“UNA DONNA CHE ALLENA GLI UOMINI? SOLO UNA MOSSA PUBBLICITARIA”

di Michela Dell’Amico. (xxd 11, ottobre 2011)
INTERVISTA A CAROLINA MORACE SU SPORT, PROFESSIONISMO, DIFFERENZA DI GENERE. L’ALLENATRICE DELLA NAZIONALE CANADESE FEMMINILE INCONTRA XXD.
Carolina Morace allena la nazionale di calcio canadese. In Italia ha avuto una carriera folgorante, che l’ha portata a innumerevoli successi, anche come opinionista televisiva, ma soprattutto, prima donna al mondo, ha allenato una squadra di calcio maschile.
Si è mai sentita un’eroina, qualcuno che in qualche modo sta cambiando la società?
Sinceramente non mi sembra che la società stia cambiando e, malgrado i risultati raggiunti nella mia carriera, continuo a non avere le stesse opportunità lavorative dei colleghi allenatori uomini, sia per quando riguarda la professione di allenatore, sia per quanto riguarda una possibile collaborazione con società di calcio maschile professionistiche in altri ruoli, sia per quanto riguarda il lavoro di opinionista televisiva.

Perché può esistere una discriminazione così lampante, che non consente alle donne di iscriversi nella categoria professionisti?
Credo che molto dipenda dai vertici dello sport, molto dagli stereotipi della donna che ci vengono proposti dalla televisione e, sicuramente, le ultime vicende politiche (escort e bunga bunga) stanno peggiorando la situazione e la considerazione della donna in quanto tale.
Giusto recentemente il presidente del Napoli, Aurelio De Laurentis, ha chiesto spiegazione alla Figc sull’assenza del professionismo nel calcio femminile. Le considerazione di De Laurentis nascono dal successo avuto dal Mondiale femminile in Germania. La Federazione tedesca crede, da diversi anni, nel calcio femminile, investe e progetta e, questo ultimo Mondiale è stato un incredibile successo proprio per questo motivo.

Cosa comporta l’entrata nel professionismo?
Il professionismo comporta che gli atleti sono impegnati interamente nella disciplina che praticano e, quindi, possono dare il massimo sotto l’aspetto fisico, tecnico e tattico. Oltre a questo anche le persone coinvolte come tecnici, medici, fisioterapisti, manager, arbitri, giornalisti contribuiscono al miglioramento della qualità del gioco.

Lei è stata la prima donna ad allenare una squadra di calcio maschile? Ha trovato resistenze “di genere”, magari da parte dei giocatori? Se avesse avuto la stessa possibilità all’estero, forse sarebbe stato diverso?
È stata sicuramente un’esperienza positiva che rifarei ma, forse, nel mondo del calcio, malgrado i risultati raggiunti dalla squadra (passaggio del turno di Coppa Italia a spese di quelle squadre che poi vinsero il passaggio in serie B) è stata vista più come una trovata pubblicitaria del Presidente Gaucci. La soddisfazione è stata la stima dei giocatori. Non so se all’estero sarebbe stato diverso, non ci sono altri casi al mondo.

Il calcio femminile può appassionare come quello maschile, oppure crede – come è opinione diffusa – che la diversa potenza muscolare (o quant’altro) renda i match femminili meno esaltanti e meno spettacolari?
Tutti gli sport femminili esprimono una diversa forza muscolare. Apprezziamo Messi (Lionel Andrés Messi , capitano della nazionale Argentina) per la sua tecnica e non certo per la sua potenza fisica! Il calcio femminile ha margini di miglioramento tecnico, tattico e fisico enormi.

Quanto incide la cultura di genere nella scelta di uno sport?
Negli Stati Uniti – dopo i Mondiali Usa del 1999 e del 2003 – c’è stata un’esplosione del calcio femminile. Le giocatrici americane partecipano a programmi come Ballando sotto le stelle, sono diventate delle vere e proprie eroine dello sport, sono diventate “modelle e idoli” delle nuove generazioni.

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LE DONNE NON SONO FATTE PER LO SPORT

