COMMUNITY FEMMINISTA

di Ornella Guzzetti. (xxd 13, gennaio 2012)
ABBIAMO CONTRIBUITO A COSTRUIRE E PARTECIPATO IN DELEGAZIONE AL FEMINIST BLOG CAMP DI TORINO DAL 28 AL 30 OTTOBRE 2011. IMPRESSIONI E IMMAGINI DALL’INCONTRO.
I siti e i blog che hanno aderito alla costruzione e alla realizzazione del Feminist Blog Camp erano 45, molti gestiti da entità collettive e altri da una sola persona. Inoltre ci sono state altre 65 adesioni ufficiali. Chi non è potuta venire alla tre giorni ha seguito da casa gli aggiornamenti in Facebook, Twitter e in streaming. Già poche ore dopo la fine del Camp sono cominciati i post sui siti delle partecipanti che rimandavano tutto il calore, la condivisione e la bella atmosfera che si respirava all’Askatasuna. Il centro sociale di Torino ha egregiamente offerto ospitalità per la notte, per i pasti e soprattutto per incontri e workshop, compresa la connessione wi-fi che non poteva mancare visto che la maggioranza delle partecipanti sono assidue frequentatrici della rete, rappresentanti di siti con altissimi livelli di accesso, come Femminismo a Sud, e alcune, come Lorella Zanardo, impegnate anche su altri media.
Quello che le accomuna è l’uso della parola “femminismo” in rete e nelle pratiche di impegno quotidiano. Non è da poco visto che questa parola, tra le donne di ogni generazione, rimanda a vissuti o miti che allontanano piuttosto che unire.
Come ha raccontato Zanardo, tante delle donne che partecipano agli incontri del progetto Il corpo delle donne, nelle scuole o nei centri commerciali, “sono femministe e non lo sanno” e quando intervengono premettono “io non sono femminista”.
In generale al Camp si notava l’assenza della vecchia generazione. L’età media era sui trent’anni, molte precarie e anche una concentrazione sorprendente di “cervelle fuggite all’estero”, ragazze che vivono e lavorano in Spagna, Francia, Germania e si sono fatte il viaggio per incontrare altre donne che conoscevano magari solo virtualmente e riportandosi indietro la sensazione che l’Italia non fa proprio così schifo come quando se ne erano andate.
Leggendo i post pubblicati in rete al ritorno, emerge la sensazione fortissima di un’esperienza vissuta intensamente, la felicità di ritrovarsi tra “simili” ovvero persone con una forte coscienza di genere e attitudine all’attivismo: siamo tornate a casa cariche di suggestioni, con un elenco di libri da leggere, siti da visitare e con molte conversazioni stimolanti che ritornavano a galla insieme ai tanti volti incontrati, ai sorrisi e agli abbracci. Come ha detto una blogger alla plenaria finale: “È stato incredibile venire qui: se dico una cosa, voi la capite, e siete anche d’accordo!”
Eppure le anime erano tante, le storie e le provenienze diverse, i dibattiti e gli scambi sono stati anche di posizione e il confronto continua sulla mailing list che è rimasta attiva dopo l’esperienza di incontro fisico.
Intanto sta producendo degli “effetti collaterali” come la sottoscrizione del documento “No al movimento per la vita dentro i consultori” stilato dal Laboratorio sguardi sui generis di Torino, il sostegno alla lotta per sensibilizzare l’opinione pubblica sul caso 4F in Spagna, drammatica storia di corruzione, arresti ingiusti e morte (#desmontaje4f), la proposta di identificare una parola che possa diventare hashtag condiviso su twitter e iniziare così a mappare in questo modo contenuti e iniziative in rete sul femminismo. È aumentata infine la consapevolezza di tutte sul potere della rete, anche per quella parte di negatività che arriva dalle pratiche di cyberstalking a cui sono sottoposti i siti che parlano di femminismo.
La voglia di ripetere il raduno è emersa in maniera forte, ci si è lasciate con l’interrogativo su dove e quando rifarlo, cosa cambiare e cosa tenere per permettere a tutte di partecipare, per coinvolgere più donne di persona, dalle curiose alle simpatizzanti, e arrivare a tutte le generazioni, anche a quelle che non usano la rete con dimestichezza.

