STUDIARE LE LESBICHE? SÌ GRAZIE

di Ornella Guzzetti. (xxd 4, febbraio 2011)
VENTIDUE LAUREATE HANNO PARTECIPATO AL PREMIO DI LAUREA IN STUDI SUL LESBISMO E SUL GENERE DI ARCILESBICA. ABBIAMO INTERVISTATO LA VINCITRICE PER LE TESI TRIENNALI, LAURA SCARMONCIN SUL RAPPORTO TRA UNIVERSITÀ E MOVIMENTO.
La premiazione delle quattro vincitrici del concorso dedicato a Moira Ferrari, intellettuale e attivista lesbica mancata nel 2008 a 43 anni, si è svolto il 4 dicembre a Firenze, seguito da un seminario aperto, Visioni del lesbismo e prospettive delle ricerche, sul lesbismo come tema di studio e sul rapporto tra studiose del lesbismo e attiviste lesbiche. Per la sezione Lauree triennali è stata premiata Laura Scarmoncin, che ha presentato un lavoro sul lesbismo nel femminismo radicale italiano degli anni settanta, mentre Marta Gianello Guida ha avuto una menzione di merito per Audre Lorde – A new spelling of our names. Pratiche femministe per la messa in pratica di sé. Tra le lauree specialistiche ha vinto Valentina Colozza, con Formazione dell’identità lesbica e gay: il processo di coming out come fattore di sviluppo e la menzione di merito è andata a Francesca Russiello per un lavoro su orientamento sessuale e diritti negli Stati Uniti, lotta politica, azione giudiziaria e iniziativa legislativa per i diritti delle persone omosessuali dal 1969 al 2009. Facciamo qualche domanda a Scarmoncin sul seminario in cui si è discusso dello stato dell’arte degli studi sul lesbismo e del ruolo conoscitivo delle soggettività lesbiche dentro e fuori l’università italiana. Nell’università italiana ci sono corsi di studio che affrontano il tema dell’omosessualità e dei movimenti gay e lesbici? Nonostante l’impegno costante di alcun* studios*, l’assenza degli studi gay e lesbici resta un elemento distintivo delle nostre università anche se diverse discipline, dalla giurisprudenza, alla sociologia a alla psicologia, sembrano incontrare un momento di crescente interesse verso le questioni legate alle omosessualità, coinvolgendo a vario titolo e motivo studentesse, studenti e docenti non necessariamente lesbiche e gay. Ciò che ha generato un dibattito denso e articolato è stato il tema della soggettività nel suo legame con il processo della ricerca scientifica. Tuttavia, una buona fetta della produzione e della fruizione di lavori a tematica lgbtq si colloca piuttosto negli spazi del movimento o ai suoi margini. Quindi, come si dice, è sempre la categoria oppressa la prima a muovere uno studio su se stessa. Ma l’accademia conosce e vuole occuparsi del movimento? Il movimento viceversa vuole incontrare l’accademia? È evidente l’emergere entusiasta di un sapere sul lesbismo che parte soprattutto dal “basso” con tesi di laurea e dottorato e che inizia – anzi prosegue, per molti aspetti – a incalzare l’istituzione con le proprie domande di esperienza, visibilità e critica. Durante il convegno si è dimostrando come la comunità lesbica – politica, scientifica, amorosa che sia – è capace, o quantomeno ha tutto il potenziale, di indagare i propri stessi strumenti e i modi di azione e di pensiero. Il possibile innesto tra movimento e università, ad esempio, è stato descritto da molte come una via fertile e auspicabile attraverso la quale la politica lesbica potrebbe riuscire a fare breccia nell’accademia, producendo spostamenti critici ed epistemologici rispetto al paradigma eterocentrico. Da parte di altre è stato posto l’accento sull’opportunità di un travaso inverso di orizzonti e stimoli, che può avvenire quando il sapere accademico incontra e interroga il movimento a partire dai propri peculiari piani teorici e riflessivi, spingendo così a una costante revisione e risignificazione delle categorie e degli obiettivi politici in campo. Ma rispetto a ciò alcune hanno espresso una certa diffidenza, intravvedendo nell’istituzionalizzazione dell’eccentricità, carattere distintivo dell’esperienza e della politica lesbica, un rischio di normalizzazione. Si è parlato anche di una possibile “perdita di soggettività nel diventare oggetti di conoscenza”, legata anche al fatto che i saperi lgbtq storicamente sono nati al di fuori e spesso in opposizione alle comunità scientifiche e soltanto come tali hanno potuto esprimere la propria alterità de costruttiva. Conta essere omosessuale rispetto a questo oggetto di ricerca? Individue e individui non omosessuali possono occuparsi di studi gay e lesbici? A molte è sembrata sostanziale la differenza tra “studi del lesbismo” e “studi sul lesbismo”, ovvero tra un sapere prodotto dalle lesbiche su se stesse e un sapere sulle lesbiche prodotto da qualsiasi soggettività, mentre altre hanno voluto stemperarla. Alcune hanno definito l’esperienza personale del lesbismo come una risorsa di conoscenza e riflessione privilegiata, capace di produrre nel fare ricerca un posizionamento consapevole, autorevole e soprattutto vigile e critico contro la facile assimilazione di questo sapere alle categorie dominanti. Secondo altre invece, “le lesbiche non hanno la verità sullo studio del lesbismo” e questa concezione del posizionamento rischierebbe di scivolare in una presunzione di legittimità e di valore che porta a non ammettere altri punti di vista. Piuttosto, esso dovrebbe realizzarsi in un’assunzione di responsabilità intellettuale verso il proprio sapere, che renda espliciti gli intrecci – e i limiti di essi – tra soggettività, presupposti, scopi e metodi dello studio. La scelta di occuparsi di argomenti a tematica lesbica, per te e per le altre partecipanti lesbiche, ha rappresentato la possibilità e la volontà di una costruzione di coscienza e identità, oltre che di coming out? Indubbiamente. Alcune hanno accostato alla propria esperienza di ricerca anche una biografia legata se non persino guidata dal lavoro di ricerca, sottolineando come questo legame sia stato importante, e spesso fondamentale, per un percorso politico di consapevolezza e rivendicazione, ma anche per un processo psichico e sociale di visibilità e un lavoro individuale sulla propria interiorità