di Michela Dell’Amico. (xxd 11, ottobre 2011)
SONO ESCLUSE DAL PROFESSIONISMO, SONO ESCLUSE DAL LINGUAGGIO NELLE TELECRONACHE, HANNO PREMI MINORI E NESSUNA GARANZIA. FARE SPORT PER UNA DONNA DEVE RESTARE SOLO UN PASSATEMPO
Le donne che fanno sport sono zuzzurrellone, la loro è una passione buona come passatempo, ma non può mai diventare una professione. Lo stabilisce la legge italiana per tutte le discipline e, nonostante in Germania gli ultimi Mondiali di calcio femminili abbiano coinvolto in media 26.428 spettatori a partita, e in 17 milioni abbiano assistito a Germania-Giappone nei quarti di finale, noi italiani restiamo convinti che lo sport femminile sia meno spettacolare, insomma brutto, forse anche sgraziato, diciamo un pochetto innaturale.
In Italia sono solo sei le discipline “professionistiche”: il calcio, la pallacanestro, il ciclismo su strada, il motociclismo, la boxe e il golf. In tutte le altre discipline sportive, nonostante ori olimpici o record imbattuti (Federica Pellegrini, Carolina Kostner, Francesca Piccinini, Josefa Idem, Flavia Pennetta, Patrizia Panico, ma anche i loro colleghi maschi) gli atleti sono sempre e comunque dilettanti, che godono di soli rimborsi spese, nessuna tutela contrattuale né pensionistica, niente tfr o assistenza sanitaria e, nel caso delle donne, le scritture private (nessun contratto è previsto) ammettono il licenziamento in tronco in caso di gravidanza. Un esempio? La campionessa di pallacanestro Adriana Moises Pinto è stata licenziata appena ha annunciato la maternità, e la sua società, la Pallacanestro Faenza, ha minacciato di citarla per danni.
La deputata Pdl Manuela di Centa ha proposto una legge per il sostegno dello sport femminile e per la tutela della maternità delle atlete che praticano attività sportiva agonistica dilettantistica (5 milioni di euro all’anno), ma la proposta è ferma alla Camera. State pensando che allora è bene risparmiare durante la carriera? Mica facile, i premi per le donne sono infatti sempre inferiori a quelli maschili. Esiste uno Statuto della Federazione Atletica che sulla carta vieta trattamenti differenziati, ma in pratica sono davvero moltissimi gli esempi che testimoniano il contrario. La maratona del Piceno premia i maschi fino al nono classificato ad esempio, le femmine fino al quarto. Arrivi prima? Se sei donna vale mille euro, se sei uomo vale 1.500. Vera Carraro, campionessa di ciclismo, ha fatto sapere che la medaglia d’oro significava per lei 20mila euro. Ma ben 80mila se fosse nata uomo.
Ma torniamo alle discipline più fortunate, quelle che la legge prevede come professioni: udite udite, come stabilisce la legge 91 del 1981, questo non vale per le donne, che non possono mai pensare di far del loro sport una carriera.
Se le atlete famose poi, come Patrizia Panico, della nazionale di calcio, sono sostenute dagli sponsor; è un vero popolo quello delle sportive meno famose totalmente senza diritti e con pochi soldi, obbligate in genere (come gli uomini degli sport non professionistici) ad arruolarsi nella Guardia di Finanza, Vigili del Fuoco, Polizia o Forze armate, che possono assumere sportivi di interesse nazionale. Eppure lo sport è un mercato ricco, che costituisce il 3% del Pil nazionale e sono 7 milioni i tesserati delle federazioni sportive nazionali.
“Credo che le differenze di salario e di opportunità tra uomini e donne abbiano una diretta conseguenza sul sociale. Le maggiori opportunità degli uomini si riflettono sulla loro posizione e sulla possibilità di affermarsi nella società. È un dato di fatto che le posizioni sociali più importanti siano occupate da uomini”. Lo dice Carolina Morace, 47 anni, allenatrice della nazionale femminile di calcio in Canada. È considerata la più grande giocatrice italiana di tutti i tempi ed è stata la prima, nella storia mondiale del calcio, ad allenare una squadra maschile del campionato, il Viterbo. In Germania ai Mondiali femminili con il suo Canada, la Morace ha trovato sugli spalti la cancelliera Angela Merkel, che presenziava al fischio d’inizio. Il sigillo a un evento a lungo promosso e sentito.
Hanno giocato Germania, Inghilterra, Francia, Norvegia, Svezia, Australia, Corea del Nord, Giappone, Guinea, Nigeria, Canada, Messico, Stati Uniti, Brasile, Colombia e Nuova Zelanda. L’Italia non ha potuto partecipare però, non ha preso parte a questa storica rassegna perché non ha superato le gare di qualificazione. Alla fine, hanno vinto le giapponesi, ma favoriti erano gli Stati Uniti della stella calcistica Abby Wambach, e il Brasile della bravissima Marta Vieira da Silva, miglior giocatrice dell’anno dal 2006 e simbolo mondiale del calcio femminile.
La bella Wambach oltretutto, come molte colleghe, appare in tv ed è un’icona. Non solo ha firmato oltre 120 gol con la maglia della nazionale, ma ha anche presenziato al celebre programma televisivo di David Letterman. In Francia d’altro canto, la Figc locale sostiene l’ingresso delle donne nel mondo del calcio con spot e iniziative, per vederle inserite non solo come professioniste dello sport, ma anche ai vertici amministrativi e nell’arbitraggio (www.fff.fr).
Ma va detto che neppure all’estero la vita è facile per le atlete. Uno dei più grandi nemici dello sport femminile in assoluto è forse Jim Roym, che vive e lavora negli Stati Uniti. Il suo show di sport alla radio è così popolare che viene trasmesso in più di 200 stazioni differenti, dagli Stati Uniti al Canada. Insomma Roym è forse la più potente personalità del giornalismo sportivo americano. Le sue trasmissioni sono pungenti, il suo pensiero vivace e interessante, ma diventa sarcastico e inutilmente crudele quando si parla di sport femminili.
In Italia? In Italia lo sport femminile è quasi ignorato, il che è forse peggio. In fatto di machismo però non deludiamo, basta guardare (o anche solo ascoltare) una partita di calcio o di MotoGP. Prima di tutto noterete che le telecronache e le radiocronache sportive sono appannaggio quasi esclusivamente maschile. Ma a sconvolgere è il linguaggio, che spesso supera l’offesa. Le espressioni “violentare la moto”, intendendo “far fare cose incredibili”; oppure “calcio maschio”, per dire gioco aggressivo, ad esempio. Quest’ultima espressione, tra l’altro, tende a giustificare comportamenti scorretti, oltre a includere il concetto di pretesa “docilità” del “calcio femmina”. “Ah, certo – commenta Morace – per me nelle telecronache non si dovrebbero usare nemmeno termini come “battaglia” o “guerra”. Lo sport infatti è essenzialmente un gioco in cui l’atleta, prima di misurarsi con gli avversari, si misura con se stesso”.

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ENIGMISTICA FEMMINISTA

di Stefania Doglioli (xxd 12, novembre 2011)
Che differenza c’è tra discutere ad ogni pausa caffè ed in ogni bar ed andare in manifestazione? Tra non cercare lavoro e fare la badante laureata? Tra farsi pignorare la macchina, usare il car sharing, avere una macchina aziendale ed usare la bicicletta? Che differenza c’è tra crisi e decrescita? Tra farsi trapiantare un utero ed avere in affido un* bambin*? Che differenza c’è tra scelta e destino? Tra usare, condividere, essere usat*, avere a disposizione? E che cosa significano ognuna di queste parole, azioni, condizioni? Vengono chiamati neet i giovani che non studiano, non lavorano e non cercano lavoro. In Italia sembra che siano circa 2 milioni. Che differenza c’è tra sfiducia e mancanza di opportunità? Chi pianifica e produce la rassegnazione? E come? Quali altri “perché” possiamo produrre e quante possibilità ci sono dietro nuovi “perché”? Mi piacerebbe avere risposte, ma ancora di più mi piacerebbe trovare le giuste domande, quelle che stanno dietro le convenzioni e gli stereotipi che legano la nostra mente, che la condizionano a cercare sempre lo stesso senso nelle cose. Siamo ipnotizzat* o socializzat*? Mi vengono dubbi, mi chiedo quale sia la differenza. Giorgio, durante una discussione sulla nostra mailing list ci ha fatto notare che con i nobel sono stati premiati gli ‘impoveritori’, premiando per l’economia chi ha dettato le linee del neoliberismo degli ultimi decenni e le “impoverite” che grazie alle loro lotte pacifiche contro di loro hanno ricevuto il nobel per la pace. Che differenza c’è allora fra schizofrenia e democrazia? L’impresario di Barletta piange la morte della figlia, dicendo che è solo colpa sua, non si sa se le altre donne morte abbiano dei genitori. Che differenza c’è tra piangere per la propria famiglia e piangere per la società in cui si vive? Il pensiero laterale non è quello che usi quando te ne stai a lato, in disparte, è quello che riesci a concepire mentre stai al centro ma vedi anche dietro. Questione di creatività. Un bambino autistico è stato allontanato dai compagni perché in classe non c’era abbastanza spazio per lui e l’insegnante di sostegno. Che differenza c’è tra idiozia e ignoranza? Il premio nobel per la pace dello scorso anno ha detto: “la povertà è soprattutto un vincolo per la creatività, in quanto, sebbene esista un potenziale insito in ciascun individuo, ai poveri non è concesso di svilupparla”. Meglio trovare soluzioni creative “alle crisi” prima che diventi troppo tardi. Per ora abbiamo a disposizione un nuovo numero di XXD che prova a porre domande e magari, ecco, pone domande che altr* non pongono o non pongono allo stesso modo, sperando che così a chi legge venga naturale pensarci sopra e farsi un’idea sua da far circolare, un esperimento di compostaggio di menti. Ma che differenza c’è tra riciclare e produrre? A Milano, di fronte alla Banca d’Italia gli indignados tra cui c’erano anche molte indignadas sebbene ignorate dai titoli, si sono chiest* che differenza c’è tra essere buon* ed essere stupid*

