CHE NOIA, SENZA DONNE

di Alessia Muroni. (xxd 3, dicembre 2010)
LE DONNE SONO UTILI OGGETTI, CHE POSSONO AGEVOLMENTE CELEBRARE INTESE POLITICHE ED ALLEANZE TRA POPOLI. IN PIÙ, A LORO ESSERE BRUTALIZZATE PIACE. PER QUESTO, NELL’VIII SECOLO AVANTI CRISTO…
Roma, intorno al 752 a. C. Nella nuova città fondamentalmente ci si annoia. Soprattutto, pare, scarseggiano le donne. Dunque si chiamano tutte quelle tribù dei dintorni con i nomi buffi, i Ceninensi, i Crustumini e gli Antemnati, ma soprattutto si invitano i Sabini. Quei burini infatti, fabbricano donne a tutto spiano. Scoppiano di donne, quelli di Tito Tazio. E quindi quel lontano 21 agosto saranno gli ospiti d’onore di una festa, il cui ricordo rimarrà nei secoli: canti, danze, sacrifici agli dei, pop corn, zucchero filato, il circo e, quando iniziano i giochi sacri… “allora, come convenuto, scoppiò un tumulto e la gioventù romana, a un preciso segnale, si mise a correre all’impazzata per rapire le ragazze. Molte finivano nelle mani del primo in cui si imbattevano: quelle che spiccavano sulle altre per bellezza, destinate ai senatori più insigni, venivano trascinate nelle loro case da plebei cui era stato affidato quel compito”. Il nostro antico cronista, nel gran parapiglia, va a notare proprio questo, il che, portato ai nostri giorni, potrebbe far riflettere anche noi: le belle fanciulle destinate ai potenti, raccolte da un caporalato plebeo. Ci ricorda qualcosa? Ma andiamo avanti. “Finito lo spettacolo nel terrore, i genitori delle fanciulle fuggono affranti […] Le donne rapite, d’altra parte, non avevano maggiori speranze circa se stesse né minore indignazione. Ma Romolo in persona si aggirava tra di loro e le informava che la cosa era successa per l’arroganza dei loro padri che avevano negato ai vicini la possibilità di contrarre matrimoni; le donne, comunque, sarebbero diventate loro spose, avrebbero condiviso tutti i loro beni, la loro patria e, cosa di cui niente è più caro agli esseri umani, i figli. Che ora dunque frenassero la collera e affidassero il cuore a chi la sorte aveva già dato il loro corpo. Spesso al risentimento di un affronto segue l’armonia dell’accordo. Ed esse avrebbero avuto dei mariti tanto migliori in quanto ciascuno di par suo si sarebbe sforzato, facendo il proprio dovere, di supplire alla mancanza dei genitori e della patria”. Certo, messa così sembra quasi un affare. “A tutto questo si aggiungevano poi le attenzioni dei mariti (i quali giustificavano la cosa con il trasporto della passione), attenzioni che sono l’arma più efficace nei confronti dell’indole femminile”. Et voilà. Con queste parole Tito Livio, nel tempo stesso in cui cementa per sempre la violenza del maschio all’istintiva acquiescenza della femmina, consegna alla Storia la legittimazione politica dello stupro di massa. Una sordida storia di sequestro di persona, stupro e coercizione diventa dunque il Mito Fondante per eccellenza, quello di Roma, capitale di un reame di pastori che diventerà un impero. Noteremo questo legame sorprendente ma innegabile tra oltraggio al corpo delle donne e politica. Non è una roba di quelle fumose degli antichi, da far compagnia all’unicorno, l’ippogrifo e mitologia varia: non è nuovamente successo nella nostra civilissima e cristianissima Europa solo pochi anni fa? La conquista dello spazio vitale era prima di tutto conquista del corpo delle donne, nella ex- Jugoslavia, così come lo è in Cecenia oggi. D’altronde il nome stesso del nostro continente, non ci ricorda un altro ratto con stupro, quello appunto di Europa? Una fanciulla che gioca quieta in un prato, vede un bel torello bianco dagli occhi vellutati, gli sale in groppa, e il torello prende il largo, letteralmente, con lei sopra, incurante delle sue urla d’angoscia e dei pianti delle amiche sulla spiaggia. Inizialmente dunque Europa si chiameranno le terre che circondano quel mare, il Mediterraneo, attraversato e simbolicamente posseduto dal toro. Ma torniamo alle nostre Sabine. Il possesso del corpo delle donne, anzi no, lo stupro, è dunque uno degli elementi costitutivi della nostra civiltà. Questo semplice dato di fatto è pertanto giustamente celebrato in una serie di opere d’arte, quadri, sculture, affreschi. È piuttosto interessante notare come tale soggetto sia riprodotto, ad esempio, in molti cassoni nuziali, cioè quelle cassapanche più o meno riccamente decorate con cui secoli addietro le fanciulle di buona famiglia venivano spedite al marito portando con sé il corredo. Pur tuttavia, e diremmo quasi per un atto di carità, non insisteremo su questo sentiero alquanto sdrucciolevole ed infido, non fosse altro perché ci porterebbe a riflessioni veramente cupe sull’ontologia stessa della famiglia patriarcale. Concentriamoci invece sul fatto che quando si è voluto celebrare il potere di una casata, di una città o di una nazione, spesso se ne modellarono i fasti sull’impronta della storia romana. È per questo dunque che nel Palazzo dei Conservatori a Roma l’importante magistratura del Comune celebrava iconograficamente la sua potenza a partire, giusto, dal Ratto delle Sabine, che occupa per intero il lato a destra della sala d’ingresso. Ma venendo a tempi più moderni, come non rilevare che nell’emiciclo di Palazzo Montecitorio, elegantissimo scrigno liberty, i nostri rappresentanti politici concionano, si sbranano, e a volte legiferano, proprio sotto il fregio di Giulio Aristide Sartorio che celebra, con l’augusta storia del popolo italiano, anche il Ratto delle Sabine? Sarà per questo che ci hanno messo alcuni decenni ad elaborare un diritto di famiglia, una legge sull’aborto, ed una sullo stupro, che togliessero al corpo di donna lo statuto di oggetto su cui moraleggiare, filosofeggiare, di cui disporre liberamente anche con la violenza fisica e la coercizione legalizzata, per trasformarlo in un soggetto di diritto? Ed è proprio perché continuano ad avere sotto gli occhi quella scena, che cercano di demolire ora, con notevole tenacia, quel minimo di libertà e di diritto acquisito? Sia chiaro, non stiamo proponendo di scalpellare affreschi e distruggere opere d’arte. Ma solo di aprire gli occhi, questo sì. I diritti delle donne sono i più precari tra i diritti umani, mentre certe storie, e certe idee, sanno attraversare i secoli in ottima forma

