, tolte le mura, non voglio neppure tenermi le case fatiscenti, la miseria, la coercizione e tutto ciò che ha sempre reso i ghetti luoghi indesiderabili molto più delle loro mura. Ed è proprio questo che mi stupisce quando qualcun* mi guarda sdegnat* per dirmi “così vi state ghettizzando” spostando in un attimo l’attenzione dalle discriminazioni, dai pregiudizi, dalle violenze che è necessario combattere alle mura che a volte devo costruire per preparare la battaglia o anche solo per riposarmi un poco. Mi stupisce la velocità con cui si reagisce malamente al separatismo e la calma indifferente con cui si assiste a una infinita serie di eventi discriminatori e violenti. I luoghi separatisti sono luoghi in cui si costruisce consapevolezza e solidarietà, luoghi in cui si sperimentano la propria forza e la legittimità dei propri desideri. E sono luoghi anche da cui poi si esce poiché il separatismo non è un rifiuto sterile, ma una volta fuori quello che accade spesso, troppo spesso, è che ci si ritrova sole, e che molt* di coloro che volevano entrare scompaiano all’improvviso, e che molte di coloro che avevano criticato questa modalità non abbiano in realtà alcun interesse ai contenuti costruiti. Ci sono però anche molte persone che sono semplicemente disabituate al pensiero critico o che spesso non esercitano il proprio diritto a una vera informazione. Le responsabilità sono molte e complesse e in parte riguardano anche i gruppi femministi che dovranno continuare a cercare canali di comunicazione sempre più efficaci e capillari. Ciò che auspico per il nostro futuro è la nascita di momenti condivisi di lotta tra uomini e donne senza che questo delegittimi necessariamente l’esistenza di spazi di pensiero e fisici separatisti che non significano il rifiuto della partecipazione maschile, ma semplicemente riconoscono la necessità, in alcuni ambiti, di un’elaborazione protetta. Mentre storicamente i luoghi da cui sono state escluse le donne sono serviti e servono a rafforzare un potere discriminante, i luoghi che le donne hanno scelto di proteggere hanno come unico scopo l’abbattimento delle diseguaglianze

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IL SEPARATISMO SECONDO GIOVANNA OLIVIERI

di Alice nel paese delle femministe. (xxd 5, marzo 2011)
“QUANDO È STATO CHIESTO A DONNE ANALFABETE NIGERIANE CHE COSA POTESSERO FARE LE DONNE PER LA LORO CAUSA, LA RISPOSTA PIÙ COMUNE È STATA CHE LE DONNE POTEVANO IMPARARE A COSTITUIRE UN GRUPPO PER LAVORARE PER GLI SCOPI COMUNI” (HELEN WARE).
Come nasce il separatismo? Il separatismo era soprattutto una pratica. Diventa una teoria tempo dopo. Nella prima fase del femminismo si tenevano riunioni di sole donne all’interno delle case – i primi nuclei non avevano le sedi, non erano associazioni, non erano gruppi organizzati. Il separatismo nasce all’interno della pratica di vedersi solo fra donne e parlare a partire da sé. È una pratica che nasce dall’autocoscienza, e che si espande anche nei gruppi che “uscivano” all’esterno per le battaglie sull’aborto, la contraccezione, il divorzio, la violenza contro le donne, eccetera; il lavoro di organizzazione (contatti, mobilitazione, slogan) veniva fatto da gruppi di donne. Il confronto nel gruppo mostrava la grande cesura esistente fra l’immagine di noi che avevamo sotto il condizionamento degli uomini e quella che invece era l’esperienza delle nostre vite. Probabilmente gran parte delle donne che hanno fatto il movimento aveva avuto un’esperienza del ’68, ma ce n’erano altre che non erano passate dal ’68, come le donne di Rivolta Femminile; altre ancora, come me, prima del ’68 erano in Gioventù Studentesca. La pratica dell’autocoscienza, anche se sembra assurdo dirlo, è molto in continuità con GS perché lì c’erano i “gruppi di parola”, con discussioni sulla parola del Vangelo, rielaborata in rapporto al proprio vissuto sulla cultura, il potere, l’ideologia. Come è stato accolto e come si è diffuso? Fin dall’inizio la presenza degli uomini crea divisioni. C’è un episodio molto divertente accaduto al I congresso del Movimento di Liberazione della Donna (1971), a cui sono invitate Rivolta Femminile e il Collettivo Pompeo Magno, che allora si chiamava Lotta femminista. Il Congresso era aperto a tutti e ad un certo punto le donne di Rivolta cominciano a dire “Fuori gli uomini, fuori gli uomini!”… e gli uomini prendono e escono, e con loro però tutte le donne dell’Mld. La baruffa – a cui partecipa anche il gruppo Cerchio Spezzato di Trento – è riportata dai giornali e questo fa sì che donne sparse e piccoli gruppi scoprano che ci sono realtà organizzate. La pratica del separatismo comincia a essere controversa nel momento in cui il movimento femminista non è più soltanto il luogo della discussione e dell’elaborazione all’interno di piccoli gruppi in relazione fra di loro, sparsi in tutt’Italia, ma diventa un movimento di lotta che organizza le manifestazioni, che va in piazza, che fa le battaglie per la trasformazione delle leggi. Ad esempio, alla prima grande manifestazione per l’aborto del dicembre 1975 a Roma un gruppo di compagni di Lotta Continua vuole entrare nel corteo, sfonda il servizio d’ordine delle donne, si picchiano… Esce tutto un numero speciale di “Lotta Continua” in cui i compagni, messi sotto accusa, si difendono; per un intero giornale non fanno altro che parlare di questo problema del rapporto con noi, delle donne che tenevano fuori i maschi, anche i maschi cosiddetti “disponibili”, che volevano fare con noi questa lotta: non riuscivano a capire il perché. Intanto il separatismo, declinato in forme diverse, è praticato moltissimo: in luoghi come la casa della donne di via Governo Vecchio e Zanzibar, ma anche nelle manifestazioni delle studentesse, fra le donne del sindacato e dei partiti, le donne dell’Udi, i nuovi gruppi lesbici. E quindi nell’83 Pompeo Magno indice un convegno a Roma, dal titolo “Separatismo oggi” proprio per confrontare, ridiscutere, teorizzare la pratica del separatismo. Si comincia a usare questo termine “separatismo”, come sostantivo e non come aggettivo di femminismo. Ci chiediamo che senso ha, che cosa vuol dire per le