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SENZA TETTO NÉ LEGGE

di Veruska Sabucco. (xxd 12, novembre 2011)
IL 15 OTTOBRE SI È TENUTA LA DODICESIMA EDIZIONE DE “LA NOTTE DEI SENZA DIMORA”, L’EVENTO IDEATO DALLA ONLUS TERRE DI MEZZO PER SENSIBILIZZARE I CITTADINI NEI CONFRONTI DELLA GIORNATA MONDIALE CONTRO LA POVERTÀ (LA DATA UFFICIALE, STABILITA DALL’ONU, È IL 17 OTTOBRE).
Per strada la maggior parte dei senza tetto sono uomini. Le donne sono una minoranza. In occasione della “notte dei senza dimora” abbiamo cercato di capire perché. Numerose associazioni, su tutto il territorio nazionale, ogni 15 ottobre invitano la popolazione locale a uno sleep out (una notte all’addiaccio), per vivere temporaneamente, quasi per gioco, la quotidianità dei senza dimora. L’obiettivo degli organizzatori della Notte dei senza dimora è di informare per scardinare pregiudizi e stereotipi, avvicinando chi ha una casa alla situazione di chi vive in strada. Terre di mezzo vuole anche denunciare la mancanza di politiche di aiuto nei confronti delle persone senza tetto. Da buona metafemminista, leggendo i comunicati e guardando le numerose immagini di senza tetto barbuti, mi sono detta che, come al solito, il maschile “neutrale” della nostra lingua, supportato dall’iconografia tradizionale del “barbone”, ignora e nasconde le donne (tranne quelle con problemi di irsutismo facciale). Ogni volta che nei media, di primo o quart’ordine, si parla di “barboni incendiati da giovani di buona famiglia” mi chiedevo: ma le “barbonesse” dove sono? Come fanno, essendo donne e quindi più facilmente designate come vittime dall’imbecillità testosteronica collettiva, a salvarsi? Non si parla mai di aggressioni verso le senza tetto perché il problema non è denunciato o perché attuano strategie di autodifesa efficaci? Per rispondere alle mie domande, l’associazione Terre di mezzo mi ha reindirizzato a Magda Baietta, fondatrice della sezione milanese della Onlus La Ronda della Carità e Solidarietà. La sua esperienza l’ha sviluppata sul campo, partecipando alle unità di strada notturne. Magda mi ha spiegato che, per una volta, non è un problema di invisibilità del femminile ma che, effettivamente, ci sono pochissime donne tra i senza tetto. Le donne senza fissa dimora che rifiutano un aiuto “hanno problemi di alcolismo o malattie mentali” e spesso entrano ed escono da centri e istituti, una situazione cronica che non sembra avere, nel loro caso, vie d’uscita positive. Spesso, in questi casi, è già considerato un successo riuscire a indirizzare la donna verso un istituto, dopo un lavoro lungo dove il volontario deve essere “sempre presente come figura di riferimento, senza chiedere nulla in cambio”. In parte, mi racconta, questa scarsità di presenze femminili, per una volta positiva, “è dovuta al fatto che ci sono più servizi per le donne in situazioni di difficoltà, quindi si cerca di trovare loro subito un posto dove stare”. Le donne, continua, sembrano essere in grado di tessere una rete di supporto intorno a sé che permette loro, anche nei momenti più difficili, di non finire in strada. Insomma, mi esalto, siamo delle fighe! Sappiamo sempre a chi rivolgerci e siamo piene di risorse? Cadiamo sempre in piedi? Egoisticamente, il mio futuro come precaria disoccupata non appare più così nero, non finirò sotto un ponte! In realtà, mi dice Magda, a volte la soluzione adottata per non finire in strada non è rosea come la immagino: tristemente, “una donna può riuscire a trovare un partner con cui abitare, talora facendo slittare il problema verso condizioni di disagio diverse come abusi e violenze”. Insomma: “Cosa gradisce la signora, padella o brace?”.