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IL SOGGETTO DEL DESIDERIO

di Michele Poli. (xxd 3, dicembre 2010)
ALCUNI UOMINI HANNO DECISO DI APRIRE UNA FINESTRA SULLA PROPRIA SESSUALITÀ. COSA CAMBIA SE GUARDIAMO AL MERCATO DEL SESSO DAL PUNTO DI VISTA DEGLI UOMINI, OVVERO DI CHI INDUCE ALLA PROSTITUZIONE? L’associazione nazionale Maschile Plurale ha organizzato a Torino un incontro il 9-10 ottobre 2010 dal titolo “Quell’oscuro soggetto del desiderio. Immaginario sessuale maschile e domanda di prostituzione.” Ad ospitare l’iniziativa è l’associazione Cerchio degli uomini che da anni riflette sia sul maschile, organizzando gruppi di soli uomini, sia sulle relazioni uomodonna con gruppi misti, fino a realizzare interventi nelle scuole e una linea d’ascolto telefonico sul disagio maschile. La prima giornata dell’incontro è stata riservata ai soci dell’associazione, 32 uomini di dieci regioni d’Italia si sono confrontati con lo scopo di illuminare una zona grigia di contiguità tra il “normale” immaginario sessuale maschile e la domanda di prostituzione. C’è un terreno comune – si sono chiesti – tra chi è cliente di prostitute e chi non lo è? Si sono raccolte le esperienze e le voci degli uomini della rete nazionale di gruppi maschili, sottesa all’associazione, per poi dare vita ad un confronto diretto sulle proprie esperienze. Nella seconda giornata, gli uomini di Maschile Plurale hanno riportato le riflessioni maturate nella prima giornata in presenza di diverse organizzazioni che si prodigano per garantire assistenza alle prostitute e per tutelarne i diritti. Tra queste, è presente l’associazione La ragazza di Benin City, alla quale peraltro va riconosciuto il merito di aver fortemente sostenuto l’incontro, che avvicina i clienti delle sex workers per indurli a comprendere le conseguenze delle loro richieste. Alcune delle questioni emerse, che testimoniano il proficuo dibattito animato dagli uomini presenti e arricchito anche dalle osservazioni delle operatrici e degli operatori invitati all’incontro, hanno originato delle domande “aperte”. La richiesta di sesso a pagamento costituisce una modalità di comportamento “facile” e, dunque, “utile” per evitare l’intimità autentica, oppure, è un vero bisogno di intimità, ma è mal posto? Si può considerare un incontro, in quanto tale, quello che avviene tra il cliente e la prostituta o è solo un rapporto di forza esercitato per controllare il desiderio femminile? E ancora, come e in quale proporzione è distribuito il potere tra chi compra una persona, come fosse una merce, e chi vende le proprie prestazioni sessuali? La mercificazione del corpo oggettivizza e appiattisce la relazione oppure può costituire l’espressione di bisogni relazionali che la nostra società non riconosce riconducibili ad una comune e condivisa “morale pubblica”? Certamente, i presenti hanno affermato la necessità di non giudicare se si vuole accedere al vissuto sia dei clienti che delle prostitute, per non ricadere nell’indifferenza o nella condanna che finiscono per impedire ogni analisi del problema. Si è sentita l’urgenza di superare il senso di sporcizia, propriamente maschile, provato nei confronti della propria sessualità, ma spesso proiettata verso chi si prostituisce, al punto che donne e a volte uomini o transessuali sono riconosciuti in quanto tali solo perché utili per “sfogare” desideri sessuali vissuti come negativi o pericolosi. Tutti i partecipanti hanno riconosciuto il bisogno di discutere pubblicamente della sessualità maschile per non considerare il ricorso alla prostituzione come un fenomeno “patologico” di alcuni e, soprattutto, per debellare quelle pretestuose e inefficaci politiche repressive che impediscono la costruzione di una rete sociale in grado di salvare chi è sottoposta a tratta e ostacolano l’uscita dalla clandestinità, criminalizzando. Nel parlare di prostituzione si è finito per scrutare nella quotidianità delle relazioni, segnate da un’asimmetria di potere tra uomini e donne e da diverse concezioni del bisogno sessuale; si è guardato alle umane difficoltà che clienti e prostitute incontrano in una società incapace di accogliere chi soffre; si è parlato della morale, condizionata da certo cattolicesimo conservatore e familista che osteggia la libera scelta delle relazioni. L’incontro rilancia l’interrogativo sulla motivazione che spinge milioni di uomini in Italia a ricorrere alla prostituzione; forse, alcuni fattori stimolanti sono il desiderio di sentirsi liberi, senza chiedersi quanto la realizzazione della propria libertà leda quella degli altri, di uscire dalla necessità della performance, della difficoltà a confrontarsi sulle pratiche sessuali con le proprie compagne, della difficoltà dei padri ad accompagnare i figli verso la consapevolezza dei loro sentimenti, al fine di saper fronteggiare e criticare la quotidiana esposizione di immagini della donna, pornografiche e non, che ne sviliscono la dignità. Abbiamo delegato al denaro la funzione di regolare i rapporti sociali e, ora, la mercificazione e la reificazione sono in ogni ambito relazionale, da quello istituzionale a quello quotidiano, in cui potremmo scoprire che anche nostra figlia si prostituisce per una ricarica telefonica. La promessa comune è stata quella di impegnarsi a far dialogare il desiderio femminile con quello maschile per superare la cecità culturale che ci relega negli stereotipi. Gli uomini presenti all’incontro pensano che fare luce sulla sessualità maschile e sulla maschilità consenta di liberare nuove forme di azione in grado di scardinare il modo attuale di fare politica. Viceversa, la repressione dei comportamenti continuerà a ricacciare nel buio le nostre esistenze.