donne, perché questa forma, oltre che essere una pratica può essere anche teorizzata politicamente… il movimento delle donne deve essere un movimento separatista. Come nasce il Centro femminista separatista a Roma? Nell’83, per la trattativa con il Comune sulla nuova casa della donna di Roma (l’ex Buon pastore), i dodici gruppi informali del Governo Vecchio – che devono costituire un’associazione legale per poter firmare una convenzione – scelgono come nome Centro Femminista Separatista. Il separatismo assume quindi la forma di organizzazione politica. Inaugurato nell’85, il CFS era un luogo inaccessibile agli uomini, la roccaforte chiusa del femminismo. Ti faccio dei piccoli esempi: se voleva venire la Rai a fare delle riprese per un convegno, se veniva il giornalista, il poliziotto eccetera, noi non gli aprivamo la porta. Dovevano mandare un’operatrice donna, una giornalista donna, una poliziotta femmina eccetera, perché era un territorio delle donne. Questa era l’esigenza: un luogo dove le donne avevano un posto tutto per sé, chiamiamolo così. Naturalmente la pratica separatista è sempre stata la più attaccata dalla stampa, da chi offre servizi, dalle donne dei partiti, e così via. Quello che faceva specie era la scelta di avere come referenti le donne, punto. Non ci interessava parlare col giornalista sul tema “caldo”, avere a che fare con lo psicanalista, neppure con quelli che tutto sommato avevano una certa sensibilità per la questione femminile. E i motivi erano questi: noi scegliamo le donne, non è che siamo a priori contro gli uomini, questa è la vostra idea; abbiamo come referenti – per quello che facciamo – le donne, quindi facciamo politica con le donne, e non siamo disponibili alle richieste che ci portano fuori strada. Non era un “ghetto”? A noi non interessava confrontarci con quello che gli uomini elaboravano sulle donne. Non ci interessava avere il parere dell’uomo su quello che noi pensavamo e facevamo. Era una precisa scelta di campo. L’altra questione era che il mondo è tutto misto e tutto eterosessuale (questo lo dicevano Cli e Vivere lesbica, i gruppi lesbici del Cfs) quindi non capivamo perché rivendicare un posto tutto per sé dovesse essere così tanto nel mirino e attaccato di continuo dalle donne stesse, ma soprattutto da tutto quello che noi chiamiamo eteropatriarcale e veteropatriarcale, usando fra l’altro l’arma del definirci obsolete. Naturalmente c’era anche un altro aspetto, che era la nostra esperienza sulla comunicazione. Se si fa un convegno, un incontro, basta che ci siano tre uomini e cambia il tema della discussione. Cambia spesso anche il modo di rapportarsi, questa era proprio una nostra esperienza. Per esempio, le donne erano abituate a fare questi incontri con molti silenzi, che gli uomini non sopportano. Perché per noi spesso la discussione era anche un pensare insieme. E poi succedeva che, quando vengono, gli uomini ci fanno sempre un po’ la paternale: da fuori, da dentro, da sopra; ci insegnano come dovremmo muoverci per essere più vincenti, oppure per essere più comprensibili. E questa questione a noi sembrava una delle cose che più impediva alle donne di poter comunicare fra di loro, perché a monte di tutto ciò, secondo noi, c’era questa idea che le donne sono sempre nemiche, competitive, in lotta per un maschio… Quindi volevamo creare una situazione in cui le donne invece si rafforzano, esprimendosi così come vogliono per quello che sono, incontrandosi con altre donne in un territorio che molti ritengono solo di protezione, noi invece riteniamo di libero scambio, spesso senza regole, quindi non facile, anche molto selvaggio, con tante asprezze e così via, e che però dava a noi la possibilità di poter pensare qualcosa al di fuori di quello che è già stato pensato, di quello che avremmo dovuto fare, di quello che ci viene continuamente chiesto di fare. Difatti il separatismo è dovuto stare sempre in una posizione di grande arroccamento perché c’era una continua richiesta di essere presenti, intervenire, eccetera, in situazioni, che noi ritenevamo non irrilevanti, ma dispersive. Noi avevamo il nostro percorso, i nostri ritmi, il nostro livello di elaborazione e di discussione, che non necessariamente coincideva con la richiesta pressante che ci veniva fatta dall’urgenza del momento. Urgenza che secondo molte di noi viene anche creata artificialmente. Cioè noi sappiamo che gli uomini sono molto bravi a farti occupare delle loro cazzate, a farti prendere cura di loro, dei disastri a cui dovremmo mettere una toppa. Oppure a non risolvere mai fino in fondo, per esempio, questo loro problema della violenza sulle donne, o il refrain sulla rappresentanza. La politica delle donne ha oggi molte sfaccettature e tante donne avversano il separatismo come organizzazione della politica o lo ritengono un passaggio per rafforzare il sé in vista di una politica “alta”, “incisiva”, insomma una specie di malattia infantile del femminismo; credo che ciò succeda perché, nella svalorizzazione di sé, le donne sono spesso succubi degli uomini, mentre concretamente la pratica del separatismo è ancora viva e vegeta nelle donne attive nella politica delle donne (gruppi, associazioni, collettivi, reti)

 

Commento

*"Il separatismo è il male dei mali, e non ne esiste una chiave di lettura
condivisibile oggi. E' l'ideologia e la pratica politica opposta alla
condivisione, all'accoglienza dell'altro, al senso comunitario, al recupero
di una politica degli "equilibri", alla coesione come capitale di forze e
soggetti politici organizzati insieme nell'azione, nella reazione e nel
dibattito, che non può mai prescindere dal principio costituzionale
dell'inclusione e del superamento dei generi, dei sessi, dell'etnia, delle
roccaforti ecc. in ogni ambito e contesto. Sia nel confronto come nel
conflitto. Il separatismo non ha prodotto altro che disastri, politici e
sociali. Da quello razziale a quello femminista che per reazione
(legittima) a secoli di sudditanza, violenza, dominio e dittatura
etero-sessista-patriarcale, sosteneva e praticava la sottrazione dalle
relazioni con gli uomini in quanto ostacolo alla loro libera espressione.