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GIOVANNA MARINI E IL PUNTO DI VISTA DEI SERPENTI

di Isabel. (xxd 12, novembre 2011)
DOPO GERMANIA, FRANCIA E SVIZZERA IL 21 SETTEMBRE È ARRIVATO ANCHE IN ITALIA L’ULTIMO SPETTACOLO DELLA MUSICISTA GIOVANNAMARINI. LA RAPPRESENTAZIONE DI UN’ITALIA CHE STA PERDENDO LA SUA ANIMA CON I SUOI TESORI.
E’ arrivato finalmente anche in Italia lo spettacolo di Giovanna Marini Dal punto di vista dei serpenti. Un quartetto dove la studiosa e cantante della musica popolare si presenta affiancata dalle voci di Patrizia Bovi, Francesca Breschi e Patrizia Nasini per raccontare in forma di cantata i Santi popolari. Quelli eletti e santificati dal mondo contadino prima ancora del di Dio, ha di suo poteri soprannaturali. Con il Santo Patrono si sta in familiarità, a lui si può chiedere un po’ di tutto. È un feticcio che il popolino adora. E questo spiega la fortuna dei pellegrinaggi. I canti più antichi raccontano anche di magia, con tanto di denuncia della maga o della fattucchiera di turno alle autorità. Ma fanno anche emergere il ricorso a forze estranee all’essere umano per risolvere i problemi della quotidianità. Fra le righe dei racconti anche la storia della Chiesa cattolica, i suoi scismi, la nascita delle eresie in Italia. Un lavoro intenso quanto curioso che nasce dalla ricerca delle testimonianze raccolte dalla viva voce della gente. Come tradizionalmente il lavoro di Giovanna Marini. In questo suo ultimo lavoro Dal punto di vista dei serpenti si può parlare anche di un punto di vista di sante e del femminile? Io in realtà, quando ho pensato questo progetto non avevo in mente specificatamente un riferimento al femminile. Se guardiamo però alla realtà dei fatti, la donna e il femminile sono veramente ovunque. La donna, infatti, è nata per aiutare gli altri. E dove esiste un qualsiasi movimento di tipo solidale e protettivo, ecco che la donna è in prima linea, sia come attrice che, purtroppo molto spesso, come vittima. Quindi, quando io parlo dei santi laici, ho pensato immediatamente a Myriam Makeba che, per aiutare i suoi amici africani, è andata a cantare Non mi sono mai definita femminista, semplicemente perché non sopporto i facili slogan. Pensando alla parola femminista, mi vengono in mente immediatamente le donne con i baffi che si atteggiano a uomini. Anche se, quando mi soffermo un attimo, mi vengono in mente anche immagini belle, da Rosa Luxemburg alle grandi femministe inglesi, le prime. Purtroppo anche il cosiddetto femminismo è stato vittima dei clamori mediatici erronei di certe mode. Chissà, forse pilotati dagli uomini… Certo è che io sono fermamente convinta che le donne oggi possano fare molto più degli uomini. Non c’è confronto. Fanno una splendida figura rispetto ai colleghi maschi, quelle perlomeno che non sono succubi dei potenti. a Castel Volturno pur sapendo di rischiare la vita. Come purtroppo è accaduto. Insieme a lei ho pensato a Falcone e Borsellino… e si potrebbe pensare a tanti altri e altre…. Giovanna Marini si accompagna spesso con artiste donne. Cosa pensa dell’arte, della musica e della cultura al femminile? Pensa che ci sia spazio per le donne in questi ambiti? No, ce n’è veramente poco e mal gestito. E c’è bisogno di dirlo a gran voce. Una donna musicista è penalizzata per antonomasia. A meno che non entriamo nel modo dei quotati in borsa. Come è cambiata la musica popolare da quando lei ha iniziato a cantarla? È cambiata, certo. E questo perché la musica popolare non è che si evolva o decada, semplicemente si trasforma. È una musica collettiva e come tale più sensibile agli influssi degli elementi esterni, mass-media compresi. Qui il suo interesse, proprio perché sensibile agli influssi esterni, è sempre attuale. Giovanna Marini ha interpretato diversi canti femministi. Come è cambiato secondo lei il femminismo oggi e lei si definisce femminista? Anche se, quando mi soffermo un attimo, mi vengono in mente anche immagini belle, da Rosa Luxemburg alle grandi femministe inglesi, le prime. Purtroppo anche il cosiddetto femminismo è stato vittima dei clamori mediatici erronei di certe mode. Chissà, forse pilotati dagli uomini… Certo è che io sono fermamente convinta che le donne oggi possano fare molto più degli uomini. Non c’è confronto. Fanno una splendida figura rispetto ai colleghi maschi, quelle perlomeno che non sono succubi dei potenti.

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RITRATTO DI SIGNORA /THE PORTRAIT OF A LADY

di Francesca Baccani, Kei Nagayoshi.(xxd 12, novembre 2011)
LA FOTOGRAFA KEI NAGAYOSHI È UNA DELLE PERSONE CHE TENEVANO A SYLVIE. È NATA A TOKIO MA VIVE A MILANO DA TANTI ANNI. DAL 2007 AL 2009 L’HA SEGUITA NEI SUOI SPOSTAMENTI PER LA CITTÀ E HA PARLATO CON LEI A LUNGO.QUESTE FOTOGRAFIE SONO SCELTE TRA LE TANTE CENTINAIA CHE LE HA FATTO.
Sylvie veniva dalla Costa d’Avorio. Era arrivata a Milano seguendo uno strano italiano conosciuto a Parigi, e qui si era fermata. In tanti l’abbiamo incontrata – in piazza Gramsci, a Porta Nuova e nell’ultimo periodo a Porta Ticinese – e ne sono rimasti affascinati. Perché Sylvie era una donna che non passava inosservata. Si vestiva di stracci e li rendeva elegantissimi abiti. Aveva un sorriso disarmante e un viso da ragazzina. Era avvolta da un’aura particolarissima. E come succede a tutti i personaggi dotati di carisma naturale, anche attorno a Sylvie sono nate infinite storie, tutte un po’ vere, tutte un po’ fasulle. Ognuno ha la sua versione, magari tradotta direttamente interpretando le sue parole in italiano, francese e inglese. Sylvie è morta l’inverno scorso, i primi di dicembre del 2010, per cause non bene accertate. Forse è inciampata e ha battuto la testa, forse si è sentita male ed è caduta, forse qualcuno l’ha spinta. Forse aveva un problema di fegato. Già, perché Sylvie era alcoolista, da anni, e viveva per strada, da anni. Io non credo di essermi mai fermata a scambiarci qualche parola. Me la ricordo bene, ma non credo nemmeno di averle mai dato né una moneta né una coperta né qualsiasi altra cosa di cui potesse avere bisogno. Me ne parlava la mia amica Karis, che come tanti aveva cercato di entrare in relazione con lei. Sylvie le offriva sempre un sorso di birra o un morso dei suoi panini improbabili, rispondeva alle sue domande in tutte le lingue e sorrideva. Sono rimasta coinvolta nella sua storia per caso, dopo la sua morte. Da una mail del Naga prima e da una vigilessa straordinaria che l’aveva seguita per anni. È per questa vigilessa, Paola, che mi sono presentata all’obitorio del Policlinico nel giorno del suo funerale. Per lei, ma anche per “rappresentare il quartiere” . Sylvie ha vissuto sui nostri marciapiedi gli ultimi mesi della sua vita e tante persone della zona l’hanno aiutata in mille modi, quando ancora era utile farlo. Ci ha raggiunte suor Albertine, una suora ivoriana della zona, che era molto legata a lei. Mi aveva detto a gran voce che non voleva assolutamente vederla e mi ha fatto molta tenerezza. Abbiamo recitato un Padre nostro, tre Ave Maria, tre Eterno riposo. Paola con le lacrime agli occhi ancora mi diceva “ho sperato fino all’ultimo che non fosse lei, ma è proprio la Sylvie”. Di lei sappiamo per certo che ha lavorato almeno un mese in regola, con i contributi pagati. Grazie a questi trenta giorni il suo corpo ha potuto rientrare a casa dalla madre e dalla sorella su un volo pagato dall’Inps. Le spese per il funerale sono state coperte invece dalla solidarietà del quartiere e della Parrocchia in cui opera suor Albertine. Francesca Baccani Appena sveglia beve subito una birra. Dorme sotto la grondaia di un elegantissimo palazzo in stile Liberty di fianco ad un cantiere edile. Dorme sempre lì anche quando piove a dirotto. Le ho dato alcuni consigli su dove trovare posti più idonei per passare la notte (istituzioni benefiche o chiese di accoglienza) ma lei preferisce la sua grondaia e non intende muoversi da lì: “Io non mi lamento, ma c’è gente che ha tutto e si lamenta sempre!” dice. Il suo tempo passa molto lentamente. Quando se la sente, inizia un nuovo “Viaggio”. Così lei va a vagabondare per Milano con il suo zaino incredibilmente pesante, diverse borse e sacchetti. Dentro questi bagagli ci sono sempre 5 o 6 bottiglie di birra, vestiti, roba da mangiare, giornali, sacchetti, radio, pacchetti di sigarette vuoti.. i suoi “tesori”, la raccolta del passato. Porta il suo fardello ovunque vada, senza lamentarsi e scoraggiarsi: “Mi piace viaggiare. Oggi sono andata fino in Giamaica!” Parla sempre da sola. Se le si rivolge la parola, risponde sempre in perfetto italiano. Conosce altrettanto bene sia il francese che l’inglese. I suoi discorsi sono spesso incoerenti: un misto di verità e bugie condite con tanta fantasia. Si veste in modo particolare. Ha uno stile tutto suo. Sorride sempre, è simpatica. Tanti passanti la conoscono, la salutano e le fanno l’elemosina. Le piace stare con i suoi amici, compagni di sventura. Aveva un compagno preferito, si chiamava Serghei. Per un lungo periodo sono stati una coppia. Lei lo chiamava “mio marito”. È morto di cirrosi epatica il 3 aprile 2008 mentre le dormiva a fianco. Aveva 47anni. Lei non crede ancora alla sua morte, pensa che sia ancora in giro da qualche parte. Alcune volte sosta davanti al supermercato. Chiede l’elemosina e poi, coi pochi soldi che racimola compra birre e cibo. I suoi bisogni li fa sulla strada. “Una volta mi hanno chiamato i carabinieri, ma io stavo facendo solo pipì!” Se la si prende in giro diventa subito aggressiva.. Ci sono i volontari che la seguono una volta alla settimana da quattro anni. Secondo le loro informazioni lei ha avuto due figli che vivono da qualche parte in America, ed ha abortito una volta qui a Milano, ma non sanno come ci sia riuscita. Una volta ha detto ai volontari di essere stata violentata. Dopo questa accusa, è sparita dalla circolazione per un mese e mezzo circa e nessuno sapeva dove fosse finita. Un giorno all’improvviso è tornata. Per la legge vigente non può andare in un dormitorio perché è sprovvista di documenti e permesso soggiorno. Alcune voci dicono che la sua famiglia abbia cercato di rintracciarla tramite l’ambasciata ivoriana ma lei si è negata. Non dà informazioni di sé e del suo passato. Vedendola condurre una vita così miserabile alcuni impiegati, di un’azienda vicino a dove lei bivacca, hanno fatto un’offerta ai volontari della Onlus per migliorare le sue condizioni di vita, ma lei ha rifiutato l’aiuto. Lei si chiama Sylvie. Tutti la chiamano Silvia. È originaria dell’Abidjan in Costa D’Avorio. Da almeno quattro anni vive in questo modo. “Da qui io vedo tutto. Tutto il mondo!” Kei Nagayoshi