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CONTRO LA SANATORIA-TRUFFA

di Daniela Danna. (xxd 3, dicembre 2010)
HANNO RESISTITO UN MESE SU UNA TORRE ALLA PERIFERIA DI MILANO PER IL PERMESSO DI SOGGIORNO: SONO SEI IMMIGRATI CUI È STATO RIFIUTATO PERCHÉ (APPUNTO!) “CLANDESTINI”. A METÀ NOVEMBRE SIAMO ANDATE AL PRESIDIO
Siete i fiori dell’Italia” gridano dalla torre di una fabbrica milanese dismessa gli immigrati che da lassù protestano contro la sanatoria-truffa. Salutano l’arrivo di un gruppo di ragazzi e ragazze del liceo Cremona che portano lo striscione: “Nel mio paese nessuno è straniero”. Najat li saluta dal presidio sotto la torre: “Voi siete il futuro dell’Italia”. La vedo indaffaratissima a tessere contatti per sostenere la protesta dei cinque che, da una settimana, vivono su una torre a 30 metri d’altezza e non scenderanno finché non verranno garantiti non solo i loro permessi di soggiorno, ma la fine delle più grandi ingiustizie contro gli immigrati di questo stato razzista. Le chiedo se ha cinque minuti da dedicarci: Ci spieghi le ragioni della protesta? Sono anni e anni che lavoriamo in questo paese sottopagati, sfruttati, in nero, e non siamo stati considerati finora come cittadini, come persone rispettando i diritti umani di Ginevra. Qua non ci considerano niente, solo criminali, clandestini che portano il male a questo paese. E invece no, aiutiamo la crescita, aiutiamo il futuro del paese perché abbiamo i figli che sono nati qua che saranno i cittadini di domani. I punti della rivendicazione sono sei, la prima cosa è la sanatoria truffa. La chiamiamo truffa perché chi l’ha fatta, chi l’ha scritta, chi l’ha proposta ha truffato coloro che lavorano nei cantieri, nelle fabbriche, nelle campagne a raccogliere pomodori, arance eccetera, aprendo la sanatoria solo per le badanti. Il governo ha dato la possibilità a questi criminali che hanno fatto finta di assumere per il lavoro domestico di organizzarsi a truffarci e prendere 5 o 6000 euro per mettere in regola. Vogliamo il permesso di soggiorno per tutti quelli che sono stati truffati e altrettanto per quelli che non sono stati considerati e sono qua a lavorare sottopagati. La seconda cosa è il diritto di voto agli immigrati che sono qua da cinque anni, che pagano le tasse, che vivono la quotidianità dell’Italia, partecipano alla crescita dell’Italia. Perché non scelgo il mio sindaco? Non sarò la maggioranza ma almeno sento che partecipo anch’io. La terza cosa è il diritto di riconoscimento ai figli di immigrati che sono nati qua come italiani. Perché lo sono, sono nati qua, hanno fatto le scuole qua, perché non considerarli italiani? Perché aspettare il diciottesimo anno per dire: “Vuoi essere italiano?” È una vergogna in un paese democratico aspettare che il ragazzo debba avere diciotto anni per chiedere una cosa che lui vive, la sente dentro, perché per essere italiano non ci vuole un certo numero di anni in Italia, ma lo devi sentire dentro. Potresti essere da trent’anni in Italia ma non sentirti italiano. Loro invece si sentono italiani, perché i loro genitori hanno sofferto, hanno dato molto, perciò si considerano veri italiani. La quarta cosa è il prolungamento della disoccupazione ai lavoratori che quando perdono il posto di lavoro diventano clandestini. Possono essere in Italia da vent’anni o più, avere figli che sono nati qua, ma quando perdono il lavoro ritornano irregolari. Siamo tutti in crisi, lo sappiamo, non pretendiamo un posto di lavoro, solo di essere rispettati e di avere il diritto di andare a cercare lavoro senza stare nascosti in casa nostra. Perciò prolungamento della disoccupazione come minimo di un anno, per dare il tempo di trovare questo maledetto posto di lavoro. La quinta cosa è il diritto di asilo, il diritto di essere trattati come persone. C’è anche nella Costituzione italiana che bisogna tutelare questi ragazzi che scappano dalle guerre, dalle sofferenze e dalle dittature per chiedere una vita dignitosa nella libertà e democrazia di questo paese, ma questo paese ormai non considera più nessuno come rifugiato, è una vergogna. Infine avere il permesso di soggiorno dopo aver denunciato il lavoro nero, la ratifica della direttiva europea che prevede l’emersione del lavoro nero. Pensate che la protesta si estenderà ad altri coraggiosi in altre città? Dico che tutti gli immigrati hanno voglia di fare qualche azione estrema perché ormai non ce la fanno più, hanno perso tutto, non c’è più niente da perdere. E aggiungerei che anche gli italiani non ce la fanno più, e anche loro devono darsi una mossa e affiancarsi a noi perché anche loro sono nella nostra situazione. Hai sentito l’ultima cosa ufficiale che ha detto l’INPS, che i precari non avranno pensione? Guarda che è grave questa cosa, è molto grave, la vogliamo dire. Certi italiani non hanno capito che il problema non è solo dell’immigrato. Fanno pagare all’immigrato ma fanno pagare anche gli italiani. Noi paghiamo, voi pagate ma il governo parla di altro, fa delle serate, va a Ruby… Non me ne importa niente della vita privata del presidente del consiglio, ma lui deve capire che è un presidente che ha fallito, e deve lasciare la sedia dove sta, perché ha fallito con tutto, sia con gli italiani sia con gli immigrati. Noi siamo peggio di quelli detti del Terzo mondo, perché questo è un paese dove la gente ha dato la vita per la libertà e la democrazia, non dimentichiamolo. Gli abitanti del quartiere vengono a trovarvi? Gli abitanti del quartiere dobbiamo ringraziarli e chiedere scusa. Loro sono molto solidali, e noi li rispettiamo, abbiamo dei patti con loro. Ci stanno aiutando, ci stanno dicendo: “Continuate così”. Italiani e immigrati, ormai siamo tutti uniti. La novità di questa battaglia, che gli italiani non sono abituati a vedere, è che sono gli immigrati a gestirla. E tra questi molte donne di diverse nazionalità (Najat è egiziana) – e a questo non sono abituati gli uomini egiziani, in maggioranza al presidio. Ma hanno accolto la novità, come mi racconta un gruppetto di ragazze venute per assistere alle lezioni-testimonianze dell’Università dei migranti, una delle tante iniziative di solidarietà sotto la torre.