La rivendicazione non può più essere veicolata attraverso trappole e
recinti ideologici."

*Ringrazio
Laura Denu*
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TORRE CHIAMA TERRA

di Ornella Guzzetti. (xxd 5, marzo 2011)
SCESI DALLA TORRE DI VIA IMBONATI, IL “GRUPPO DI IMMIGRATI AUTOORGANIZZATI” DI MILANO CONTINUA LE AZIONI NEI QUARTIERI. LETIZIA BUOSO HA FILMATO LA PROTESTA NEL VIDEO “SENZA PAROLE”
Come sei arrivata al presidio di via Imbonati? Intorno al ventesimo giorno di occupazione della torre. un sabato sera tardi, pioveva a dirotto, c’erano solo uomini per lo più africani, qualche sudamericano, nessuno mi parlava in italiano. Mi hanno riempita le mani di volantini e portato té caldo. Non c’era nessuna bandiera nota di partiti, sindacati, associazioni, solo la scritta Emergency sul telo esterno di una tenda, il Corano sopra il banco della cucina, fogli con il resoconto della situazione, appelli, calendari. La settimana dopo sono tornata durante il giorno. Piano piano qualcuno ha iniziato a parlarmi. Ho ascoltato in lingue meticce ore di storie: fughe, fermi in carceri in Nordafrica, le rotte per l’Europa, la clandestinità in Italia, le truffe da parte di datori di lavoro, avvocati e perfino associazioni, che si sono fatti pagare e poi sono spariti durante le pratiche per la sanatoria del 2009. Nel Gruppo c’erano due donne: Edda e Najat. Intanto moduli su moduli si riempivano di nomi, esperienze di abusi, domande inevase, ricongiungimenti negati. Di voce in voce, tornavano delle costanti: scappare da paesi dove non puoi dire cosa pensi, né scegliere in autonomia, dove voti in cambio di cibo per sopravvivere o soldi. Lasciare il Terzo mondo. E però arrivare nel Primo mondo e scoprire che i politici comperano i pensieri e i voti delle persone, piegano i giornali e le televisioni. “Voi lasciate che Gheddafi pianti la sua tenda a Roma: perché glielo permettete?”, “Vi dite del Primo mondo ma fate le stesse cose del Terzo, solo non lo sapete riconoscere”. Nel video ascoltiamo una donna, parla in italiano e poi in arabo, rivolta all’assemblea in maggioranza maschile. È autorevole e decisa… È Najat, che la sera del 26 novembre fa il punto della situazione, in piedi su una sedia. Due uomini erano già scesi dalla torre, altri tre ancora erano sopra. La protesta di Brescia si era chiusa con l’intervento ripetuto delle forze dell’ordine. La discussione su come procedere era animata. Avevo portato una telecamera con me perché stavo studiando con il gruppo dei videoteppisti del progetto BovisaConnection. Ho chiesto a Najat se potevo filmarla, mi ha sorriso, ha risposto che non aveva nulla da nascondere e io l’ho seguita. Ho ripreso Najat senza riuscire mai a staccare la telecamera, né a cambiare punto di osservazione. Ero esausta per le lunghe ore di freddo intenso, per il subbuglio emotivo e della mia mente, sentivo l’urgenza di raccogliere materiale che prima di tutto aiutasse me a capire e pensare a quel che stava accadendo. Non cercavo una raffinatezza estetica, ma una modalità di presenza non invasiva, di testimonianza non enfatizzante. Una forma-sintesi di quel che accadeva con e attraverso Najat: il suo punto di vista, la sua gestualità, la sua lingua. C’erano posizioni molto diverse tra le persone del gruppo immigrati su come procedere, i cedimenti fisici degli uomini sulla torre acuivano le differenze. Per me l’unica possibilità era ascoltare e districare i pensieri e le possibilità attraverso quello star lì. Cercavo un linguaggio diverso da quello della televisione e dell’informazione mediatica della rete: la possibilità di prendersi tempo, riconoscere e quindi connettere i dettagli all’intero. Hai deciso subito di farne un documentario? No. All’inizio la delicatezza delle posizioni di molti mi ha lasciata a lungo nella domanda sulla mia legittimità a filmare, poi è nata la domanda di come poter montare le sequenze filmate, ho scelto di mettere il mio ascolto vivo come punto di vista per la documentazione. La prima a star cambiando ero io: stare lì mi faceva scoprire di avere in me stereotipi che si sgretolavano di minuto in minuto. Non dormivo la notte sapendo che cinque e poi tre persone stavano a più di venti metri d’altezza su una strettissima passerella, riparati solo da teli di plastica, circondati da forze dell’ordine pronte e intervenire (su comando del vicesindaco o del presidente del Consiglio regionale della Lombardia) al ripristino dell’ordine pubblico e della sicurezza, sotto l’osservazione in cerca di emozione dei media e la continua sollecitazione di tanti esponenti politici e del mondo associativo che cercavano di proporre una propria soluzione. Mentre le persone intorno alla torre stavano cercando di mettere a fuoco in cosa consistesse la propria autonomia, la propria identità. Ho scoperto poi il bando Musa. Le tre parole chiave erano digitale femminile plurale. Attraverso la contemplazione della torre e il ritratto di Najat potevo comporre una sequenza utile a chi non conoscesse nulla dell’episodio, mettendolo/a in contatto attraverso il miscuglio di lingue, il meticciamento delle culture, il loro cozzare e rimettersi in gioco. Conclusa l’esperienza della torre, cosa è successo ai suoi protagonisti? E al video? Il video ha ricevuto la menzione speciale come miglior documentario. Ne ho condiviso la visione e discusso con le persone che hanno animato la protesta sotto la torre. Sarà usato negli insegnamenti di Mediazione culturale in Statale. Lo considero la radice di un progetto più ampio, sto filmando le nuove attività del Gruppo degli immigrati autorganizzati. Con il ciclo di iniziative “Torre chiama terra” continuano a incontrare i cittadini milanesi, regolarizzati e non. L’obbiettivo è ancora informare della condizione dei migranti, delle conseguenze delle leggi sull’immigrazione, rivendicare i diritti e attivare proposte di convivenza civile che nascono nell’esperienza inarrestabile delle migrazioni. Continua l’attività di sportello informativo, centro di segnalazione e raccolta di esperienze quotidiane di chi ancora non è regolarizzato in previsione della prossima sanatoria. Si sostengono i presidi delle comunità di migranti provenienti dai paesi del bacino del Mediterraneo ora in rivolta. Si organizzano tende nei quartieri, nelle strade della città, dove l’attività di documentazione capillare, con il supporto delle università e delle organizzazioni che desiderano contribuire, si unisce alla festa, alla condivisione di cibo, musica, balli.