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CITTADINA ANCH’IO

di Daniela Danna. (xxd 12, novembre 2011)
GRAN PARTE DEI FIGLI DI IMMIGRATI CHE NASCONO NEL NOSTRO PAESE NON SONO CITTADINI ITALIANI. QUESTO A CAUSA DI UNA LEGGE ASTORICA BASATA SULLO IUS SANGUINIS, CIOÈ IL “DIRITTO DI SANGUE”. CONTRO QUEST’ASSURDA NORMA È PARTITA UNA CAMPAGNA “L’ITALIA SONO ANCH’IO”. SI FIRMA FINO A FEBBRAIO 2012
Non chiamateli “immigrati” perché sono italiani a tutti gli effetti. Sono figli di immigrati ma nascono nel nostro paese, parlano la nostra lingua, vivono come noi, con la diversità della pelle, dei lineamenti, dell’origine dei genitori – una diversità che spesso deve affrontare il razzismo di chi non concepisce che un’italiana o un italiano possano avere tratti somatici non mediterranei e un colore della pelle più scuro. A causa di questo spesso vengono aggrediti e discriminati. Troppe persone, infatti, continuano a non considerare italiano chi non lo sembra per aspetto. Un’assurdità che viene avvallata anche da scelte politiche. Una per tutti – una potente – la ministra Mariastella Gelmini ha stabilito che il tetto di presenza di “stranieri” nelle classi non deve superare il 30 per cento. La ministra ha preso questa decisione senza considerare che molti di questi “stranieri” in realtà sono nati e cresciuti in Italia. Il problema è che non hanno la cittadinanza a causa di una legge assurda, basata sullo ius sanguinis (il diritto di sangue). In pratica, prima di diventare italiani a tutti gli effetti, devono aspettare di compiere 18 anni e seguire un lungo iter burocratico. Oggi questi giovani dicono basta e chiedono l’appoggio di tutti per cambiare lo ius sanguinis in ius soli (diritto di cittadinanza per nascita sul suolo italiano), come accade in altri paesi europei tra i quali la Francia.
Abbiamo incontrato Medhin Paolos, una delle promotrici della campagna “L’Italia sono anch’io” promossa con la Rete G2 – Seconde Generazioni, per saperne di più di questa iniziativa.

Quali sono le vostre proposte?
Vogliamo cambiare la legge che stabilisce che l’ottenimento della cittadinanza italiana avviene attraverso il sangue e non perché si nasce in questo paese. Ius soli e non più ius sanguinis. Ormai parliamo tutti latino! Abbiamo poi una seconda proposta che riguarda il diritto di voto degli immigrati alle amministrative.

È così problematico ottenere la cittadinanza al compimento dei 18 anni?
A molti viene rifiutata perché incappano in dei cavilli burocratici. Per fare richiesta bisogna presentarsi al Comune di residenza e dimostrare di essere rimasti in modo continuativo su suolo italiano senza interruzioni per 18 anni, dimostrare che almeno un genitore fosse residente al momento della nascita, non deve passare più di un anno dal compimento della maggiore età per fare domanda.
Se passa quella finestra di un anno tra i 18 ed i 19 anni  poi va presentato anche il reddito e una serie di documentazioni che non sono richieste ai neodiciottenni nati in Italia. Molti scoprono troppo tardi che hanno la possibilità di diventare cittadini italiani anche perché nelle scuole non se ne parla.

A te come è andata?
Io sono un caso fortunato: mio padre mi ha informata e il giorno del mio diciottesimo compleanno ero davanti alla questura coi documenti. Ma era un mio diritto, di cui sono stata ingiustamente privata nei diciotto anni precedenti. Ho dovuto fare il giuramento come i militari, e portarmi due testimoni – ma chi nasce qui da genitori italiani non lo fa. Mi è rimasta impressa l’impiegata che mi ha detto “Benvenuta in Italia”, non ho potuto fare altro che ridere. Ma lei era seria, non si era resa conto di quello che stava facendo, cioè dare la cittadinanza a una che italiana lo era già. Io non sono cambiata. Ho le stesse idee di prima, la mia italianità è sempre la stessa. Ma la certificazione sì mi ha cambiato la vita. Studiavo e non potevo fare una gita fuori dai confini senza un lungo preavviso, perché dovevo avere il visto. Dopo mi sono potuta permettere di viaggiare, il passaporto europeo mi ha cambiato la vita.