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NASCERE CON LA KAPPA

di Stefania Prandi. (xxd 3, dicembre 2010)
DALLA LOMBARDIA UN’IDEA CIELLINA PER FERMARE LA PIAGA DELL’ABORTO LEGALE, LIBERO E GRATUITO, IN TREND DI NETTA DIMINUZIONE SU TUTTO IL TERRITORIO NAZIONALE
Non c’è stata nessuna corsa per ottenere i finanziamenti previsti dal fondo Nasko contro l’aborto. Per il momento, infatti, sono state soltanto 58 le donne che hanno chiesto di partecipare al progetto avviato all’inizio dello scorso ottobre dalla Regione Lombardia. La finalità dell’iniziativa, per la quale sono stati investiti 5 milioni di euro di fondi pubblici (che arrivano dritti dritti dalle tasche dei contribuenti) può essere spiegata usando le stesse parole del governatore Roberto Formigoni: “Mai più un aborto in Lombardia per motivi economici”. Con Nasko la Regione intende “dare un aiuto” alle donne che, dopo essere rimaste incinta e avere deciso di interrompere la gravidanza perché senza soldi, cambiano idea. Se le abortienti “scelgono la vita” ricevono 250 euro al mese per un anno e mezzo. Per poter beneficiare del contributo le future mamme devono: essere residenti in Lombardia, ottenere una certificazione sanitaria che attesti una gravidanza entro il 90esimo giorno, sottoscrivere il progetto di aiuto e dimostrare di essere in condizioni economiche difficili. Quest’ultimo requisito è il più controverso dato che non esistono parametri di riferimento precisi. Per accedere al fondo Nasko, infatti, si deve presentare un’autocertificazione che viene poi valutata, anche attraverso una serie di colloqui, dall’assistente sociale oppure dagli operatori dei Centri di accoglienza alla vita (Cav) che sono stati incaricati dalla Regione. Non sono obbligatori né l’Isee (l’indicatore che tiene conto di reddito, patrimonio e delle caratteristiche di un nucleo familiare) né la dichiarazione dei redditi. Per essere inserite nel progetto Nasko bisogna riuscire a dimostrare (anche a parole) che si è senza lavoro, che si è in nero oppure che si guadagna poco. Per il momento sono 55 le donne che sono riuscite a ottenere la sovvenzione (1 a Bergamo, 5 a Brescia, 3 a Lecco, 2 a Mantova, 34 a Milano, 2 a Monza- Brianza, 4 a Pavia, 4 a Varese). Il 70% circa di queste sono di origine straniera. Perché così poche donne si sono interessate al fondo? I motivi potrebbero essere diversi: poca pubblicità, poca voglia di passare attraverso la “via cattolica” dei Centri di accoglienza alla vita, disillusione sul fatto che bastino 4.500 euro per mettere al mondo un figlio. Ma ci potrebbe essere anche un altro motivo: l’aborto volontario in Italia e in Lombardia non è un fenomeno dilagante, non rappresenta un problema sociale. Per rendersene conto basta leggere la relazione annuale dell’Istituto superiore di sanità. Il numero delle interruzioni volontarie di gravidanza è in progressiva diminuzione in tutta Italia e anche in Lombardia dove, nel 2009, sono stati registrati 19.700 casi di aborto (su una popolazione di 9.870.000 abitanti circa), il 50% in meno rispetto al 1982. Il tasso di abortività lombardo, cioè il numero delle interruzioni di gravidanza per mille donne tra i 15 e i 49 anni, nel 2009 è stato pari a 8.8, con un decremento del 4.7% rispetto al 2008. Valori in linea con la media italiana, tra le più basse in Europa. Nasko, quindi, potrebbe rivelarsi un flop (ma lo sapremo soltanto alla fine del 2011, quando finirà il progetto) e non uno strumento efficace per aumentare il tasso di natalità lombardo. D’altra parte nemmeno questo sembra essere un vero problema dato che negli ultimi dieci anni il numero di nuovi bimbi nati è aumentato del 14%, in netta controtendenza rispetto al dato italiano

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NON SIAMO MACCHINE PER FARE BAMBINI

di Ornella Guzzetti (xxd 3, dicembre 2010)
Le macchine trasformano la materia prima in un bene, sostituiscono il lavoro umano. Le catene di montaggio producono a ciclo continuo, perché le macchine non devono riposarsi, nutrirsi e dormire. Nell’antica Grecia, culla della democrazia, le donne valevano quanto uno schiavo. Non votavano e non erano eleggibili. L’unico potere che avevano era la capacità di procreare. A questo servivano. Oggi le donne possono sceglie se avere figli, quanti e con chi riprodursi. Il ruolo materno è stato sempre esaltato e sostenuto dagli Stati, specialmente se totalitari – la Germania nazista, l’Italia fascista e l’Unione sovietica – perché più un popolo è numeroso più la patria avrà soldati per la guerra e lavoratori per far crescere il prodotto interno lordo. Oggi per lo meno non c’è più lo stigma sulle nubili senza figli, sono una categoria sociologica: le childfree. Le femministe ’70 dicevano “l’utero è mio e me lo gestisco io”, comprendendo in questo slogan anche l’accezione dell’aborto come libera scelta, legale e sicuro in una struttura sanitaria. Oggi in Italia diverse posizioni politiche premono per cambiare rotta. Alcune Regioni cercano di riformare la legge sui consultori, altre danno soldi alle donne che, rimaste incinte e propense ad abortire, ritornano sulla loro decisione. Qualcuno propone perfino di reintrodurre la tassa sui single. Si giustifica tutto ciò con il fatto che in Italia nascono pochi bambini e anche a causa delle scelte delle donne. È un dato che tanti neonati oggi sono concepiti in provetta, desiderati tanto quanto gli altri. Però la legge sulla fecondazione assistita pone delle limitazioni alla libertà di scelta delle donne di avere un figlio se non sono in una coppia eterosessuale. La tecnologia permette a una donna di avere un figlio con l’apporto di un donatore, così come una donna può rimanere incinta dopo un rapporto sessuale con un uomo che non ha intenzione di formare una coppia stabile. Se una donna decide di avere un bambino con un concepimento assistito invece deve andare in Spagna o in Olanda, dove c’è un mercato fiorente grazie alla legislazione restrittiva italiana. La stessa legge vieta la sperimentazione sugli embrioni umani. La ricerca si fa con quelli animali. Per esempio si fanno nascere cloni di famosi tori da monta o cavalli da corsa. Si modificano geneticamente i maiali per produrre a basso costo principi attivi necessari per curare rare malattie. È interessante conoscere il metodo che rende possibile ciò: si prende l’ovulo dell’animale femmina, lo si vuota del suo corredo genetico, ci si mette dentro quello dell’animale che si vuol riprodurre, anche geneticamente modificato, si aspetta che si formi l’embrione e poi si procede con il trapianto nell’utero dell’animale femmina. Quest’ultima porterà dentro di se fino al parto questo ‘ospite’ e poi potrà essere utilizzata di nuovo come fattrice. Insomma, per queste procedure di creazione in laboratorio di forme di vita non esistenti in natura è fondamentale l’apporto di un corpofemmina, dell’ovocita e dell’utero che ancora la tecnologia non ha ricreato, almeno ai costi a cui sono disponibili le ‘macchine’ di carne e sangue. Le femmine degli animali non hanno possibilità di astenersi dal partecipare a questo utilizzo del loro corpo. E le femmine umane? Possono scegliere di donare spontaneamente non a scopo di profitto ovuli e utero. Comunque, il mercato degli ovociti umani esiste. E ci sono anche siti internet, di agenzie russe o indiane per esempio, dove si può trovare un utero umano in affitto per nove mesi con la garanzia che il bambino non avrà alcun legame legale con la madre. Questo corpo di donna è una ‘macchina’ per fare bambini? È un mezzo di ri-produzione di una prole che non avrà con lei alcun legame biologico e di cura? Certo che lo è.