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UNA SOLLEVAZIONE POPOLARE

a cura della Redazione. (xxd 5, marzo 2011)
DA ROMA A FERMO, DA BOLOGNA A TORINO PASSANDO PER MILANO, LE NOSTRE INVIATE/MANIFESTANTI RACCONTANO LA GIORNATA DI MOBILITAZIONE ANTISESSISTA E ANTIREGIME BERLUSCONIANO
TORINO – Sono le donne ad avere chiesto di scendere in piazza e 1.000.000 di persone l’hanno fatto. I dati ufficiali dicono 100.000 a Roma, 80.000 a Torino e 50.000 a Milano, eravamo molte di più ma a me interessano le proporzioni, che sono davvero sorprendenti, Torino quasi come Roma? All’inizio un po’ di spaesamento, non assomigliava alle manifestazioni di donne a cui ero abituata e ho pensato che avevano ragione le compagne, le donne non c’entravano poi molto in quella piazza. È stato spontaneo chiedersi quali desideri stavano condividendo uomini e donne, davvero solo la voglia di far cadere il governo? Davvero la manifestazione poteva essere solo uno strumento qualunque, un’occasione da cogliere per ottenere le dimissioni? La manifestazione non ci lascia altro? Dopo ho potuto vedere che i giornali e i telegiornali hanno riportato molti contenuti che riguardano direttamente il tema della dignità delle donne, che dovremmo certo riprendere e approfondire, nell’idea di poter costruire significati condivisi, ma la nostra voce è stata rispettata e ascoltata e non era quella dei partiti. Anche se la Canalis e la Rodriguez, che dicono che non sarebbero mai andate in piazza, e altr* con loro, hanno parlato di una strumentalizzazione politica. Le strumentalizzazioni sono invece arrivate da altre parti, mirabile quella di Panorama, utilizzando le voci di chi non è andata, per rafforzare nuovamente il pensiero banale, lo slogan facile da riportare nei bar e nei saluti veloci per strada. Ma in quel momento ero lì e ad un certo punto mi sono resa conto che non conoscevo nessun* ed era incredibile perché ci si conosce sempre tutt* in manifestazione. Non è stata la metropolitana traboccante, le piazze e le strade piene a farmi capire quante eravamo, ma il non riuscire a trovare le compagne. Allora ho cominciato a viverla come una grande prova di presenza pubblica. Una negazione della pretestuosa invisibilità attraverso cui si vuole legittimare l’indifferenza per i diritti delle donne. Tutto quasi in silenzio perché Torino ha scelto il silenzio e l’assenza di striscioni. Questo mi è dispiaciuto perché non era possibile vedere ciò che le donne avevano fatto in città fino a sabato. In città le donne lavorano, ci sono gruppi, collettivi, associazioni, laboratori politici, un collettivo civico delle donne per il comune di Torino, le donne chiedono, ma a questa capacità di mobilitazione, così inaspettatamente grande proprio a Torino, non corrisponde però una opportunità di rappresentanza. A Torino non c’è tra le candidature alle prossime elezioni il nome di una donna. Perché questa invisibilità? Bersani dice di essere in manifestazione ad “accompagnare la moglie” e mi chiedo se durante la prossima manifestazione per i diritti delle persone migranti andrà per accompagnare un amico o un’amica straniera o perché crede in questo diritto come immagino creda che la dignità delle donne, tutte, così come il rispetto per ogni identità, sia uno dei valori fondanti una società civile, e nessuno possa farne a meno. E i molti uomini presenti alla manifestazione credo l’abbiano in parte dimostrato. Questo grande evento è sicuramente in grado di far riconoscere ai governanti a livello nazionale e locale la forza delle donne, ma ancora più importante è che è in grado di far riconoscere alle donne stesse la propria forza. Ora si tratta di continuare a usarla portando avanti le nostre richieste. Sono tornata a casa un po’ frastornata dagli interrogativi e dalla voglia di fare. Poco dopo cominciavano ad arrivare mail, video, dichiarazioni da tutta Italia e la manifestazione continuava… Stefania Doglioli BOLOGNA – A Bologna non c’erano musica né bandiere, soltanto cartelli fai-da-te e uno striscione fucsia con scritto “Né perbene né permale, unite diverse libere”. Attorno più di 50.000, tra donne e uomini, che quasi in silenzio hanno camminato dal fondo di via Indipendenza a piazza Maggiore, passando per piazza dei Martiri e via Marconi. Il quieto snodarsi del corteo interrotto da scoppi di slogan, urlanti parole che si leggono soltanto nei libri o si dicono nel chiuso dei circoli femministi. A gridarle, con voce cristallina, ventenni colme di energia, qualcuna munita di pentole e posate. Tutto intorno donne più grandi, di trenta, quaranta, cinquanta, sessanta e anche settant’anni, a urlare anche loro. A sorridere. Vicino gli uomini, in silenzio, in ascolto. “Né per bene né per male, sconfiggiamo il sistema patriarcale” gridavano, reggendo lo striscione, le giovani amazzoni con le ciglia arrotolate dal rimmel. “Maschi non state lì a guardare, a casa ci sono i piatti da lavare”, dicevano, muovendo le labbra lucidate dai gloss rosati. E ancora, con ritmo più studentesco, “Nostra la piazza, nostra la città, questa è la vera dignità”. Slogan che non si sa come risultavano commoventi, tra tutte quelle donne, tra tutto quel quasi silenzio. A inumidire gli occhi, forse, era quella moltitudine di individualità. Tante donne, così diverse, così uguali. Veniva da chiedere loro: ma dove siete state fino ad adesso? Veniva da pensare: ora che siamo tutte insieme facciamo qualcosa, cambiamo questo sistema. E il sistema non è rappresentato soltanto da un uomo, Berlusconi, come hanno insinuato i giornali e i telegiornali mainstream tacciando le donne di essere manipolate da chi vuole la testa del Sultano. Il suo nome può avere chiamato a raccolta qualcuna, ma non la maggioranza di chi era in piazza il 13 febbraio. A