Mi fai un esempio di rifiuto della cittadinanza?
Mi ha scritto un ragazzo emiliano. Il suo problema è che gliel’hanno rifiutata perché ha avuto un problema con la legge. A 15 anni ha risposto male a un poliziotto durante un controllo, ma avrebbe tutti i requisiti. Un’altra ragazza aveva un buco di tre mesi nella residenza: le vacanze da studente che aveva trascorso al paese dei suoi.
A volte i rifiuti non sono nemmeno fondati giuridicamente, come nel primo caso. Il problema è che nelle questure è difficile trovare dietro agli sportelli persone che siano bene a conoscenza delle regole, magari emanate con una circolare. Siamo più esperti noi di loro.

Cosa significa per voi non essere italiani?
Ci sono svantaggi pratici: appunto non puoi mai fare una vacanza all’estero, non puoi fare il servizio civile internazionale , fare l’esperienza dell’ erasmus. E questi sono i problemi degli studenti. Poi crescendo: non possiamo accedere ai concorsi pubblici e quindi lavorare per enti pubblici, non possiamo accedere a determinati ordini professionali.
Lo stress del rinnovo del permesso di soggiorno è costante dato che ora che il rinnovo arriva, sta già scadere, visti i tempi lunghissimi di rilascio.

Come è stata accolta la vostra campagna?
Abbiamo lanciato la raccolta firme nelle piazze il primo ottobre. È andata molto bene, la risposta della gente è stata simpatetica. È stato un buon modo per fare rete, cosa che è sempre difficile con le altre organizzazioni e associazioni , cosa che a Milano a volte non è semplice.

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ANCORA INDIGNATE

di Daniela Danna. (xxd 12, novembre 2011)
IL 15 OTTOBRE LA MANIFESTAZIONE È RIUSCITA O NO? A COSA GUARDARE, ALLA PRESENZA IN PIAZZA, ALLA REAZIONE OPPURE A TUTTO QUELLO CHE ANCORA C’È DA FARE? UN PUNTO DI VISTA CHE RIBADISCE LE RAGIONI DELLA PROTESTA.
Violenza sì o violenza no? Infiltrati sì o infiltrati no? Così a sinistra si discute del 15 ottobre, chiamandolo anche una svolta epocale: 200.000 persone contro il capitale finanziario sono una novità, sono la confluenza di lotte “parziali” – la difesa del posto di lavoro, della vivibilità del proprio ambiente, la richiesta di una gestione della crisi che non sia sulle spalle delle “solite e soliti noti” lavoratrici e lavoratori – che si coaugulano in un’unica dimostrazione di volontà di cambiamento, nella protesta contro l’ingiustizia globale dell’ordine economico capitalistico. Alcun* hanno espresso questa volontà con attacchi ai soliti bersagli (vetrine di banche, automobili, una ex caserma – ormai vuota – che è stata bruciata) che possono anche essere stati istigati e tollerati come tattica per giustificare la repressione successiva, nonostante le molte rivendicazioni di chi ritiene che l’espressione di violenza sia giusta perché costituisce un contropotere.
Quello che vorrei fare nella doverosa riflessione successiva a una manifestazione che abbiamo salutato come portatrice di qualcosa di nuovo, di una posizione radicale che dimostra una diffusa presa di coscienza della mancanza di prospettive del sistema economico in cui viviamo (per non parlare di quello politico) è ribadire che le ragioni dell’indignazione sopravvivono tutte, ancor più oggi che più si predispongono gli strumenti violenti per far sì che gli oppressi non abbiano voce, non possano manifestare la loro opposizione. Da tutto l’arco costituzionale abbiamo sentito la deplorazione ipocrita della violenza di piazza mentre proprio loro preparano altre violenze per schiacciare il dissenso e far passare misure che impoveriscono la popolazione e lasciano intoccati i profittatori del sistema. E che cosa è rimasto della democrazia oggi? Il loro atteggiamento è ipocrita anche perché fingono di non poter ascoltare le ragioni dell’indignazione in quanto sono espresse in modo violento, ma quando lo sono in modo pacifico non vengono parimenti ascoltate. E questa violenza comunque non è stata condivisa che da una minoranza di manifestanti, e ha avuto l’effetto non secondario né trascurabile di spaventare coloro che si sono avvicinati a questa forma di protesta senza intenderla come uno scontro militare.
Ma noi siamo un mezzo di informazione e di controcultura, non un soggetto politico che deve prendere una posizione unitaria su ciò che è accaduto – la violenza e le sue conseguenze – e continueremo a portare il nostro piccolo contributo di smascheramento del sessismo, del razzismo, dell’oppressione di classe attraverso la nostra attività. e la prima cosa da dire è che le leggi speciali non le vogliamo, e continueremo a manifestare in piazza finché non saremo ascoltate.

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SI STA COME D’AUTUNNO. IL WELFARE IN ITALIA (IOREK)