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L’AUTOMOBILE È FEMMINA

di Marta Gallina. (xxd 4, febbraio 2011)
L’IMPROBABILE AVVENTURA CHE A UNA QUALSIASI RAGAZZA POTREBBE CAPITARE SE ALL’IMPROVVISO RIUSCISSE A DISTINGUERE UNA FIAT DA UNA PEUGEOT.
Proprio di recente mi è capitata una grande disavventura, mascherata dalla beffarda sensazione che ti prende dopo che hai imparato ad amare una cosa del tutto nuova: mi sono appassionata di motori. Non chiedetemi come sia successo, forse un virus che tenevo in me latente è scoppiato all’improvviso. Si dà il caso che dal giorno in cui, entusiasta, ho comprato la mia prima rivista sull’argomento, sono iniziati i guai. Avevo già intuito che qualcosa non andava dall’atteggiamento che gli altri (maschi, nella fattispecie) avevano preso ad assumere nei miei confronti. Lo schema era più o meno questo: in una qualsivoglia conversazione tra uomini si inizia a parlare di motori (magari dopo aver esaurito l’argomento calcio) – mi faccio spazio a fatica nel discorso, aggiungendo un mio qualche parere – la reazione che si legge sui volti di tutti è di puro entusiasmo – inizio ad essere assorbita dal gruppo, diventando “uno di loro”. Ecco, qui sta il tasto dolente: dal momento che le donne non possono capirci nulla, allora se te ne intendi giusto un po’ di motori sei per forza di cose un uomo. In altre parole, se dovessimo scrivere un sillogismo aristotelico, suonerebbe più o meno così: Nessuna donna parla di motori. Marta parla di motori. Marta non è una donna. E dunque, cosa è Marta? La risposta è lapalissiana: un maschiaccio! Ma tutto ciò è stato solo il preambolo di quello che è successo dopo. Infatti, testarda e priva di freni come sono, ho osato entrare nella selva oscura delle riviste di motori e non per comprare un giornale per mio padre/mio fratello/mio fidanzato, ma proprio per leggerlo io! Strabiliante, devono aver pensato i presenti. Ma, tralasciando per semplici questioni di spazio la descrizione delle loro esterrefatte facce, passo subito al racconto, assolutamente degno di nota, di quanto successo dopo aver iniziato a leggere ciò che con tanta fatica avevo comprato. Non ho potuto fare a meno di notare subito la mancanza di un test driver fatto da donne. Sarà una casualità, ho pensato fiduciosa. Ma la speranza è stata presto persa: non che in quelle riviste mancasse una presenza femminile; soltanto, ai miei occhi (che ovviamente hanno una visione distorta della realtà), non era nei punti “giusti”. Dico solo che le più brutte assomigliavano a Naomi Campbell, che le più grasse pesavano 45 chili e che non guidavano macchine, ma le pubblicizzavano, evidentemente unica mansione che si addice a una donna. Ho dovuto sfogliare fino a pagina 80 per trovare finalmente un articolo interessante: Test lettore di Roberto Sposini è la rubrica. Leggo: “per molte donne il parcheggio è un cruccio. La soluzione? Si chiama Park assist”. Che rabbia. Ho visto uomini fare un numero indicibile di manovre per riuscire ad entrare in un parcheggio lungo 20 metri e largo 5. Ho visto donne mettere un camper dove pensavo non ci potesse stare nemmeno una Smart. Ho visto anche il contrario, ovvio, ma i fatti mi hanno più spesso portato a confutare il comune stereotipo “donna al volante, pericolo costante”. L’inizio non è stato dei migliori, perciò decido di comprare un’altra rivista. Altro titolo, stessa storia: non trovo articoli di donne, non leggo lettere di lettrici. C’è qualcos’altro però che attira la mia attenzione, un pezzo di Roberto Lo Vecchio a proposito della nuova Lancia Ypsilon: “L’input stilistico era di darle un’immagine più maschile, o più universale, per ampliare il target del modello attuale, scelto soprattutto dalle donne”. Nella mia ingenuità, non ci avevo mai pensato, ma esistono macchine per donne e macchine per uomini, magari così pensate già dal designer che le ha progettate. Alle prime, tendenzialmente, macchine più piccole e con un motore limitato; ai secondi, invece, i cosiddetti “macchinoni”, con una cilidrata invidiabile. Ovviamente non sempre è così, soprattutto nell’ultimo periodo, ma si può parlare di una tendenza più o meno diffusa, specie se pensiamo al fatto che la Ypsilon per essere resa maschile è dovuta diventare più simile a una berlina quale la Delta. Sfogliando le pagine, un’altra sorpresa, dal titolo accattivante, Giungla d’asfalto: “Le donne sono oggi diventate protagoniste nelle liti del traffico al pari degli uomini. Non più sesso debole, quindi, ma sesso forte. Sarà il ritmo frenetico, sarà che i ruoli sono meno definiti, ma non ci sono più le donne al volante di una volta. […] Stanno sempre più diventando simili agli uomini. E loro? Sembrano spiazzati da questa acquisita disinvoltura delle donne al volante. Come dargli torto, considerato che un tempo le quattro ruote erano territorio esclusivo maschile. […] Niente toni gentili: si sentono autorizzati a mandarle a quel paese”. E qui a parlare è una donna, Laura Confalonieri, intervistata da Cosimo Murriani. Così le donne si emancipano. E prendono, ovviamente, anche i lati peggiori dell’idealtipo maschile. Probabilmente l’arte di guidare è rimasta, agli occhi dei più, appannaggio degli uomini, ma l’arte di sbraitare è stata più facilmente contagiosa. Ecco quindi le donne alla riscossa…dando, ancora una volta, maggiori possibilità di critica da parte dell’altro sesso. In fondo si sa, la donna intelligente fa paura; per cui perchè non trovare ampi stereotipi per mistificarla? Nonostante tutto ciò, non mi sono scoraggiata. Ho comprato molte riviste, ho letto tanti articoli, e alla fine ce l’ho fatta: ho trovato un pezzo scritto da una donna! Ma non era esattamente quello che mi sarei aspettata. Il titolo? Donna al volante, manutenzione incostante di Manuela Piscini: “Una donna su dieci non è nemmeno sfiorata dall’idea di effettuare da sola i basilari controlli dell’auto”. Altre brutte notizie. Sono sempre più ossessionata dall’idea che gli altri abbiano ragione. Sono un maschiaccio, l’eccezione che conferma la regola, non c’è niente da fare. Ma allora perchè nel 1888 la prima “carrozza senza cavalli” fu guidata da una donna, moglie dell’inventore? Perchè nel 1981 Michèle Mouton ha vinto una tappa del campionato mondiale di rally? Perchè Danica Patrick è stata la prima donna a vincere una gara in Indycar e non ha nulla da invidiare a una top-model? Perchè allora? Semplice: perchè, in fondo, D’Annunzio aveva torto quando scriveva “L’Automobile è femminile. Questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità di una seduttrice; ha inoltre una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza”. Al contrario, le donne obbediscono, obbediscono eccome! Specialmente quando viene loro imposto di rimanere lontane da certi ruoli. Specialmente quando viene loro imposto di rimanere inferiori agli uomini.