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BANDIERE SUI BALCONI, PAGINE FACEBOOK, SITI E MAILING PER BATTERE IL QUORUM DEL 50% +1

di Ornella Guzzetti. (xxd 8, Giugno 2011)
OBIETTIVO DEI COMITATI PROMOTORI È PORTARE 25 MILIONI DI PERSONE IN CABINA ELETTORALE DOMENICA 12 E LUNEDÌ 13 GIUGNO
Si sono appellati alla libertà di pensiero coloro che hanno sostenuto le ragioni dei cittadini che sul loro balcone hanno esposto le bandiere per il ‘Sì’ al referendum del 12 e 13 giugno prossimi. È successo in alcuni comuni che il centrodestra abbia ripescato una vecchia norma elettorale del 1956 per spingere i vigili ad andare di casa in casa e chiedere ai cittadini di toglierele bandiere, pena una multa salatissima che poteva arrivare fino a 1000 euro. Forse questi cittadini dovevano esporre tutte e due le bandiere, un po’ come sono tenuti a fare i mezzi di comunicazione per la legge sulla par condicio? È polemica anche su questo. Dopo che alcuni membri del Comitato Referendario “2 Sì per l’Acqua Bene Comune” e “Vota sì per fermare il nucleare” hanno occupato pacificamente la sede Rai di Viale Mazzini, accusando l’azienda di oscurare i referendum dai telegiornali, Lorenza Lei, direttore generale della tv di Stato, ha assicurato immediati interventi per intensificare l’informazione sui referendum. Ma sul web la presenza dei favorevoli al ‘sì’ è alta: siti e pagine Facebook sostengono l’abrogazione delle norme sulla privatizzazione dell’acqua, il nucleare e il legittimo impedimento. Altri sono impegnati a combattere l’astensione: www.votoil12giugno.it sottolinea che il 70% di chi ha diritto al voto non conosce le leggi da abrogare, non sa come decidere e votare. La gestione dell’acqua deve essere pubblica o privata? Deve essere permesso il profitto? L’acqua è un diritto inalienabile e quindi non cedibile, è una risorsa che potrebbe diventare scarsa? Dobbiamo tornare al nucleare? Dopo il disastro di Chernobyl ci fu il referendum del 1987 e con il 65% di affluenza l’Italia votò contro il nucleare. Dopo Fukushima, il Governo ha iniziato l’iter per cambiare in corsa la legge che stabilisce la realizzazione di nuove centrali e tra gli italiani c’è stata grande confusione sulla presenza della schede o meno.

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DI CHE PASTA SONO FATTI

di Daniela Danna (xxd 8, Giugno 2011)

Alcuni anni or sono Putin, ignaro che la sua voce venisse trasmessa in sala stampa, espresse grande ammirazione per il presidente israeliano Katsav, allora arrestato per ripetuti stupri (quotidiani del 20 ottobre 2006) e oggi condannato a sette anni di reclusione (marzo 2011). “Katsav si è rivelato un uomo forte”, disse l’uomo forte del Cremlino, “ha stuprato ben dieci donne! Non me lo sarei mai aspettato da lui. Ci ha sorpreso tutti, lo invidiamo”, così riferirono i giornali riportando la notizia dal quotidiano russo Kommersant. Questa volta lo stupratore ai piani alti è un uomo che ricopre uno dei ruoli più potenti del pianeta: Dominique Strauss-Kahn, (ex) direttore del Fondo monetario internazionale, ivi candidato da Sarkozy. Un socialista (nel senso di appartenente al partito socialista francese) ai vertici dell’incarnazione stessa delle politiche neoliberiste? Perché no? Tanto non c’è differenza nelle politiche economiche. E siamo sicure che la violenza del personaggio lo abbia aiutato in questa scalata al potere finanziario. Il non tenere conto della volontà dell’oggetto del suo desiderio – o delle popolazioni assoggettate dal debito, che non possono avere alternative al neoliberismo – ridotto appunto a un oggetto di cui fruire con la violenza. Quanto alla presunzione di innocenza, notiamo che Strauss-Kahn non ha negato il rapporto, ma ha detto che la donna era consenziente: certamente una cameriera durante il suo orario di lavoro non aspetta altro che l’opportunità di accoppiarsi velocemente con un aitante sessantenne! Il vero potere è un ruolo maschile, macho, violento, senza scrupoli. Il vero potere oggi sembra essere quello delle banche – già salvate e ora di nuovo profittevoli – e delle “istituzioni gemelle”, Fondo monetario e Banca mondiale, che decidono i prestiti “di ultima istanza” da concedere agli stati per fare fronte a crisi del debito verso banche e investitori privati. In sostanza usano i propri fondi, derivati dai pubblici danari dei paesi che ne fanno parte, per ripagare le banche private che detengono debiti che gli stati non riescono più a garantire. E quando la gestione del debito si sposta così dai privati a questi enti, in teoria pubblici, essi dettano le condizioni per schiavizzare ancora di più la forza lavoro: niente più sussidi agli alimenti, tagli ai servizi e alla sanità pubblica, la ricetta amara propinata a Grecia, Irlanda e Portogallo. La Spagna è la prossima sulla lista, ma i giovani hanno capito il gioco e ne hanno abbastanza. “Democrazia reale adesso” è il nome del movimento che dal 15 maggio si accampa alla Puerta del Sol, nel centro di Madrid. Questi ragazzi e ragazze hanno slogan nuovi: sono contro le ingenerie istituzionali che creano i “due poli” della politica, grazie ai quali non cambia mai nulla. Sono contro i “Banksters”, consapevoli che è la finanza a governare il mondo, con l’unico criterio di accumulare sempre più denaro. Sono indignati, e hanno scritto un piccolo ed esplosivo manifesto, tra i cui punti si leggono cose che nessun partito politico dice più: > Esistono diritti inalienabili che devono essere rispettati nella nostra società: il diritto alla casa, al lavoro, alla cultura, alla salute, all’istruzione, alla partecipazione politica, al libero sviluppo personale, e il diritto al consumo dei beni necessari a una vita sana e felice. > Lo stato attuale del nostro sistema economico e del governo non si cura di questi diritti, ed è per molti versi un ostacolo al progresso umano. (…) > La volontà e lo scopo del sistema attuale è l’accumulo di denaro, non interessa l’efficienza e il benessere della società. Si sprecano risorse, si distrugge il pianeta, creando disoccupazione e consumatori infelici. > I cittadini sono ingranaggi di una macchina progettata per arricchire una minoranza a cui non interessano i nostri bisogni. Noi siamo anonimi ma senza di noi tutto questo non esisterebbe, perché noi facciamo andare avanti il mondo. Alla Puerta del Sol i giovani stufi si accampano da settimane facendone un’altra piazza Tahrir, chiedendo una legge proporzionale per la rappresentanza politica, il ripristino della protezione sociale, dell’istruzione e della sanità pubblica. Chiedono di avere un’alternativa. Non sarebbe una bella idea anche qui da noi?