di Ornella Guzzetti. (xxd 13, gennaio 2012)
Quello di Mario Monti è considerato in Europa un governo di emergenza. In Italia va per la maggiore la definizione di governo tecnico. La satira ci dice che è un po’ come mettere il Conte Dracula a dirigere un centro trasfusionale, sostenendone la competenza in quanto notoriamente grande esperto di ematologia. Alcune associazioni femministe gli hanno scritto una lettera, dopo l’insediamento, comunicandogli che “L’inoccupazione e la sottrazione dei servizi alle cittadine, sono un vero e proprio costo aggiuntivo alla crisi che la politica accetta di pagare, la qual cosa continueremo ad avversare anche in corso del suo mandato Aspettiamo quindi di avere parola nel merito: la situazione non è tale da consentire una scelta a piacimento tra le sue interlocutrici. Consulti le donne nelle sedi proprie: le loro associazioni e i loro movimenti. Esattamente come ha fatto con le sedi politiche tradizionali, per altro messe in crisi proprio dalle cittadine” (http://www.deltanews.net/politica-in-una-lettera-a-monti-lepreoccupazioni- di-associazioni-femministe-4714893.html). Nell’attesa, rispolveriamo una articolo di gennaio 2011 del Presidente del consiglio in cui diceva: “In Italia, data la maggiore influenza avuta dalla cultura marxista e la quasi assenza di una cultura liberale, si è protratta più a lungo, in una parte dell’ opinione pubblica e della classe dirigente la priorità data alla rivendicazione ideale, su basi di istanze etiche, rispetto alla rivendicazione pragmatica. Questo arcaico stile di rivendicazione (…) è un grosso ostacolo alle riforme. Ma può venire superato. L’abbiamo visto di recente con le due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne. Grazie alla loro determinazione, verrà un po’ ridotto l’handicap dell’Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili”. Il governo in carica, guidato dal neosenatore a vita Monti, pensa che la perdurante crisi economica e il problema del debito crescente possano rimuovere quello che lui considera il “grosso ostacolo alle riforme”? Ovvero una parte dell’Italia che non vuole lo smantellamento dello stato sociale e dei diritti di cittadinanza garantiti dalla Costituzione? È questo il mandato affidatogli dal Presidente della Repubblica e dal Parlamento che lo ha votato a larghissima maggioranza? Croce sopra quindi sull’articolo 18, avanti tutta con la privatizzazione delle università e reintroduciamo anche l’Ici però non per i beni ecclesiastici – forse che i bilanci del Vaticano versano anche loro in brutte acque come i nostri? No, non sono nell’Unione europea. Questo governo in teoria non ha problemi elettorali, può prendere decisioni impopolari senza preoccuparsi di venire rieletto, visto che non è stato eletto, e poi fare da capro espiatorio quando i politici torneranno in lizza: la Lega sta già facendo campagna elettorale proclamandosi all’opposizione e gli altri potrebbero presentarsi come gli alfieri del popolo contro i tecnocrati insensibili. Ma le manovre di Monti andranno votate e lo saranno, appuntiamoci bene da chi. Poi vedremo se i politici si ridurranno i benefici tanto criticati della casta o se preleveranno solo a chi lavora e non evade le tasse, a chi è precaria/o, a chi ha una casa sola, quella dove abita su cui paga un mutuo alle banche, a chi non fa speculazioni in borsa perche i soldi le/gli servono per mangiare. Tra le priorità annunciate mancano le sole decisioni legislative che possono dare qualità e senso a un nuovo prossimo governo, per andare al più presto a nuove elezioni: 1 – una legge sul conflitto di interessi (il problema non è solo Berlusconi ma anche Monti che siede nel “Research advisory council” del “Goldman Sachs global market Institute”, ed è membro dell’esclusiva “Commissione permanente” del gruppo Bilderberg); 2 – una legge che regolamenti la concentrazione della proprietà dei media e promuova la Rai a servizio pubblico e non a terreno di lottizzazione e con una programmazione a traino di quella di Mediaset; 3 – una legge elettorale che favorisca il ricambio generazionale e una numerosa rappresentanza delle donne – che sono il 50% dell’elettorato – e dove a scegliere i candidati siano gli elettori col voto di preferenza e non i partiti, per i quali vanno resi più trasparenti le fonti di finanziamento. A queste riforme il presidente Monti non troverà grossi ostacoli nell’opinione pubblica, che sia di cultura marxista o meno.

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MARIA MIES: LA SUSSISTENZA COME OBIETTIVO