far mobilitare le donne è stata la rinnovata presa di coscienza che viviamo in un sistema basato sul maschio che domina e comanda a suo piacimento, che ci confina ancora dentro casa a badare ai figli, che ci vede come corpi di scambio, che non lascia spazio al lavoro delle donne, che ci tiene distanti dai luoghi del potere, che ci fa restare subalterne. E le donne, delle briciole, sono stanche. Lo hanno ricordato anche dalle gradinate di piazza Maggiore le donne col microfono. Attrici, sindacaliste, ricercatrici, precarie, migranti hanno detto a chiare lettere che “la questione femminile è la questione” e che “è venuto il momento di prendere la parola”. E quando la piazza era piena e si faticava a muoversi, dal microfono qualcuna ha scandito l’elenco delle violenze che le donne subiscono ogni giorno. Una salmodia di orrori e soprusi che colpiva lo stomaco e seccava la bocca. Era una specie di vertigine pensare “anche a me una volta è successo”, una presa di consapevolezza ulteriore. E di sicuro la consapevolezza non basta a cambiare il mondo ma è un primo passo per l’autodeterminazione. è un primo passo per riprenderci quello che vogliamo. Stefania Prandi ROMA – Il 13 febbraio non c’è stata una manifestazione, ma un gigantesco collettivo di autocoscienza. Per questo non importa se giornali, radio e tv l’abbiano strumentalizzata il giorno dopo, poiché la vera funzione di quell’evento è stata quella di risvegliare le coscienze e di far riavvicinare alla lotta ed ai temi femminili le donne. C’è stata l’invasione degli ombrelli rossi. Il collettivo che ha dato vita alla critical mass degli ombrelli rossi nasce dal progetto di quattro donne, chiamato Femminismo a Sud ormai diventato un progetto aperto a molte altre: più di 200 iscritte/i alla mailing list propongono e discutono gli articoli che verranno poi pubblicati autonomamente senza un gruppo editoriale che coordini. Questa iniziativa all’interno della manifestazione del 13 febbraio Se non ora quando è stata indetta a fronte del tentativo mediatico di dividere le donne in sante e puttane, schierandole l’una contro l’altra. Si è deciso quindi di coinvolgere il comitato per le prostitute, www.lucciole.org di Pia Covre, storica attivista sempre in prima linea anche per i diritti delle donne vittime di tratta. Gli ombrelli rossi simboleggiano la battaglia delle sex worker in tutto il mondo, che lottano per regolarizzare la propria professione, nell’ottica di un’autodeterminazione che in alcuni casi passa per la scelta di utilizzare il proprio corpo in modo diverso. La preparazione è stata molto faticosa ma siamo riuscite/i a contaminare con gli ombrelli rossi la maggior parte delle città aderenti, fino ad arrivare a un aggiustamento di tiro delle organizzatrici, materializzatosi in un articolo dove si specificava ulteriormente che si stava combattendo per tutte le donne nessuna esclusa, quindi anche per le sex worker, le donne migranti e quelle nei C.I.E. (Centri di identificazione ed espulsione). Diversi collettivi romani si sono dati appuntamento in piazza per cercare di rendere coesa la partecipazione critica, anche non aderendo all’iniziativa degli ombrelli rossi, ognuno con il proprio messaggio significativo espresso su striscioni e volantini, per culminare con la consegna dei pacchi regalo – scatole colorate che riportavano scritte di alcune leggi del governo Berlusconi come quella sulla procreazione assistita, il pacchetto sicurezza, l’aborto ecc – da parte di alcune persone che sono riuscite a forzare le transenne che circondavano Montecitorio, dopo essersi staccate dalla manifestazione autoconvocando un corteo spontaneo per il Lungo Tevere e via del Corso. Per quel che riguarda gli interventi dal palco, anch’essi diventati sempre più includenti vista la pressione mediatica subita precedentemente, devo però segnalare una gravissima mancanza: l’assenza dei riferimenti ai diritti delle donne lesbiche, alle violenze, agli abusi e ai problemi di accettazione in una società maschilista e patriarcale che non riconosce altro modello sociale se non quello eterosessuale. L’occasione persa per le donne lesbiche spero potrà essere recuperata durante gli stati generali dell’Otto marzo. Valentina Vandilli MILANO – Per raggiungere la manifestazione del 13 ho preso un treno regionale e poi la metro. Già alla stazione di partenza c’erano quattro donne, oltre a me, dirette in Piazza Cairoli, a Milano. L’ho capito perché, appena è stato annunciato il ritardo di 25 minuti del treno, si sono attaccate al telefonino per avvisare le altre, anche loro su treni in ritardo, che arrivavano mezz’ora dopo davanti al Decathlon, l’insegna più visibile nella piazza in cui dalle 14.30 sarebbe iniziato il presidio. A ogni stazione salivano facce nuove, per me che faccio la pendolare su quel treno, che di solito a quell’ora di domenica carica solo bande di ragazzetti foruncolosi vestiti di nero. Vedo donne giovani e coi capelli bianchi, coi mariti o da sole. Mi colpisce una ragazzina nera minuta con un grande ombrello rosso sulla banchina, serissima. Prendo la metro, presto invasa: gruppi di donne con cartelli attaccati al collo, una madre con figlia e fidanzato che al cellulare si danno appuntamento con altre zie e cugine sotto l’insegna, una giovane coppia con bambino che chiede qual è la fermata giusta per la manifestazione. Il vagone si riempie più che nelle ore di punta e l’altoparlante informa che la fermata di Cairoli è chiusa. Allora capisco che siamo in tante, in tanti perché ci sono anche un sacco di uomini di ogni età, tra amici o con le mogli, le figlie. Si scherza sulla scala mobile: “La questura dirà che eravamo in 150 massimo”. Invece, via Dante è già una fiumana di gente. Come altri che si attaccano al cellulare appena sbucano in Cordusio, anche io cerco di contattare le persone con cui ho appuntamento dove tutti hanno appuntamento, sotto l’insegna. Però c’è ressa e alla fine rimaniamo un po’ qui un po’ là. Fendere la folla per raggiungere il palco a ridosso della fontana è impossibile, c’è un muro di carne umana che ti soffoca, ti pressa e ti rimbalza indietro. Il basamento a gradoni della statua equestre di Garibaldi è ricoperto di manifestanti arrampicati come formichine. E s’alza l’urlo: “Corteo! Corteo!”