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COMUNITÀ VS SOCIETÀ DI COMUNICAZIONE MASSA

di Elisa Baccolo. (xxd 4, febbraio 2011)
DA QUANDO È USCITO IL DOCUMENTARIO IL CORPO DELLE DONNE SI È RICOMINCIATO A PARLARE DI QUESTIONE FEMMINILE, L’INIZIO DI QUALCOSA DI NUOVO CHE CONTINUA FINO A OGGI E DI CUI SI COMINCIA A SAGGIARE L’HUMUS.
Una sera di novembre, nella stanzetta di un bar di Inzago – 10.500 abitanti a est di Milano – qualche ingranaggio ha cominciato a muoversi. Le immagini del documentario di Lorella Zanardo, proiettato in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, hanno reso possibile una riflessione sulla questione femminile e un confronto generazionale tra i presenti, una trentina di ragazze e ragazzi, donne e uomini dai 15 ai 50. Ha aperto il dibattito una quindicenne, Giulia: “Conosco persone della mia età che si vestono come le donne in televisione, le vedo andare in giro mezze nude, ricevono fischi dalla gente che passa e si sentono belle, ma si riconoscono nel modello della donna in televisione o si sentono costrette ad assomigliare a loro? Hanno paura di non essere accettate per come sono o per come vorrebbero essere? Anche io ho un modello femminile, è ovvio che tutte noi ne abbiamo uno: io ad esempio mi riconosco nelle donne con il corpo modificato [tatuaggi, piercing dilatatori ndr]. Il fatto è che la televisione è un’ arma micidiale e se non sappiamo come difenderci siamo fregate, non ha un’influenza solo su noi donne che ci sentiamo obbligate ad apparire sexy e perfette ogni giorno, ma anche sugli uomini che se non ci vedono carine giudicandoci sulla base del modello televisivo non ci considerano donne. Tutto ciò è causato dal lavaggio del cervello che ci fa ogni giorno la televisione, ci inietta immagini che noi accumuliamo nel nostro cervello e ci cambiano il modo di pensare”. Le parole di Giulia illuminano sul fatto che le giovani adolescenti sono, almeno in parte, consapevoli dell’affronto che viene loro perpetrato e, a ben cercare, si trovano ragazze disposte a opporsi per modificare gli ingranaggi del sistema. Infatti quello che manca oggi, in particolar modo in Italia, non è tanto un modello – che sia quello femminile o maschile – quanto la varietà, quel pluralismo di cui la democrazia si è sempre fatta portatrice nelle parole ma non nei fatti. La possibilità non tanto di sentire rappresentata la propria parte, quanto quella di poterla esibire senza sentirsi a disagio, senza sentirsi sbagliate. Il punto è che oggi non ci concepiamo più come soggetti politici ma piuttosto come oggetti individuali e atomizzati privi di spessore, il cui apporto al proprio contesto è nullo. Durante questo confronto tra generazioni sono emerse idee diverse, ma una necessità comune di fondo: quella di eliminare le barriere individualistiche che, per citare le parole di una signora presente, “si conformano come un tubo nero davanti a noi, che ci isola e ci rende miseramente vuoti”. Se vediamo sempre più corpi nelle nostre scatole nere, la donna sembra scomparsa dalla televisione. Se ne sono perse tutte le tracce e al suo posto è stato lasciato un surrogato del femminile, qualcosa di levigato e innaturale che però è ormai pienamente penetrato nell’immaginario collettivo, spodestando l’identità di ciascuna di noi. Pezzi di carne di donna che non sanno parlare, prodotti del mercato che non comunicano nulla e, a dire il vero, sono la banalizzazione dell’erotismo stesso. Sta di fatto che il livello di desublimazione del femminile ha ormai raggiunto uno stato degenere e urge un intervento da parte di donne e uomini: è in gioco la dignità di entrambi i sessi, se non la loro identità e perfino i diritti costituzionali. Cambiare è possibile, come ha fatto notare una 30enne a proposito del programma Vieni via con me andato in onda su Rai3 a novembre, che ha sfiorato il 30% di share. Al di là delle contestazioni di chi si aspettava un contenuto di maggiore impatto, è chiaro che il pubblico italiano sente l’esigenza di una televisione più impegnata, spoglia di corpi abbelliti e chirurgicamente modificati. Esiste un’Italia alternativa, che pretende una televisione e una rappresentazione ben diversa da quella quotidianamente proposta. Il dibattito si è poi spostato sulla questione dei nuovi media, in particolar modo i social network. Christian di 24 anni ha affermato “Come molte cose anche Facebook è un mezzo, molto potente, che va usato con attenzione: così come la televisione stessa deve essere guardata con occhio critico”. La consapevolezza c’è sul fatto che, nonostante le potenzialità di FB e delle reti, il confronto oggi deve trascendere lo schermo di tv o pc recuperando un contatto umano più concreto, la piena fisicità dell’essere umano. Esattamente come è avvenuto durante la serata. Ciò che è emerso nel dibattito del 25 novembre è estendibile non solo alla questione della manipolazione mediatica o della violenza, ma all’intero assetto della nostra società: si è manifestata tutta la stanchezza per la competizione selvaggia, per il pensiero unilaterale, per quella imposizione totalitaria e martellante di immagini nelle nostre televisioni. E allora forse non è vero che tutte le donne sono disposte a introitare ancora per molto questi modelli e a permettere il loro dominio nelle case degli italiani: ci sono sia donne che uomini stanchi e preoccupati per gli effetti devastanti che questi processi stanno iniettando nella nostra cultura. È quindi da una comune esigenza che si è sviluppata un’atmosfera di solidarietà: l’esigenza di porsi in modo critico, di discutere e confrontarsi, di assumere una nuova prospettiva. Ma quale potrebbe essere questa prospettiva, sorgerebbe spontaneo chiedersi? Ebbene, il primo passo risiede proprio nel dialogo e nella sensibilizzazione: insegnare a se stessi e alle nuove generazioni come guardare e leggere criticamente i mass media. È tempo di mettersi in discussione, sin dalle radici, tempo di alzarsi e squarciare questo ormai scomodo quotidiano. E soprattutto è tempo di imparare a concepirsi non più come un super ego individuale, ma come un importante tassello che può fare la differenza nell’intero contesto. Tutto questo sta già accadendo. È in piccoli bar come quello di Inzago che oggi si decide il futuro d’Italia.