di Alice nel paese delle femministe. (xxd 13, gennaio 2012)
INTERVISTA CON LA STUDIOSA TEDESCA CHE HA ELABORATO LA “PROSPETTIVA DELLA SUSSISTENZA” A PARTIRE DAI SUOI CONTATTI CON LE DONNE DEL SUD DEL MONDO
Un gruppo di donne del Bangladesh incontrò Hillary Clinton, e venute a sapere che non aveva un lavoro (all’epoca era first lady) né molti figli e nemmeno una mucca, discretamente espressero compatimento e commiserazione. “Le donne di Maishahati sono ingenue o ignoranti? Pensiamo di no. Guardano il mondo da una prospettiva diversa: la prospettiva dal basso”, così Maria Mies e Veronica Bennhold- Thomsen commentano l’episodio in The substistence perspective. Una bella vita non richiede mucchi di denaro, ma avere quanto è necessario. Queste donne non hanno adottato la prospettiva dall’alto, non hanno chiesto alla Clinton denaro per loro progetti, non hanno bisogno di merci di importazione che riempiono i supermercati. E dimostrano quanto sono assurdi i nostri concetti di povertà, ricchezza e bella vita. Maria Mies è la più anziana del gruppo di femministe tedesche che propongono la “prospettiva della sussistenza”. Significa adottare il punto di vista di chi è in grado di procurarsi la propria sussistenza come punto di riferimento privilegiato, se abbiamo come obiettivo la sostenibilità del sistema economico e sociale. È importante la capacità delle comunità di produrre la propria vita senza essere dipendenti da forze e agenti esterni. “Questa consapevolezza della propria capacità di sussistere in modo indipendente ha dato alle donne di Maishahati l’orgoglio, la dignità, il coraggio e il senso di eguaglianza per rivolgersi alla first lady degli Stati Uniti come ‘sorella maggiore’. Non sono mendicanti, non sono subordinate, possono stare sulle proprie gambe”. La prospettiva della sussistenza dà valore all’accesso diretto alle fonti di sussistenza e all’autonomia delle persone che possiedono l’abilità di produrre e riprodurre la propria vita, di essere indipendenti e parlare con la propria voce. Ma queste produttrici e produttori sono minacciati dallo sviluppo capitalistico che sottrae loro la terra con l’espansione dell’agroindustria basata sul petrolio. Che cosa possiamo fare noi che viviamo in città? Acquistare dai piccoli produttori, organizzarci in gruppi d’acquisto che sostengano le forme tradizionali di agricoltura, informarci sui metodi adottati nella produzione e spendere tempo (a volte più denaro, ma non sempre) per verificare la sostenibilità di ciò che consumiamo. E smettere di denigrare le cose fatte a mano – dagli abiti agli alimenti: “Dal 1945 nel Nord del mondo si è avuta la svalutazione sistematica di tutto quello che è connesso con la creazione e il mantenimento della vita, e di tutto quello che non è realizzato attraverso la produzione o il consumo di merci”. Ma che ce ne facciamo di una mucca in Europa? È che Maria Mies ha lo sguardo lungo: “L’utopia di una società socialista, non sessista, non coloniale, ecologica, giusta e buona non può essere modellata sullo stile di vita delle classi dominanti – una villa e una cadillac per tutti – piuttosto deve essere basata sulla sicurezza della sussistenza per tutti”. Comunque, scrive, l’“economia di sussistenza” e la “prospettiva della sussistenza” non sono la sussistenza come punto di riferimento privilegiato, se abbiamo come obiettivo la sostenibilità del sistema economico e sociale. È importante la capacità delle comunità di produrre la propria vita senza essere dipendenti da forze e agenti esterni. “Questa consapevolezza della propria capacità di sussistere in modo indipendente ha dato alle donne di Maishahati l’orgoglio, la dignità, il coraggio e il senso di eguaglianza per rivolgersi alla first lady degli Stati Uniti come ‘sorella maggiore’. Non sono mendicanti, non sono subordinate, possono stare sulle proprie gambe”. La prospettiva della sussistenza dà valore all’accesso diretto alle fonti di sussistenza e all’autonomia delle persone che possiedono l’abilità di produrre e riprodurre la propria vita, di essere indipendenti e parlare con la propria voce. Ma queste produttrici e produttori sono minacciati dallo sviluppo capitalistico che sottrae loro la terra con l’espansione dell’agroindustria basata sul petrolio. Che cosa possiamo fare noi che viviamo in città? Acquistare dai piccoli produttori, organizzarci in gruppi d’acquisto che sostengano le forme tradizionali di agricoltura, informarci sui metodi adottati nella produzione e spendere tempo (a volte più denaro, ma non sempre) per verificare la sostenibilità di ciò che consumiamo. E smettere di denigrare le cose fatte a mano – dagli abiti agli alimenti: “Dal 1945 nel Nord del mondo si è avuta la svalutazione sistematica di tutto quello che è connesso con la creazione e il mantenimento della vita, e di tutto quello che non è realizzato attraverso la produzione o il consumo di merci”. Ma che ce ne facciamo di una mucca in Europa? È che Maria Mies ha lo sguardo lungo: “L’utopia di una società socialista, non sessista, non coloniale, ecologica, giusta e buona non può essere modellata sullo stile di vita delle classi dominanti – una villa e una cadillac per tutti – piuttosto deve essere basata sulla sicurezza della sussistenza per tutti”. Comunque, scrive, l’“economia di sussistenza” e la “prospettiva della sussistenza” non sono la stessa cosa, perché la prospettiva della sussistenza non è un modello economico ma la consapevolezza che lo scopo dell’economia non è la produzione di merci, ma la soddisfazione -il più possibile diretta – dei bisogni umani. Produzione della vita invece che produzione di merci (che non sono i beni, ma i beni prodotti per essere venduti organizzando il lavoro altrui). Il capovolgimento di prospettiva è peraltro solo apparente, perché il lavoro di sussistenza, cioè tutto il lavoro non pagato che alimenta direttamente la vita, è sempre stato il presupposto del lavoro pagato, e quest’ultimo non può esistere senza il primo. Tradotta in ricette economiche la prospettiva della sussistenza significa innanzitutto redistribuire questo lavoro non pagato tra uomini e donne: tutti ne devono svolgere una giusta parte. Il lavoro salariato non va più considerato al centro dell’economia nel senso che l’alienazione del lavorare per altri non può essere neutralizzata e compensata nemmeno dalle più grandi somme di denaro con cui può essere pagato – e anche di questo oggi manca una consapevolezza diffusa. Se la vera produzione è la produzione della vita, naturalmente le tecnologie da adoperare devono fare attenzione alla cooperazione invece che al dominio della natura. E la mutua assistenza dei produttori è un altro tratto da rimettere al centro dell’economia, sostituendo la logica della competizione. I lavori più importanti di Maria Mies, nessuno dei quali purtroppo è disponibile in italiano, sono: Indian Women and Patriarchy (1980), Patriarchy and Accumulation on a World Scale (1986), Women: The Last Colony (1988) con Bennholdt- Thomsen e von Werlhof, Ecofeminism con Vandana Shiva (1993) e insieme a Bennholdt- Thomsen The substistence perspective (1999), da cui sono tratte le citazioni precedenti. Vive a Colonia – l’abbiamo contattata telefonicamente per porle qualche domanda. Storicamente, il processo di sviluppo ha portato agli esseri umani non meno lavoro da svolgere (gli orari di lavoro non sono affatto in diminuzione), ma un lavoro meno faticoso, da questo punto di vista, la prospettiva della sussistenza non è fare un passo indietro? Il miglioramento storico dei processi lavorativi nei nostri paesi industrializzati capitalisti non è affatto avvenuto allo scopo di rendere più leggera la fatica dei lavoratori, ma per poter impiegare un numero minore di lavoratori – con l’automazione – e rendere i profitti più alti. La conseguenza è che oggi dappertutto, anche in paesi come gli Stati Uniti, il numero dei disoccupati è alto come non mai. E tuttavia nella crisi tutti gli stati industrializzati tagliano le spese sociali. Sarebbe progresso questo? Cosa ne pensa della richiesta di un reddito minimo di esistenza per tutti, specialmente per i giovani? Se parliamo di un sussidio in denaro minimo garantito per tutti dobbiamo renderci conto che saranno altri a doverne portarne il peso in termini di lavoro che questo denaro può comperare. Invece in linea di principio non sono contraria a un reddito minimo per tutti. E anche i ricchi, i manager, i banchieri dovrebbero accontentarsi di tale reddito minimo. Inoltre gli imprenditori oggi pagano salari da “precari” perché solo così riescono ad aumentare i loro profitti. I salari dei precari però non bastano nemmeno a coprire i costi dei bisogni essenziali. Molti, soprattutto le donne, devono fare due o tre di questi lavori precari per poter sopravvivere. Inoltre il capitalismo non ha MAI pagato tutto il lavoro prestato. Il lavoro delle casalinghe non è stato pagato, né lo è oggi. Da tempo le femministe si sono occupate di questo problema del lavoro domestico non pagato, vedi i testi di Silvia Federici e Maria Rosa dalla Costa. Quello che oggi è chiamato lavoro “precario” io l’avevo chiamato lavoro “casalinghizzato”. Se tutto questo lavoro fosse realmente pagato completamente, il capitalismo crollerebbe. Oggi anche gli uomini sono costretti a fare questi lavori “casalinghizzati”. Con Veronica Bennholdt- Thomsen scrive che la prospettiva della sussistenza è stata addirittura oggetto di disprezzo da parte di critici di sinistra. Succede ancora? La scuola della decrescita non sta andando nella vostra stessa direzione? La prospettiva della sussistenza è stata criticata dagli uomini di sinistra perché la intendevano come un regresso. Però gli uomini di sinistra intendono con “Progresso” il fatto che tutti gli uomini del mondo ricevano un salario alto quanto quello di un operaio specializzato tedesco. Per ottenere questo, dovremmo avere come minimo un altro pianeta da poter sfruttare. Il nostro pianeta non ha abbastanza risorse per rendere possibile a tutti gli esseri umani avere lo stesso stile di vita che abbiamo nei paesi ricchi, Tuttavia siamo dell’opinione che su questo pianeta ci sia abbastanza per tutti, ma dobbiamo abbandonare il nostro stile di vita fatto di sprechi e chiederci di che cosa e di quanto abbiamo veramente bisogno per vivere una buona vita. La prospettiva della sussistenza non significa povertà ma una vita piena. Meno è di più. Tutti dicono che l’economia deve sempre crescere. È una sciocchezza. Nessun albero può crescere per sempre. Che l’economia capitalistica oggi non “cresca” più non è per me una sfortuna. L’economia odierna deve ridursi se vogliamo mantenere viva nostra madre terra. La fine della crescita però è anche un’opportunità per farci rivendicare delle alternative all’economia che abbiamo oggi. Per me e per le mie amiche questa alternativa si chiama sussistenza

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