. Perché a Milano non si può stare lì fermi con le mani in mano, almeno bisogna camminare: c’è chi propone di andare sotto il Municipio. Ma fino al Duomo gira voce che sia gremito allo stesso modo. Allora si fa il giro dell’isolato verso Lanza, tentando di entrare nella piazza sul davanti del castello Sforzesco. Rivoli di persone si sono già riversate però nelle vie attorno prima di noi, chiamano al cellulare, aspettano. I bar sono tutti pieni. Pioviggina a intermittenza. Niente da fare. Siamo in tant*. Troviamo un bar a due isolati per metà vuoto che nel giro di mezz’ora si riempie. C’è la fila ai bagni, tutte donne. Ritorno verso il concentramento di gente e appena mi avvicino abbastanza per avere il colpo d’occhio a destra e sinistra tutti cominciano ad agitare delle sciarpe bianche sopra la loro testa. Sono felici, c’è energia e ancora il muro di gente tra me e il palco. Poi arrivano due ragazzotti alti e baldi con uno striscione con su scritto “Berlusconi come Mubarak” e iniziano a incunearsi tra i corpi che applaudono, ridono, ascoltano. Io li seguo, come se fossi la loro ombra e arrivo quasi quasi sotto il palco. Riesco a sentire chi parla ora, finalmente. C’è Eva Cantarella che legge dei problemi della democrazia e dalla politica nell’antica Grecia, assomigliano ai nostri in maniera impressionante. Ogni tanto ritorna il coro che scandisce “Dimettiti! Dimettiti!” e poi anche “Vergogna”. Tutt* rimangono fino alla fine, anzi tocca mandarci a casa. Disciplinat*. Orgoglios* di mostrare i cartelli fatti in casa, infilati nelle buste di plastica da ufficio, per via della pioggerellina. Di tutte le età. Il cielo prima era bianco come una distesa di neve e ora è buio ma si continua a restare lì, a parlare, a cercarsi sul cellulare con quelli che non abbiamo poi mai trovato sotto l’insegna. Perché eravamo lì? Me l’ha chiesto anche la troupe di una televisione locale. Avrei dovuto rispondere: “Perché un presidente del Consiglio può anche richiedere a pagamento le prestazioni di sex worker liberamente disposte a prendersi in carico le cure e le necessità del suo corpo e del suo spirito ma non può esporsi a indagini della magistratura su giri di prostituzione. Si è sempre appellato in questi casi al giudizio del popolo contro i giudici ma questa sollevazione popolare potrebbe far vacillare la sua sicumera”. Ma non lo dico, mi vergogno solo di immaginare che nel paese dove vivo, lavoro, pago le tasse, abbiamo un presidente del consiglio così. Ornella Guzzetti FERMO – La piazza di Fermo oltre ad essere molto bella è anche molto grande ma come mi hanno detto in molti probabilmente lo scopo della manifestazione non è stato capito, perciò come potete vedere dalla foto che ho fatto dall’alto la gente era quella (lì). Nonostante questo è stata una bella manifestazione, molti giovani, anche ragazzi, moltissime donne ovviamente, sul palchetto è intervenuto anche un ragazzo omosessuale, e mi sono stupita di non sentire fischi e altre cazzate di questo tipo, per fortuna. Gli slogan erano per lo più contro Berlusconi e i suoi vergognosi comportamenti. Non ho notato personaggi della politica di qui, c’erano molte famiglie con bimbi piccoli. Giorgia Vlassich

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IN PIAZZA INDIGNATE

La redazione. (xxd 5, marzo 2011)
L’appello Dove siete donne?, la chiamata in piazza di Se non ora, quando? non ci sono piaciuti, ci siamo espresse con una lettera di risposta (In trappola!) e anche con un esposto verso Piero Ostellino all’ordine dei giornalisti per il suo articolo contro chi ha incitato all’indignazione, articolo che difendeva la normalità dello scambio sesso femminile-risorse detenute dagli uomini. Le ragioni di chi voleva andare in piazza e di chi no sono state portate nella lista interna della redazione. Intanto la mobilitazione cresceva e il 13 febbraio è stato un trionfo per le organizzatrici: un milione di donne diverse, e uomini e famiglie intere, gente di tutte le età sono scese nelle piazze, e anche noi. Anche se, come abbiamo scritto sul nostro blog in risposta al Dove siete donne?, siamo quelle intrappolate in lavori precari, ricattate dal non rinnovo del contratto, immigrate che sanno che la disoccupazione significherà essere deportate dal paese che hanno scelto, nel quale hanno vissuto per anni dopo sei mesi di galera nei Cie senza diritti, “disoccupate” e “inoccupate” che suppliscono a un welfare inesistente con i lavori di cura e domestici, in famiglie che non sanno se riusciranno a pagare la prossima rata del mutuo e quanto dovranno accantonare per la bolletta dell’acqua, madri che rimanendo incinte perdono il lavoro, e comunque per occuparsi dei figli sono costrette a stare a casa, intellettuali su cui arriva la scure della privatizzazione delle università, sex worker che non trovano spazio nelle leggi, ma solo persecuzioni, giovani che non avranno una pensione, studentesse che non sanno se potranno continuare a permettersi gli studi, cervelli già fuggiti dalla “patria”. Anche noi troviamo che le ultime rivelazioni sulla vita sessuale di colui che anticostituzionalmente si fa chiamare premier non siano così oscene come le leggi della destra e della “sinistra” che mantengono nel precariato le nuove generazioni, distruggono