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UN GIORNO DA UOMO E SONO PIÙ DONNA

di Stefania Doglioli. (xxd 4, febbraio 2011)
LA COSMESI MASCHILE ENTRA PROROMPENTE NELLE PROFUMERIE E PROPONE PRODOTTI APPETIBILI ANCHE PER LE DONNE. UNA GUIDA ALL’ACQUISTO CHE SODDISFA ANCHE LE/I FASHION VICTIM, CON UN OCCHIO ALLA CONVENIENZA.
Mi sveglio pensando al manifesto, sì il metamanifesto, quel magnifico illuminante paragrafo che mi suggerisce di non essere ossessionata dalla bellezza e dai peli. Me lo ripeto come un mantra “nonsonossessionata nonsonossessionata nonsonossessionata” ma non serve, ho bisogno, anzi no, desidero, il che è peggio lo so ne sono consapevole, di farmi bella. Ma insomma il manifesto su di me ha iniziato un lavorio sottile e io desidero una bellezza metafemminile, ma soprattutto ho voglia di verificare una certa sensazione che mi suggerisce di prestare attenzione al mercato della cosmesi da uomo. Il risultato? Una giornata di metarealtà come solo la nostra società ci può regalare. La mia prima preoccupazione sono i capelli, gli unici peli a cui tengo, ho trovato una magnifica piastra, la confezione suggerisce che questa piastra è una piastra da uomo, caratterizzata dall’essere più corta e più sottile poiché solo gli uomini hanno i capelli corti immagino, infatti una piastra identica semplicemente più rosa, viene venduta come piastra da viaggio, costa di più ed ha prestazioni inferiori, compro la prima e mi viene il dubbio di essere sottoposta all’ennesima fregatura, gli uomini stanno entrando nel mercato della cura del corpo e come sempre hanno prodotti migliori dei nostri? Mi guardo intorno… Omettendo le marche faccio in fretta a capire che se voglio svegliarmi piena di energia mi convengono decisamente i prodotti da uomo, afferro un Kick start wake up turbo booster e mi sento già più attiva, il messaggio pubblicitario suggerisce di utilizzarlo se il lavoro ti sta chiedendo troppo, la notte fai tardi, hai una vita movimentata e ti senti stanco, ignoro la o e me ne approprio. Lo sguardo poi mi scivola su un anti-età rassodante per il viso, me lo ricordo, già visto su internet, fantastico slogan pubblicitario: “Posso darti un’intensa sensazione di piacere” poi appare la sagoma di un dildo, inequivocabile, altre parole chiave sono efficacia ottimale, praticità, potenza, sarà mio pure questo, l’alternativa nella gamma dei trattamenti donna d’altra parte è un prodotto per la cellulite che non promette ne piacere né praticità e tanto meno efficienza. Potere e potenza attraversano tutti i messaggi dei prodotti per uomo, magari mi passano attraverso la pelle e dopo un mese o due, il tempo che serve normalmente ai prodotti snellenti e anticellulite, mi trovo con un posto di lavoro da dirigente. Vale la pena provare. Prendo anche un deodorante full-power 48 ore non-stop che evidentemente puzzare non è più di moda neanche per gli uomini e appena decidono che fanno? Studiano un prodotto 48 ore che non hanno mica tempo da perdere loro. Ebbene neppure io, il mio. Non mi piacciono le profumerie devo ammetterlo, troppi colori e profumi, quest’anno va di moda l’immancabile rosa, il lilla, l’arancio e i soliti detestabili colori pastello, non mi soddisfano, mi giro e vedo uno scaffale elegantissimo, confezioni blu oltremare con il retro in rosso cina impero, semplicemente bellissime e naturalmente da uomo, non mi interessa neppure cosa c’è dentro, devo averle. Per il resto impera la noia anche per loro, molto nero, troppo, ho già l’armadio pieno di vestiti neri che snelliscono più della crema dello scaffale di fianco. Devo procedere con gli acquisti, ma non riesco a far tacere il fastidio di tutto questo rosa nei prodotti che vengono offerti alle donne, c’è l’ombra della pedofilia, della svalutazione, della paura dell’altra in tutto ciò, nel voler infantilizzare la donna, nel renderla bambina proprio mentre si prepara a riti di seduzione. Ci rifletterò dopo. Scelgo anche il gel crema ricolorante per capelli da uomo, una manna dal cielo che mi permetterà di evitare di buttare via metà confezione o di uscire con i capelli dello stesso colore dell’amica con cui di solito divido la tinta. Particolare da non sottovalutare: contiene una meravigliosa spazzola per distribuire la tinta al posto del solito pettinino tipico delle confezioni per donna che lancia pezzetti di colore su tutte le piastrelle neanche fossi nell’atelier di una pittrice entusiasta della vita. Scelgo anche un gel che pare faccia tornare i capelli sempre perfetti anche se li schiaccio con un berretto, visto che fuori siamo a meno 5 mi sembra un’ottima idea non rinunciare a coprirmi la testa, oltre tutto l’immagine sulla confezione mi promette di riuscire a fare incredibili acrobazie con un pallone, non si sa mai. Devo ancora pensare ai peli, non ci posso fare niente, sono il mio peggiore nemico, e la ceretta sotto le ascelle non è altro che uno strumento di tortura. Purtroppo non possiamo ammetterlo pubblicamente di essere pelose, anche molto pelose, e quindi il mercato ha studiato per noi donne quei ridicoli rasoi giocattolo, tutti rosa e lillini con due lame quando va bene, economici solo per chi li produce. Non funzionano è evidente, lo è soprattutto davanti allo scaffale dei prodotti per la rasatura dedicato agli uomini, tecnologia pura, soluzioni per ogni tipo di pelle, anche la mia. Devo solo superare l’imbarazzo di uscire con una cesta di prodotti per uomo sperando che credano che sono una trans, il che non mi imbarazza, piuttosto che una amorevole e sottomessa casalinga eterosessuale, che mi imbarazza decisamente più di ogni altra possibilità. Decido per un rasoio che pare uscito dalla Nasa e per un voluttuosissimo olio per rasatura. Mi avvicino alla cassa e trovo un’altra linea di prodotti cosmetici il cui nome è “Simply man”, capite che succede? Loro possono permettersi di essere semplicemente uomini dopo una giornata di restyling, mentre a noi viene suggerito di diventare artificialmente femmine. Che tristezza. A fianco c’è un detergente intimo, la linea è “for family”, il che è confortante da una parte – mi accorgo che l’igiene intima è infine raccomandata anche agli uomini – ma un po’ destabilizzante dall’altra, insorge il timore di non aver bisogno di farsi il bidè se non si ha una famiglia. Non ci devo pensare. Ho la borsa piena di prodotti migliori e più economici. Devo correre a casa a farmi bella come un vero uomo e uscire sentendomi veramente “simply woman”

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LA RIFORMA È LEGGE, LA PIAZZA È VUOTA