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SPEZZERANNO LE RENI ALLA GRECIA?

di Daniela Danna (xxd 9, luglio 2011)

Il presente della Grecia è il nostro futuro: il paese non è in grado di ripagare il debito pubblico, mentre politici di destra e di sinistra procedono con ferocia a tagli allo stato sociale, cioè a quel reinvestimento in beni comuni delle risorse messe dai cittadini a disposizione dello stato con le tasse: scuola, sanità, pubblica amministrazione. Non sappiamo se ai greci venga risparmiata la nauseante retorica dei “fannulloni” che hanno un impiego statale, ma sappiamo che – fatti con le buone o con le cattive – la sostanza dei tagli non cambia. E così anche in Grecia si sono affacciati sulle piazze gli indignados. Rifiutano di pagare il debito con le banche e con le istituzioni finanziarie internazionali, non sono disposti a pagare il prezzo dell’aumento delle disuguaglianze e con il ritorno al mercato per tutti i servizi, compresa l’istruzione e la salute. Assediano i politici asserragliati in un parlamento che non fa altro che obbedire agli ordini della finanza. Guido Viale scrive che bisognerà necessariamente rivedere il patto di stabilità di Maastricht, che costringe a onorare il debito pubblico anche a prezzo della dismissione di ciò che è proprietà di tutti. “Il problema”, aggiunge, “è se a questo passaggio obbligato si arriverà dopo aver spolpato lavoratori e popolo di tutto quello che hanno conquistato nel corso del secolo scorso, e dopo aver svenduto alla finanza internazionale tutto il vendibile (porti, utility, servizi pubblici, acqua, edifici, isole, spiagge, magari anche il Partenone); oppure se la dichiarazione di insolvibilità arriverà prima delle svendite”, grazie alla mobilitazione popolare. Le donne hanno molto da perdere dalle privatizzazioni: il Novecento come “secolo delle donne” ne ha visto l’ascesa parallelamente allo sviluppo dello stato sociale, lo stato del welfare, che si è occupato di riorganizzare i servizi alla persona, in un certo senso collettivizzando quelli che erano in gran parte compiti femminili: la cura dei figli, l’assistenza ai malati, disabili e anziani in primis. È stata una sorta di “emersione” sotto forma di lavoro riconosciuto e retribuito di qualcosa che era considerato un dono femminile (obbligatorio, però). E la parte femminile degli indignados si è fatta sentire: le femministe scese in piazza anch’esse indignate luglio – agosto 2011 5 hanno dovuto purtroppo denunciare molestie sessuali da parte di alcuni degli uomini che tengono da più di un mese le piazze di Madrid e Barcellona. E hanno aggiornato il manifesto degli indignati spagnoli, di cui abbiamo riportato nello scorso editoriale alcuni punti interessanti, con il titolo La rivoluzione sarà femminista o non esisterà. Così scrivono: “Siamo in piazza perché: Vogliamo una società centrata sulle persone e non sui mercati. Per questo diciamo: servizi pubblici gratuiti e di vitale importanza come l’educazione, la sanità, l’assistenza e la cura all’infanzia e alle persone con particolari necessità di assistenza di fronte ai tagli alla spesa sociale, la riforma del lavoro e delle pensioni. Vogliamo l’impegno di tutte e tutti per la costruzione di una società dove non ci sia posto per le violenze maschiliste in tutte le sue espressioni: economica, estetica, sul lavoro, fisica, psicologica, sessuale, istituzionale, religiosa, sotto forma di tratta ai fini dello sfruttamento del lavoro e sessuale… Vogliamo decidere liberamente del nostro corpo, goderne e relazionarci con lui e con chi ci pare. Vogliamo l’aborto libero e gratuito e l’educazione affettiva e sessuale. Vogliamo una società diversa dove siano rispettate le molteplici forme di vivere il sesso e la sessualità (lesbiche, gay, intersex, bisessuali, transessuali, transgender…) e sia riconosciuto il diritto alla sessualità in tutte le tappe della vita. Esigiamo la de-patologizzazione delle identità trans. Esigiamo che lo stato e la chiesa smettano di interferire nelle nostre vite.” E così via. (Grazie per la traduzione a Femminismo a sud: http://spazialtri.noblogs.org/?p=1264) Il pamphlet Indignatevi! del partigiano novantatreenne Stéphan Hessel è stato tradotto anche in italiano, nel Belpaese dove i referendum sono stati vinti, l’euforia per la sconfitta elettorale delle destre è stata grande, la speranza di una politica che ascolti il popolo è rinata. Ma non basterà certo un sì fatto di una croce sulla carta per far cambiare rotta al neoliberismo. Buona estate?