le pensioni, tolgono fondi pubblici all’istruzione per destinarli alla chimera dell’energia nucleare “pulita”, ai ponti impossibili, ai trafori all’amianto che uccidono le valli, regalano beni comuni ai privati, persino l’acqua, e si potrebbe continuare a lungo. Tutto ciò ha uno scopo comune: far far soldi, profitti, agli amici degli amici, devastando le persone e l’ambiente. Le ragioni sono state stravolte dalle strumentalizzazioni, e c’è chi ha già mandato in onda e messo sulla carta le dichiarazioni delle donne che non sono scese in piazza, senza dare nessuna voce ai collettivi femministi, e Panorama ha usato i volti delle donne titolando in copertina “io non ci sto”. Non è giusto che in questo modo ottengano il nostro silenzio, ora noi possiamo continuare a spiegare le nostre ragioni. In fondo abbiamo ottenuto un’attenzione che troppo a lungo ci era stata negata. Mai negli ultimi venti anni eravamo state così tante (ma anche tanti) a indignarci usando una sola voce, un solo urlo, e mai in questi anni eravamo riuscite a condividere le nostre elaborazioni con così tante persone, il risultato è una ricchezza da non perdere, ma nemmeno da lasciare alla superficialità della “difesa della decenza del paese”, e nemmeno alla pretesa “difesa della dignità delle donne”, vecchio cavallo di battaglia cattolico per intrappolarci nelle case e nelle chiese con i bambini attaccati alla gonna, indignate (segretamente invidiose?) per le “puttane” che non stanno al gioco millenario. Che fare? Partecipare a iniziative politiche, creare occasioni di ricerca, elaborare un significato condiviso e nostro di dignità, immaginare eventi di comunicazione che permettano la partecipazione di tutt*, pensare a un movimento delle donne che diventi un movimento per le donne? Sappiamo che non vi stiamo dicendo nulla che non sia già nei vostri pensieri, ma non lasciamo che quello di ieri rimanga solo un giorno da ricordare. La voglia è quella di condividere questo desiderio con tutte le donne e gli uomini che in ogni città si sono confrontate su questi temi prima, durante, e che continuano a farlo dopo la manifestazione.

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ABORTO: DIRITTO DA DIFENDERE

di Sophie Brunodet. (xxd 4, febbraio 2011)
LA LEGA HA ABBANDONATO DEFINITIVAMENTE LE RIVENDICAZIONI PAGANO-CELTICHE E SI È ALLEATA CON IL VATICANO: IL PRESIDENTE DELLA GIUNTA PIEMONTESE PRIMO PALADINO DEL MOVIMENTO PER LA VITA, A SPESE DELLE DONNE.
A quanto pare, nel nostro Paese, il fatto che una donna abbia il diritto di autodeterminazione sul proprio corpo, la propria sessualità e la propria vita non va proprio giù. Sono passati oltre trenta anni dalla lunga e travagliata approvazione della legge 194/78 sull’aborto, ma sono continui gli attacchi ai principi in essa affermati e con essa resi di diritto per ogni donna. Guardando solo alla storia recente troviamo la legge 40/04 sulla fecondazione assistita e la riaffermazione della personalità giuridica del concepito, la moratoria sull’aborto promossa nel 2008 da Giuliano Ferrara e il “Protocollo per il miglioramento del percorso assistenziale per la donna che richiede l’interruzione volontaria di gravidanza” (Ivg), proposto dall’assessore alla Sanità del Piemonte Caterina Ferrero. Deliberato dalla Giunta regionale piemontese il 15 ottobre 2010, è il primo passo attraverso cui il nuovo governo di Roberto Cota attua il “Patto per la vita e per la famiglia”, sottoscritto in occasione della campagna elettorale delle ultime elezioni regionali piemontesi, il 24 febbraio 2010 con varie parti, tra cui Federvita Piemonte – che riunisce settanta Movimenti per la vita e Centri di aiuto alla vita piemontesi – e Alleanza cattolica. L’obiettivo del protocollo è “dare la massima attuazione a tutte le esigenze previste dalla legge n. 194/1978”, ossia mira a incentivare la maternità, a tutelare il diritto alla vita e a ridurre il numero di aborti in Piemonte, ricercando ogni possibile alternativa all’Ivg nel “rispetto della donna e delle sue esigenze di scelta responsabile della maternità”. Per realizzare tali finalità, si legge nel protocollo, le Asl sono tenute ad attivare delle convenzioni con enti locali e “in particolare con le organizzazioni di volontariato e associazioni del privato sociale, operanti nel settore della tutela materno infantile”. È emblematico che, tra i requisiti che un ente deve avere per poter essere iscritto negli elenchi delle Asl, sia richiesta la “presenza nello statuto della finalità di tutela della vita fin dal concepimento e di attività specifiche che riguardino il sostegno alla maternità ed alla tutela del neonato”. A prima vista sembrerebbe che il protocollo Ferrero voglia allinearsi ai principi e alle finalità della 194 per contribuire alla sua piena applicazione, ma la realtà è un’altra: esso rappresenta l’ennesimo attacco alla 194 e ai diritti e alle libertà culturalmente e politicamente conquistate attraverso essa. Il primo passo per togliere ogni dubbio circa la buona fede di questo provvedimento ci porta a guardare al patto per la vita sottoscritto da Cota. Innanzitutto, pur richiamandosi alla 194, egli afferma che la vita cui si riferisce va “dal concepimento alla morte naturale” attribuendo, contro quanto sancito dalla 194, personalità giuridica al feto. Inoltre, tale patto è stato firmato insieme al Movimento per la vita (Mpv) e, in linea con ciò, il protocollo Ferrero apre di fatto le porte dei consultori a questa associazione antiabortista, nata nel 1975 con lo scopo prioritario di ostacolare la legalizzazione dell’aborto e di dare seguito politico e sociale alla posizione morale della Chiesa cattolica, con particolare riferimento all’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI del 1967. È