di Alice Corte. (xxd 4, febbraio 2011)
CONTRO LA GELMINI UN MOVIMENTO HA ATTRAVERSATO LE CITTÀ E A ROMA HA ALZATO GLI SCUDI CONTRO I PALAZZI DEL POTERE, QUANDO NON C’ERA PIÙ NIENTE DA PERDERE. RIMANE LA CONSAPEVOLEZZA CHE È TUTTO DA RIFARE
Non abbiamo avuto un autunno caldo degli studenti, appena dopo gli esami e ancora freschi di mare, ma un dicembre infuocato si, come ha dimostrato la piazza del 14 dicembre. Sicuramente c’è stata un’attenzione troppo alta solo su quella piazza. Una piazza unita dalla rabbia: la rabbia di chi all’Aquila ancora non è potuta rientrare nelle proprie case, la rabbia di chi non ha un futuro lavorativo, la rabbia degli studenti e delle studentesse che si vedono strappati i propri spazi di libertà futura – pensiamo solo all’ingresso dei privati nelle università, che rappresenterà una sicura limitazione alla ricerca. Una piazza unita dalla solidarietà: nessuno ha abbandonato il campo mentre c’era chi cercava di raggiungere i luoghi del potere in cui si approvava una legge grazie alla compravendita parlamentare. Eppure quella piazza unita dalla rabbia e dalla solidarietà era proprio il simbolo di tutto quello che c’era stato: il tentativo di costruire qualcosa che valesse per il qui e l’ora. Dimostrarlo. Nei mesi di mobilitazione nelle università è circolato sapere, nella forma di riunioni estenuanti o di seminari formativi. Occupando si è trovata una nuova gestione del tempo, ci si è riappropriati di uno spazio pubblico che studenti e studentesse hanno tutto il diritto di gestire. Creando relazioni ci si è incontrate tra donne, si è prodotto un sapere che non fosse capitalizzabile, ma che ci rendesse resistenti. La scelta di creare tali relazioni ha investito anche le piazze e le modalità di gestione del conflitto: cordoni di sole donne, cordoni misti, tenersi per mano mentre si corre, guardarsi negli occhi coi volti coperti. Anche qui, la piazza è solo simbolo: se non si è creato nulla, la piazza è solo pantomima. Invece, in due anni dentro le scuole e le università – nella convergenza di interessi con i ricercatori, con i lavoratori e le precarie – studenti e studentesse hanno saputo creare un presente. L’opposizione dell’estate scorsa è partita dagli atenei, in particolare dalla protesta dei ricercatori che ancora una volta constatavano i tagli alla ricerca, ma già nell’autunno 2008 il movimento d’opposizione si era espressa nelle scuole primarie e secondarie, contro febbraio 2011 15 provvedimenti come il ritorno al maestro unico, e aveva visto in prima fila proprio le donne – maestre, insegnati, mamme, studentesse – fino all’occupazione di alcune scuole elementari. La mobilitazione di quest’anno, ha avuto l’incredibile pregio di poter essere costruita nei mesi attraverso seminari, occupazioni e presa di coscienza da parte di chi vi ha partecipato. La lotta alla Gelmini non è la lotta ad un progetto di riforma, ma la creazione di relazioni e socialità diverse che hanno bisogno di tempi e spazi per diventare reali oltre le università. Intanto però sono stati messi in atto, ed è già qualcosa: si è avuta coscienza della propria esistenza.

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LA RIFORMA ANTIUNIVERSITÀ

di Daniela Danna.(xxd 4, febbraio 2011)
UNA RIFORMA ANTICOSTITUZIONALE CHE REGALA L’UNIVERSITÀ PUBBLICA AI PRIVATI È STATA APPROVATA. L’OPPOSIZIONE RESPONSABILE NON SI È ROVINATA LE VACANZE DI NATALE.
L’università è stata riformata, con grande soddisfazione di tutto il mondo politico: a leggere i programmi elettorali di tre anni fa delle due coalizioni non c’era differenza di intenti. “Riformare”, una gloriosa parola della sinistra novecentesca, è diventata sinonimo di “distruggere” nella neolingua neoliberale condivisa da tutte le parti del parlamento, nonché dal presidente della Repubblica, che ha approvato quasi senza battere ciglio una legge autocontraddittoria e inconstituzionale. La nostra Costituzione prevede che l’istruzione, anche quella superiore o terziaria, sia pubblica e la ricerca scientifica libera. La cosiddetta riforma invece porta a termine un percorso ventennale di privatizzazione del sapere, introducendo compiutamente logiche di mercato all’interno della vita accademica. Le università saranno governate da consigli di amministrazione aperti ai privati, perdipiù senza che questi ci debbano mettere una lira. Liberi di vendere risorse comuni agli amici degli amici, come è stato per tutte le privatizzazioni della Repubblica, in cui i governi di sinistra hanno eccelso su quelli di destra. Si prepara anche la valutazione ministeriale dell’operato di ricercatori e professori tramite l’Anvur, un’agenzia dipendente dal governo che stabilirà i criteri per valutare il nostro mestiere. Lo storico Fernand Braudel, che scrisse il suo capolavoro sul mondo mediterraneo in più di due decenni, sarebbe stato licenziato perché poco produttivo. Le lesioni dell’autonomia universitaria e della libertà di insegnamento sono state denunciate da molti lavoratori dell’università: la Rete 29 aprile dei “ricercatori indisponibili”, gruppi della Federazione dei lavoratori della conoscenza, l’Andu (Associazione nazionale docenti universitari), l’unica organizzazione sindacale che ha presentato una proposta di riforma che avrebbe realmente spezzato il potere del baronato – cioè della gestione privatistica di una risorsa pubblica, rendendola effettivamente un bene comune. E gli studenti? Si preparino a pagare – se han soldi – per supplire ai tagli di fondi pubblici. Oppure si indebitino con le banche! Il Village Voice di New York ha pubblicato il 7 gennaio un’inchiesta tra gli studenti ingannati dai college for profit, che si ritrovano con migliaia di dollari di debito e un pugno di mosche in mano. Come al solito, è la Merica che ci mostra il futuro, e gli studenti e le studentesse che hanno dato vita a questo grandioso movimento lo hanno capito – ma i loro canali di rappresentanza politica sono bloccati, e un patetico personaggio come una signora diventata avvocato con un viaggio dove gli esami sono più facili è diventata la fiera piazzista di “meritocrazia” (chi ha merito lo decideranno l’Anvur, cioè il governo, e “il mercato”). Ma non è certo merito suo, cara signora Gelmini: “La tendenza all’accumulazione illimitata non devasta solo la natura, ma la stessa società umana. Essa conduce infatti, alla fine, all’estensione del rapporto sociale capitalistico a tutti gli ambiti della società, anche a quelli la cui logica di funzionamento è del tutto incompatibile con esso (la scuola, per esempio)” (da “Marx e la decrescita. Per un buon uso del pensiero di Marx” di Marino Badiale e Massimo Bontempelli, disponibile in rete su vari siti). È ora di invertire la marcia