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UNA DONNA AL MESE – XXD 10

La presa di consapevolezza della mia identità di genere si è realizzata tramite una serie di epifanie alla rovescia, che più di un senso di identità e di appartenenza mi hanno mostrato limiti, arbitrarietà ed ingiustizie e mi hanno spinto ad agire per contrastarle. Uno dei miei primi ricordi in questo senso risale a metà degli anni Settanta, quando avevo intorno agli otto anni. All’epoca abitavo in un palazzo dove si trovavano molte altre bambine, fra cui un gruppetto dominante di ‘dure’ che esercitavano la loro autorità in maniera spietata e cattiva – non ero la sola ad averne paura. Un giorno, mentre si svolgeva una di queste spiacevoli scene di bullismo, una donna con un passeggino si trovò a passare fra noi. Le ‘dure’ effettuarono un cambiamento repentino ed impressionante, affollandosi come ipnotizzate intorno al bebè e facendo versetti acuti e sdolcinati, in un completo stravolgimento del loro comportamento e della loro personalità. Mi ricordo con estrema chiarezza come mi avvicinai, a metà perplessa dal loro comportamento e a metà ancora più perplessa dalla sua supposta causa. Cosa aveva di affascinante e compulsivo il pupo grinzoso che si contorceva, faceva rumore e puzzava di popò? Perché loro facevano così e io no? All’incirca nello stesso periodo imparai un’altra lezione, questa in maniera più diretta, che mi mostrò come il problema non fosse solo mio. Vengo da una famiglia tradizionale, culturalmente cattolica, conservatrice e provinciale: come a tutti i bambini, mi si chiedeva di partecipare ai compiti di casa con piccole mansioni tipo apparecchiare e lavare i piatti. Ma mentre a me si ordinava, mio fratello era esente. Un giorno protestai con mia nonna: “Ma perché lui non deve asciugare i piatti?” e lei rispose: “Perché è un maschio.” Le mie proteste di “ma non è giusto” dettero luogo ad aspri rimproveri, insolitamente privi di alcuna motivazione. Solo più tardi capii cosa stava succedendo – ma l’ingiustizia, quella l’avevo capita subito. Ad aiutarmi a capire fu l’epifania seguente, che avvenne circa sei anni dopo. A casa di una zia avevo scovato nascostamente una serie di libri femministi, fra cui Al di là delle labbra di Elisabetta Leonelli, che raccomando a tutte, ma soprattutto Dalla parte delle bambine. Non credo di esagerare quando dico che quel libro mi ha cambiato la vita-o almeno l’ha resa molto più facile. Finalmente potevo riconoscere, e aver validato, il senso di estraneità provato davanti alla messa in scena del rintontimento da bebè e dalla mancanza assoluta di logica della risposta di mia nonna, che era per tutto il resto una delle persone più intelligenti ed analitiche che io abbia mai conosciuto. Finito – anzi, memorizzato – il libro della Belotti, in preda all’entusiasmo, cercai di spiegare alla mia migliore amica il determinismo sociale di genere: “Pensa che le madri già al momento dell’allattamento dedicano più tempo ed attenzione ai figli maschi!” La mia amica mi lasciò parlare a lungo, e dunque io pensai di averla convinta-immaginate il mio shock quando lei mi guardò e disse: “OK, interessante, ma io comunque preferisco di gran lunga un figlio maschio”. Forse avrei dovuto capire dove sarebbe andata a parare, dato che la sua estrazione sociale ed ideologica era simile alla mia, ma in quel momento mi sentii tradita dalle mie pari. Intorno a questi temi è continuato a succedere spesso, ma non ho mai fatto l’abitudine al collaborazionismo, che trovo la parte più deprimente di tutte. A quarant’anni di distanza, non solo la mia reazione emotiva non è cambiata, ma neppure la prassi – la nausea mi fa chiamare fuori. Non ho avuto l’istinto o voluto essere militante; mi sento di più una quieta ribelle. La mia mancanza di comprensione o adeguamento alle stretture dei ruoli di genere tradizionali mi porta ad adottare una strategia di resistenza passiva. Nelle parole dei tutori della tradizione, ero e sono una capocciona torva ed ostinata. E dunque, sentendomi affogare sempre di più nella botte di melassa del Culto di Santa Madre Martire, a 22 anni ho lasciato famiglia ed Italia per studiare e lavorare all’estero, dove ho finalmente trovato spazi pratici ed ideologici più articolati, sofisticati, e soprattutto rispettosi di ogni tipo di cultura alternativa. Sono troppo numerose per raccontarle, ma ho collezionato finalmente le mie epifanie positive e gioiose. Ho fatto esattamente quello che volevo fare, e raggiunto i miei obbiettivi professionali e le mie passioni personali (che per mia grande fortuna e felicità coincidono). Posso dire a voce alta che no, i bambini non mi piacciono; che la mia identità sessuale è consapevole e priva di problematiche; e che non ho nessuna intenzione di cacciarmi nella trappola normativa del matrimonio, nonostante la sua cooptazione generale da parte di chi pure dice di non condividere i tradizionali valori patriarcali (parlando di collaborazionismo…) Quando torno in visita dai miei familiari mi sento dire, in pubblico e a brutto muso, “come mai non ti sei sposata e non hai figli, non sei normale”- ma ormai rido, perché nella vita che mi sono costruita sono loro ad essere strani residui medievali, quasi più patetici e pittoreschi che repulsivi

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LE ECO-GUERRIERE CAMBIANO IL MONDO

di Michela Dell’Amico (xxd 10, settembre 2011)
CONSUMANO MENO E MEGLIO, SI IMPEGNANO DI PIÙ. SONO LE DONNE A PRENDERE LE REDINI DEL PROBLEMA AMBIENTALE NEL MONDO, DALL’ ECO-FEMMINISMO A OGGI, COME CONFERMANO RECENTI STUDI E RICERCHE