difficile credere che l’amministrazione piemontese voglia realmente lavorare in favore della 194, a maggior ragione se si tiene conto che l’opposizione alla stessa è presente ancora oggi nello statuto del Mpv, per il quale le donne sono primariamente madri, il luogo della procreazione è la coppia sposata eterosessuale, embrioni e feti sono bambini e l’aborto è un omicidio. Il secondo passo ci porta ad analizzare più nel dettaglio il protocollo Ferrero, evidenziando le sue contraddizioni rispetto alla 194. Essa viene attaccata riguardo alla posizione giuridica del feto, dal punto di vista della privacy della donna, da quello della libertà della scelta della stessa, rispetto alla promozione dell’uso delle tecniche abortive più moderne e meno invasive. In merito alla questione del feto, nel protocollo è previsto che le Asl stipulino convenzioni esclusivamente con associazioni che abbiano come finalità “la tutela della vita fin dal concepimento”, che spesso si accompagna al principio della sacralità della vita. In questo modo il protocollo è in conflitto con la 194, sia rispetto al suo primo articolo che recita “lo Stato (…) riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”, formulazione ambigua, ma evidentemente lontana da quanto sostenuto dal Mpv; sia rispetto al principio secondo cui sono prioritari i diritti di chi persona lo è già, rispetto a quelli di chi ancora non lo è, ripreso dalla sentenza nº 27 del 1975 della Corte costituzionale. Per quel che riguarda la tutela della privacy della donna, il protocollo introduce accanto al medico la figura del volontario, la cui formazione pare che avverrebbe a spese del bilancio regionale, il quale non ha alcuna competenza specifica e non ha alcun codice deontologico cui attenersi né un segreto professionale da rispettare. Come si legge nel protocollo, “l’accoglienza della donna in gravidanza può essere indifferentemente effettuata dai servizi consultoriali, dai centri per la famiglia e dalle altre strutture del volontariato/privato sociale” idoneamente convenzionate. Nei passi successivi è specificato che l’intervento del volontario e del privato sociale debba avvenire solo “se necessario e richiesto” senza specificare cosa significhi necessario, ma ancora più sotto si dice che al primo colloquio di accoglienza è previsto un “intervento di counselling di sostegno alla maternità a cura degli operatori del consultorio e/o dell’operatore del volontariato e del privato sociale convenzionati e coinvolti nel percorso”. Sarebbe a dire che una donna che si rivolge ad una struttura pubblica per richiedere ai sensi di legge una prestazione sanitaria, con il protocollo Ferrero sarà accolta non più da medici con il compito di garantirle il “diritto alla procreazione cosciente e responsabile” sancito dalla 194, ma con operatori non professionisti, non competenti, non tenuti al segreto professionale e convinti dell’immoralità dell’aborto. Nella 194 la privacy della donna è garantita dal privato confronto col medico che, violandola, è punito dal codice penale. Questa rappresenta una delle principali conquiste della legge, in quanto ha permesso l’emersione dell’aborto dalla clandestinità, unica strada possibile prima della 194 per interrompere una gravidanza, lontano dalle gravissime conseguenze di natura penale e/o fisiche per la salute delle interessate. Anche sul piano della libertà della scelta è notevole la distanza tra quanto affermato nella 194 e quanto è previsto nel protocollo. Per come è concepita nella 194 e nonostante il fatto che questa gli attribuisca dei compiti che vanno al di là delle sue competenze – per esempio nella valutazione delle cause e delle possibili soluzioni ai motivi addotti da una donna per accedere all’Ivg – la figura del medico è garanzia di un’adeguata, completa e disinteressata informazione della donna circa la regolazione delle nascite e ogni possibile percorso da intraprendere a gravidanza avviata, assicurandole così una effettiva libera scelta; al contrario il volontario imposto dal protocollo Ferrero è invece portatore di forti convinzioni morali con le quali la donna che si rivolge a un consultorio pubblico non potrà più decidere se dialogarvi o meno, con un pericoloso attacco al suo diritto di autodeterminarsi. Infine, il protocollo manca di soddisfare quanto richiesto dalla 194, la quale vuole la promozione dell’“uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione di gravidanza”, il che a oggi significa promuovere l’utilizzo della RU 486, da due decenni impiegata in Europa, meno invasiva e rischiosa delle tecniche attuali, nonché economicamente vantaggiosa per la sanità pubblica. Non solo il protocollo non fa cenno a questo ammodernamento della tecnica abortiva, ma Cota, nel suo patto, attacca l’adozione del farmaco in quanto teso a “banalizzare l’aborto come soluzione” e anticipa che sarà suo impegno far sì che, in Piemonte, la sua somministrazione avvenga attraverso un ricovero, “escludendo ogni ipotesi di aborto fai da te a casa propria”, come se semplificare un procedura ne semplificasse a sua volta il significato. La 194 rappresenta una conquista, seppur frutto di pesanti compromessi tutti rintracciabili nella sua formulazione tutt’altro che ineccepibile e priva di contraddizioni, di libertà decisionale delle donne sul proprio corpo e la propria sessualità. Il fatto che queste conquiste vengano ripetutamente messe in discussione fa sì che il dibattito sull’aborto non possa progredire verso la formulazione di una legge più coerente e veramente promotrice dell’autodeterminazione della donna e che invece si debba costantemente impegnarsi affinché ciò che le generazioni prima di noi hanno ottenuto non venga cancellato.

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