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A FIOR DI FICA: QUANDO IL VEGETALE FA MALE…

di Alessia Muroni. (xxd 4, febbraio 2011)
COSA SUCCEDE QUANDO L’INEFFABILE CONSORZIO PELLE CONCIATA AL VEGETALE IN TOSCANA ABBANDONA OGNI ARTIGIANALE COMPOSTEZZA PER DARSI AL TRASH? CHE LA REALTÀ SUPERA OGNI E QUALSIASI DELIRIO PSICOTICO.
Il tema è quantomeno eclatante, il corollario è pura vertigine concettuale. Dopo tanto delirante parlare, gioverà riportare le cose alla loro semplice evidenza. Elenchiamone quindi i protagonisti, i termini e perché no, le sorprendenti associazioni. Cominciamo con Oliviero Toscani, enfant terrible della fotografia pubblicitaria italiana, autore un tempo di mirabili campagne che mischiavano con certa disinvolta efficacia denuncia sociale e business puro. Ai nostri giorni, come tutti gli enfant terrible invecchiati ma che ancora ci credono, un po’ tendente al patetico nel suo voler sempre stupire, genere rocker con la tinta e la panciera. I suoi committenti: quelli del Consorzio Pelle Conciata al Vegetale in Toscana. Se andate sul funereo sito, troverete tutto ciò che può illuminarvi sulla loro artigianale attività. Il calendario. Gennaio: un castano dorato, mosso ma controllato. Febbraio: un bruno discreto, con un accenno di ciuffo. Marzo: leggermente asimmetrico, un bruno quasi nero. Aprile: riccio esotico, compatto. Maggio: rosso flamboyant, onde deliziosamente setose e ribelli. Giugno: scuro, moderatamente ripassato al rasoio. Luglio… È il calendario di una ditta di cosmetici e tinture per capelli? No, è il calendario del Consorzio, con fotografie di Oliviero Toscani, creato utilizzando come soggetti non pelli e cuoi prodotti dal Consorzio ma i corpi di dodici donne, anzi, quello che fa la vera essenza della femmina: Il Pelo Sulla Patata. E dico “femmina” perché “La forza della Natura. Incontro sulla Femmina” è il sorprendente titolo di un dibattito pubblico tenutosi il 13 gennaio a Firenze con i seguenti partecipanti: “Carlo Antonelli (direttore di Rolling Stone Magazine), Paolo Crepet (psichiatra), Raffaello Napoleone (amministratore delegato di Pitti Immagine), Marina Ripa di Meana (stilista, scrittrice, ambientalista), Vittorio Sgarbi (critico d’arte, politico, scrittore), Davide Paolini (giornalista) e Oliviero Toscani (fotografo)”. Citiamo da comunicato stampa, perché è sempre interessante vedere come questa gente, che pure imperversa ovunque, senta sempre il bisogno di ricordarsi/ci chi è. Annunciato il dibattito, la statura intellettuale ed etica di chi avrebbe partecipato, dallo psichiatra ad uso e consumo televisivo al critico d’arte andropausico, a svariati corifei del coté mercantile, alla pseudo scrittrice, preannunciava ciò che poi è successo, con Sgarbi che insultava le donne del gruppo femminista Frida iniziando uno spogliarello. Ma non abbiate paura: agli intervenuti è stata offerta la degustazione di vini OT, Oliviero Toscani (eh, sì), di Lambrusco del Consorzio del Lambrusco di Modena e di prodotti gastronomici Paolo Parisi. Non a caso, affabilmente, Oliviero Toscani ha definito i dodici reperti anatomici da lui offerti in visione “Tartes au Poil”, da vero gourmet. Dulcis in fundo: accanto al trionfo di pelo fotografico è stato esposto, come non pensarci, un campionario di pelli conciate dal Consorzio. Giochiamo alle libere associazioni: conciatori di pelli, pelli conciate, pelli umane. Dove abbiamo sentito già questa cosa? Ah, sì, a Norimberga, nel 1946. Quando al processo vennero prodotti tra i reperti alcuni oggetti – guanti, paralumi, copertine di libri – realizzati con pura pelle umana ebraica conciata. Pesante, sì. Altra associazione: ricordate il cosiddetto Mostro di Firenze? Sì, proprio nella stessa Toscana del Consorzio. Anche in quel caso notammo una certa passione per la medesima parte anatomica delle loro vittime, che infatti veniva ritagliata a fil di bisturi. Pesante, sì. Proviamo a risollevare la situazione: nel 1996 uno straziante film di Peter Greenaway, I racconti del cuscino, narra la storia della bellissima Nagiko che ama scrivere sul corpo dei suoi amanti i suoi racconti; la pelle dell’amante più caro, Jerôme, diverrà, per tradimento e vendetta, il cuoio delicatamente lavorato su cui sarà incisa l’edizione più preziosa dei suoi scritti. Pesante anche questo. Un’ultima chicca: prima del dibattito Toscani ha comunicato alla ministra Carfagna, e a tutte/i noi italiane/i, che il calendario della Carfagna, quello sì, che era volgare, e che se l’avesse fotografata lui sarebbe diventata primo ministro. Pensate che qualcuno si sia mosso a difendere la Carfagna, o almeno quella sventurata della Repubblica italiana con le sue istituzioni? No. A riprova che in Italia, ormai, è certificato e comunemente accettato che le donne fanno carriera con la fica, e che la nazione è alla fine. Pesante? Pesantissimo. Purtroppo questa faccenda è pesante dall’inizio alla fine, poiché senza alcuna grazia né speranza. Il fotografo Toscani prova la sua unica ragione di esistere non nella sua arte, ma nello scandalo che ne viene. Cresciuto nell’assunto piccolo-borghese che il faut épater les bourgeois, che l’arte fa scandalo, non può che concentrarsi appunto sullo scandalo, perdendo di vista ogni altra funzione dell’arte, sociale, intellettuale, o anche semplicemente estetica: neanche l’assioma de l’art pour l’art, infatti, giustifica la sfilata sciatta e senza pretese di pelo pubico da lui inscenata. Certo, nel momento stesso in cui ne parliamo, potremmo forse portare acqua al suo mulino. Eppure in questo caso il silenzio non può che divenire assenso: dove il cattivo gusto tracima e diventa genere nazi-necrofilo, dove l’ammiccamento erotico sconfina nella selezione di pezzi umani, dove i corpi delle donne sono oggetto da sezionare e collezionare come nei film sui serial-killer, dove la dignità e l’umanità delle persone non ha più terreno, riteniamo come donne di aver il dovere di definire tutto ciò come merita: una lurida porcheria. Dove non c’è né arte, né bellezza, ma solo la parte: quella cui il senso comune ha ormai ridotto quegli inutili esseri umani chiamati donne.