Le norvegesi e le tedesche consumano in media il 75% in meno dei loro connazionali uomini, le svedesi il 100%, le greche il 350 per cento. Lo rivela uno studio recente della Defence Reserch Agency di Stoccolma, che punta il dito soprattutto sull’ amore dei maschi verso le auto, in particolare di grossa cilindrata, le bistecche e il fumo.In Italia le donne alla guida di un mezzo ecologico sono il 4,8%, quasi un punto percentuale in più rispetto agli ometti. Ma le donne sono anche più impegnate. Il libro Eco Amazons. 20 women that are changing the world (Powerhouse Books, 2011) si è già guadagnato negli Usa il plauso di Barack Obama. Scritto da Dorka Keehn, giornalista e attivista, fondatrice di Emerge America (emergeamerica.org), programma che sostiene le donne in politica, e illustrato dalla fotografa Colin Finlay (colinfinlay.com), racconta la vita e le esperienze delle più influenti donne ambientaliste. Iniziamo da Janine Benyuseletta, eletta “Eroina del Pianeta” da Time magazine, perché ha reso possibile impiegare strutture sostenibili per edifici green. Frances Beinecke, fondatrice delNatural Resources Defense Council, il più famoso e influente organo ambientalista degli Stati Uniti. Judy Bonds, vincitrice del premio Goldman (un Nobel alternativo dell’ambientalismo) che lotta contro il disboscamento e contro lo scoperchiamento delle montagne nei Monti Appalachi, in Virginia occidentale. Ancora, Julia Butterfly Hill, attivista che ha vissuto 738 giorni in cima a una sequoia per impedirne l’ abbattimento durante la campagna Earthfirst. Dal Bronxdi New York, Majora Carter, che ha attivato un movimento no profit per risanare il quartiere con aree verdi. Mentre l’ oceanografa Sylvia Earle, anche lei tra le “Eroine del Time magazine”, studia i fondali marini per trovare il modo di salvarli dall’ inquinamento tossico; Marci Zaroff ha ideato un certificato, il Global Organic Textile Standard, per misurare il livello di sostenibilità dei marchi di moda, fondando poi lei stessa una casa di moda “verde”. Agnes Denes sfrutta in senso green le potenzialità dell’ arte, portando installazioni di denuncia nei musei più prestigiosi del mondo. Tra gli esempi di donne che si battono per la natura, il movimento Chipko ha fatto storia negli anni 70 ed è riuscito ad arrestare il disboscamento dei tratti montani dell’ India settentrionale, portato avanti dai fornitori di legname. Le donne indiane – come più recentemente ha scelto di fare la già citata Julia Butterfly Hill – si sono arrampicate sugli alberi per impedire che fossero abbattuti. Nello stesso periodo nasce e si sviluppa un fenomeno ancora poco conosciuto eppure molto influente: l’ecofemminismo. Sostiene l’ esistenza di un parallelo tra la subordinazione delle donne e il degrado della natura. La società patriarcale considera insomma alcuni soggetti superiori, e dà loro il potere di portare avanti i propri interessi a danno di soggetti classificati come inferiori: l’ essere umano sull’ animale, l’ uomo sulla donna. Secondo Françoise d’Eaubonne, che battezzò il movimento nel 1974, esiste un parallelo tra la proprietà maschile dei terreni  (unica possibilità ancora in moltiPaesi in via di sviluppo) e il patriarcato; parallelo che avrebbe poi portato all’attuale sfruttamento delle persone e delle risorse della terra. Come dimostrato da uno studio della London School of Economics, inoltre, le donne sono le principali vittime dei cambiamenti climatici e dei disastri a essi correlati. È successo per lo tsunami del 2004 e per l’ uragano Katrina. Mentre nella New Orleans del dopo uragano erano le donne le vittime prescelte per stupri e omicidi, nello Sri Lanka – sostiene l’ organizzazione Oxfam – le donne sono morte in numero quasi doppio rispetto agli uomini perché a loro non si insegna a nuotare né ad arrampicarsi sugli alberi. Nel mondo, è il genere femminile ad essere più spesso responsabile della cura e della coltivazione della terra e dei suoi frutti. È forse per questo che le donne più intensamente sentono come necessario un rapporto diverso e più armonico con l’ambiente? Di questo – tra l’altro parla Wangari Maathai. Fondatrice del Green Belt Maathai è stata la prima donna africana a ricevere il Premio Nobel per la Pace, per “il suo contributo alle cause dello sviluppo sostenibile, della democrazia e della pace”. Biologa, parlamentare, tiene conferenze in tutto il mondo e ha scritto due libri: Solo il vento mi piegherà e La sfida dell’ Africa, presto divenuti manifesti per il cambiamento e lo sviluppo indipendente dei Paesi africani. Maathai invita gli africani – in particolare le donne – a liberarsi del sentimento di inferiorità che li affligge da secoli, a recuperare le proprie radici culturali, e a prendere le redini del destino delle proprie vite e del loro Paese, anche rifiutando l’assistenzialismo dell’Occidente. Ma soprattutto il suo movimento nasce per rimboschire l’ Africa, rendere di nuovo ospitali e fertili i suoi territori ed evitare l’ erosione e la desertificazione: dal 1977 il movimento della Maathai è riuscito a piantare più di 30 milioni di alberi sul territorio keniano, promuovendo l’ ambiente e al contempo lavorando per l’ emancipazione delle donne, spesso le prime vittime dell’ impoverimento di un’ area, dei cambiamenti climatici e dell’ inquinamento, perché mediamente più dipendenti dalla produttività della terra. “Le donne – dice la fisica indiana Vandana Shiva – formano un sistema sociale, e dalla loro creatività proviene quello che io chiamo eco-femminismo”, ovvero una corrente che combatte la visione di donne e natura come soggetti passivi della società. Vandana Shiva critica la “commercializzazione” della sensibilità ambientalista, ed è ad esempio molto dura sui prodotti spacciati per “bio”. Mette sotto accusa le colture con metodi industriali: “Mais e soia sono oggi quelle più diffuse” spiega “togliendo spazio a grano e riso, che invece ridurrebbero la fame nel mondo”. Curioso considerare che quella della soia è una produzione legata al mercato vegan, e questo rende la questione particolarmente complicata. Shiva è contraria al biocarburante, “un crimine contro l’ umanità”, perché come noto determina una crescita ulteriore della fame nel mondo, facendo lievitare i prezzi dei beni di prima necessità. “Occorre andare oltre al consumo – continua – perché essere consumatori è molto costoso per il nostro pianeta. Crisi economica e ambientale devono essere viste insieme per trovare nuove prospettive. Occorrono cambiamenti nei consumi, ma anche creatività… soprattutto femminile”

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