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BUONO DA INDOSSARE

di Daniela Danna (xxd 4, febbraio 2011)
Care e cari, questo mese vi presentiamo la copertina Ladyvegan, realizzata da Alessia Gatta, in risposta al discusso e disgustoso “vestito di carne” indossato da Lady Gaga in alcune occasioni mondane. La nostra fotografa ha voluto contrapporre con ironia al corpo giovane e rispondente ai canoni della bellezza da modella della star un corpo abbondante e col doppio dei suoi anni, velato da un vestito ecologicamente sostenibile. E inoltre etico, alla faccia della pretesa difesa del veganesimo che ha espresso come ragione per indossare quell’orrore. Personalmente sono stata convinta dall’antropologo Marvin Harris, quello di Buono da mangiare, che il corpo umano ha bisogno di oligoelementi presenti solo negli altri animali – così dicono le ricerche mediche che cita. E bilanciare correttamente una dieta vegetariana è per me troppo difficile, mea culpa, ci ho provato e fallito. Cerco comunque di consumare carne prodotta da allevamenti dove non maltrattano i loro animali, non li costringono in postazioni fisse, non li fanno ingrassare con mangimi industriali controllati dai computer: una vita di vera e propria tortura che il “progresso” dei metodi agroindustriali nelle campagne ha fatto diventare norma e necessità economica per abbassare sempre più i costi sul mercato competitivo. La scelta etica di non mangiare carne o nessun prodotto di origine animale la considero un’espressione di altissima moralità, specialmente in un mondo in cui si abbattono le ultime foreste (anche) per farne terreni da pascolo, e il valore nutritivo ottenuto dai prodotti animali potrebbe essere decuplicato se mangiassimo direttamente i vegetali usati invece per allevare gli animali – insomma quelle cose che gli ecologisti ci ripetono da anni. Mi sembra invece che se Ladygaga pensa di far pubblicità al veganesimo esibendo sul suo corpo un ammasso di carne puzzolente (la stilista ci mette tre giorni a realizzare questi suoi modelli, e presumo non lavori in un frigorifero), voglia piuttosto fare pubblicità solo a se stessa. In questo gesto contraddittorio non ci vedo né ironia né etica. Anche se resistere alla puzza di carne frolla ha sicuramente un grande valore sacrificale.

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NON SONO UNA VITTIMA

di Anna Svensson. (xxd 3, dicembre 2010)
DALLA SVEZIA UNA TESTIMONIANZA SUGLI EFFETTI CONTROPRODUCENTI DEL DISCORSO FEMMINISTA MAINSTREAM SVEDESE, CHE DIFFONDE L’IDEA – ALLA SANTA MARIA GORETTI – CHE LO STUPRO SIA PEGGIO DELLA MORTE.
Nell’infanzia sono stata sfruttata sessualmente e da adulta violentata. È stato rivoltante, e doloroso imparare a confrontarmi con quanto successo. Ma non è di questo che parlerò. Parlerò di come le donne violentate sono usate strumentalmente, mentre le si rifiuta un accesso al dibattito pubblico. Parlerò di come le violentate sono trattate e come invece dovremmo essere trattate dagli altri. Uso la parola “stupro” come insieme per le diverse varianti dell’aggressione e dello sfruttamento sessuali. Per me non è importante se si usa il sesso o le dita o un oggetto. I pregiudizi verso chi ha subito queste aggressioni sono gli stessi, sia che l’aggressore sia stato un parente, il partner oppure uno sconosciuto. Sono sempre stata consapevole di quello che mi accadeva da bambina. Allo stesso tempo lo negavo, dal momento che non sapevo che cosa significasse per me e come trattarlo. Ho fatto terapia di gruppo per capirne i risvolti emotivi. Quando ho raggiunto la consapevolezza, sono stata costretta a cambiare il mio giudizio su molte delle cose che c’erano nella mia vita. Non è stata un’esperienza piacevole. Lo stupro è stata una delle cose che sono stata costretta a riconoscere con me stessa a quel tempo, un anno dopo che successe. Prima pensavo di esserne stata io la causa. Pensavo che lui sicuramente si sentiva in una condizione di inferiorità, e che non capiva quello che stava facendo. Ma per lo più pensavo che fosse un mio sbaglio se lui mi aveva violentata, e pertanto che non contasse come violenza. Prima di capire che lo stupro riguardava anche me, pensavo che fosse impossibile passare attraverso una violenza sessuale mantenendo l’amore per la vita. Ma oggi ho dimostrato a me stessa che è possibile. Ho sentito molte donne dire che non sopravviverebbero se fossero violentate. Forse è solo la mancanza di fiducia in se stesse che fa sì che molti sottovalutino le violentate. Non possono capire come qualcuna possa stare bene dopo uno stupro, perché non lo credono per se stesse. Quello contro cui ho combattuto maggiormente non sono state le conseguenze dell’aggressione ma i pregiudizi e le aspettative che gli altri avevano su di me. Ho dovuto passare attraverso tante cose per poter stare bene dopo lo stupro, e ho dovuto difendere quello che stavo facendo mentre altri dicevano che era inutile. È l’immagine sociale delle vittime di violenza: la vittima di stupro piange tutte le notti, si lava le parti intime sotto la doccia senza tregua, vive nella paura eterna. Forse in quel momento sono stata una vittima, ma non è uno stato permanente come spesso si dice nei dibattiti sullo stupro. È stato così difficile per me comprendere che la mia vita poteva ritornare bella quando il mondo intorno a me non lo credeva. Quando sia la gente comune sia quelli che vanno a dibattere in televisione parlavano delle violentate dicendo che la vita delle vittime di violenza è distrutta. E benché io fossi consapevole di essere stata sfruttata sessualmente e di averlo superato, persino io credevo che uno stupro distruggesse la vita. Erano due prospettive che non si potevano unire. Non potevo accettare ciò che era successo e superarlo, dal momento che io ero una di quelle la cui vita era stata distrutta. Avevo bisogno di capire che si poteva lavorare sul trauma. Nel gruppo di terapia, dopo un po’ di tempo, ho cominciato a poco a poco ad ammettere che essere violentata non era lo stesso che essere vittima, e questo ha reso finalmente possibile cominciare il mio processo per capire e guarire. Mi ero fatta l’immagine delle violentate con la televisione, dai giornali e dalla retorica femminista. Nei dibattiti si parla volentieri delle violentate come di un gruppo, ma essere stata violentata è un’esperienza molto diversa da caso a caso. Io stessa non ho la pretesa di parlare per tutte, queste sono le mie opinioni e sentimenti sull’essere messa in un’identità che non è la mia. Ma so che anche altre donne hanno problemi perché la gente non riesce a vedere di che si tratta: lo stupro sembra velare la vista. Chiamarmi vittima di violenza è vedermi con gli occhi di chi mi ha violentata, come se fossi ancora sua vittima. Come un oggetto. Si sente dire che la vittima di violenza è senza potere, non è qualcuno che può vedere e ascoltare. Il nuovo modo di parlarne come “sopravvissuta” è una parola migliore, parla della forza di agire. Ma sia “vittima di violenza” sia “sopravvissuta” sono parole strane, sono nomi di un’identità. Invece di vedermi come qualcuno che ha un’esperienza in più, io violentata divento qualcosa di diverso da come ero prima. Come se fossi scomparsa con lo stupro. Ho ricevuto reazioni molto diverse al racconto di quel che mi è successo. Un’amica mi ha detto che dovevo essere sbronza perché le ho raccontato qualcosa che non poteva sopportare. Un’altra mi ha detto che allora riusciva a capire perché fossi così. Un amico se n’è andato. Prendevo queste reazioni come una conferma del fatto che io fossi finita, a causa dell’aggressione. Quello che aumentava il mio rispetto per me stessa era la terapia di gruppo dove potevo parlare apertamente dei miei pensieri e sentirmi capita. Il mio rispetto per le altre partecipanti mi ha contagiata nel rispettare me stessa. Anche gli amici che riuscivano a parlare con me, mi intrattenevano e mi mostravano di volermi bene, mi hanno aiutata molto per la fiducia in me stessa. Specialmente un’amica che mi diceva di avermi sempre stimata e che non aveva cambiato opinione per il fatto che mi era successo di venire violentata. Chi non mi ha aiutata erano quelle donne che gridavano nei megafoni sulla vita distrutta delle donne nelle manifestazioni contro le sentenze sugli stupri. Alle femministe mainstream piace dire che la vita delle donne è distrutta da uno stupro. Che è la cosa peggiore che può accadere a una donna, o che lo stupro è peggiore dell’assassinio, perché bisogna vivere con le conseguenze. Ma perché non lo si vede come qualcosa per cui essere arrabbiata e triste per un certo tempo. Come può uno stupro essere peggio della morte? Nella cultura moderna, quando una donna viene violentata, cioè quando viene perpetrato un reato contro la sua sessualità, si considera la sua vita, o per lo meno la sua vita spirituale, come distrutta. E chi è distrutta non ha nessun valore. Forse che il valore della donna risiede tra le gambe persino nel paese più paritario del mondo? Sembra proprio che sia così. Il compito del femminismo dovrebbe essere quello di chiarire la problematica dello stupro, non di cementare i pregiudizi. Dal libro F-ordet. Mot en ny feminism, a cura di Petra Östergren, edito da Pocketförlaget, Stoccolma 2008: La parola con la effe: verso un nuovo femminismo, traduzione abbreviata a cura di Daniela Danna

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VIOLENZA NEI CIE

di noinonsiamocomplici.noblogs.org. (xxd 3, dicembre 2010)
LA VIOLENZA CONTRO LE IMMIGRATE È DAVVERO INVISIBILE? LE “CLANDESTINE” NEI CIE, CENTRI DI IDENTIFICAZIONE ED ESPULSIONE, SONO PRIVE DI OGNI GARANZIA SULLE LORO CONDIZIONI DI DETENZIONE. E COSÌ SONO LORO AD ESSERE RESE INVISIBILI.
E’ stato fissato per il 2 febbraio con rito abbreviato il processo a un ispettore della questura di Milano, Vittorio Addesso, accusato di violenza sessuale nei confronti di una giovane nigeriana, Joy. La violenza, a cui la giovane donna ha reagito con determinazione, risale all’agosto 2009, quando Joy era rinchiusa nel Centro di identificazione ed espulsione milanese (Cie) di via Corelli. Il suo non è un caso isolato: un altro ispettore capo del medesimo Cie, Mauro Tavelli,attualmente in carcere per sfruttamento della prostituzione e favoreggiamento all’immigrazione clandestina, è stato anche accusato di violenza sessuale e molestie da parte di alcune donne transessuali. Anche in questo caso le molestie e le violenze sono avvenute in quel luogo, il Cie, che sempre più diffusamente viene definito “lager per migranti”. E in effetti proprio di lager si tratta, se teniamo conto che – come all’epoca dei lager nazisti – le donne e gli uomini vengono rinchiusi lì dentro in forza di un reato amministrativo e non penale: nel caso dei Cie, la mancanza di un permesso di soggiorno in regola. I Cie sono stati creati dalla legge Turco-Napolitano nel 1998 – all’epoca erano stati chiamati Cpt, Centri di permanenza temporanea – ma ci sono voluti più di dieci anni perché diventassero di pubblico dominio le violenze che le donne immigrate vivono quotidianamente fra quelle mura, dove rimangono rinchiuse per sei mesi con la prospettiva dell’espulsione dall’Italia. Eppure già nel 1999 una donna aveva raccontato dei ricatti sessuali – cioè la pressante richiesta di prestazioni sessuali da parte dei “guardiani” – che le immigrate subivano nel Cpt milanese anche soltanto per ottenere una scheda telefonica. Completamente senza diritti, peggio che nel carcere – dove almeno esiste un regolamento a cui appellarsi. Oggi in Italia i Cie sono tredici, ma l’attuale governo ne vorrebbe aprire altri dieci. Di quelli esistenti, cinque avevano anche una sezione femminile, finché non è stata chiusa quella del Cie di Milano nell’agosto scorso. Raccontare in poche righe tutta la storia di Joy è impossibile, ma basti dire che il suo coraggio di reagire alla violenza sessuale e di denunciarla pubblicamente ha stimolato la nascita di una rete informale di donne – dal significativo nome Noinonsiamocomplici – che ha amplificato la sua denuncia facendo conoscere le condizioni di vita delle immigrate in quei lager: ricatti, molestie e stupri da parte dei “carcerieri” che vanno ad aggiungersi al rosario di umiliazioni, maltrattamenti e torture, uso massiccio di psicofarmaci nei cibi, e altre violenze che anche gli uomini immigrati vivono nei Cie. Paradossalmente, il cosiddetto pacchetto sicurezza del 2009 – ovvero l’insieme di decreti legislativi approvati con lo scopo propagandistico di arginare la criminalità e la violenza contro le donne – ha portato la detenzione nei Cie da due mesi a sei, triplicando, così, anche il rischio di stupro che corrono in quei luoghi le donne immigrate sprovviste di permesso di soggiorno – in gran parte vittime di tratta ma anche colf, “badanti” e operaie delle cooperative di pulizia costrette a lavorare “in nero”. Le donne immigrate, infatti, vivono spesso in una condizione di totale precarietà lavorativa ed esistenziale, dunque sono facilmente ricattabili dal punto di vista sessuale tanto nei luoghi di lavoro quanto, e soprattutto, nei Cie. Ancora più paradossalmente, le immigrate senza permesso di soggiorno che decidono di denunciare alle forze dell’ordine le violenze sessuali e domestiche da parte del partner, degli sfruttatori o di chicchessia, nel momento in cui si recano in questura per sporgere denuncia vengono poi portate in un Cie, cioè in un luogo ancora più pericoloso per l’identificazione e, poi, la detenzione nel Cie. Molestate e violentate dagli italiani nei luoghi di lavoro, per strada, nelle caserme e nelle questure, le donne immigrate sono ancora più a rischio quando vengono portate in un Cie, in particolare se sono vittime di tratta, ovvero giovani e giovanissime donne portate in Italia con l’inganno e costrette a prostituirsi sotto minaccia della vita loro e dei loro familiari. I casi citati, solo alcuni fra gli innumerevoli, sono già sufficienti a dare una quadro della situazione e a dimostrare quanto sia necessario che le lotte femministe contro la violenza sulle donne acquisiscano uno sguardo quanto più complessivo. È inutile e dannoso andare a vedere le violenze che le donne vivono nel resto del mondo se prima di tutto non si parla delle violenze che le italiane vivono in famiglia e non si pone l’attenzione su – e si rompe ogni complicità con – gli abusi e le violenze che le donne immigrate vivono da parte degli italiani – anche di quelli in divisa – dentro e fuori i lager per migranti.

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