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“HO INIZIATO A VEDERE DELLE COSE”

di Daniela Danna. (xxd 13, gennaio 2012)
LA TESTIMONIANZA DIRETTA DI UNA GIOVANE ATTIVISTA SULLE DINAMICHE DELLA MANIFESTAZIONE DEGLI INDIGNATI DEL 15 OTTOBRE A ROMA E SULLA PRESENZA DI INFILTRATI

Che cosa ti ha colpita di più nella giornata del 15?

Subito mi sono accorta che qualcosa non funzionava nell’organizzazione. Mi sono ritrovata con lo spezzone del Teatro Valle Occupato, dei precari, con la Fiom e Rifondazione, ma i vari spezzoni non erano ben definiti. In teoria partiti e sindacati dovevano stare in fondo – sono stati anche attaccati verbalmente da chi sfilava, non avevo mai visto niente di simile.
C’erano molti gruppi di ragazzi, che avranno avuto 15-16 anni, con dei camioncini piccoli, stazionavano in piazzale Giolitti davanti a Termini e tiravano petardi – non erano bombe carta – e si inserivano anche con forza nel corteo, anche se non erano riconosciuti da quelli che dovevano essere gli organizzatori.
Fatti 200-300 metri, ci han detto che già erano iniziati gli scontri a piazza San Giovanni e io ho iniziato a vedere delle cose. A piazza della Repubblica c’era un gruppo di ragazzi, tutti maschi, vestiti con abiti firmati, con giacchini di marca con i catarifrangenti e che portavano il casco legato alla cinta dei pantaloni. Non mi sembravano facce veramente tanto tranquille e poi non erano assolutamente dei centri sociali o della frangia anarchica: troppi vestiti e scarpe firmate… Ho detto alle persone che stavano con me di allontanarci perché non capivo chi fossero. Ma penso a quelli di Casa Pound e Forza Nuova.
E la stessa cosa l’ho notata durante il percorso. L’unico servizio d’ordine era all’altezza dello spezzone di corteo dei Cobas. Poi c’era chi camminava con gli striscioni, più o meno colorati, e sul marciapiede le persone incuriosite o che aspettavano, e dietro molti gruppi di maschi con i caschi oppure che si stavano preparando coprendosi il volto. Io ne ho fatte tante di manifestazioni, riesco a capire che le persone che sono vicino stanno per fare un’azione perché non si nascondono E siccome lo so mi allontano. Lì invece approfittavano della folla per nascondersi e prepararsi.
I giornali hanno parlato dei black block, ma loro non hanno un fisico palestrato, sono tutti vestiti di nero per il no-logo e facilmente riconoscibili.
E ho notato anche cinquantenni pronti all’azione, con casco e jeans. Secondo me della Digos. Se ne stavano anche da soli lungo il corteo appoggiati alle macchine, ai cassonetti.
A ridosso della zona dove già c’erano stati gli scontri, dove i pompieri già avevano spento l’incendio delle macchine e si occupavano della caserma, c’era un gruppo di cinque ragazzi con le bandiere dell’Italia. Suppongo che questi fossero assolutamente fascisti.

Li hai visti in azione?

No, però ho visto delle cose strane, come questi gruppi così piccoli che si riunivano, parlottavano lungo la strada poi ripartivano in direzioni diverse.
Sempre in zona scontri, c’erano dei personaggi che impaurivano i manifestanti disorientati. Roma è una città grande, non è che tutti quelli che vengono da fuori sanno le strade, e c’erano delle persone che sistematicamente avvertivano: “Attenzione, arriva la carica della polizia!” quindi la gente si spaventava, correva anche in modo confuso, ma non era vero niente. Non c’era nessuna carica della polizia perché eravamo ancora lontani da piazza San Giovanni. E poi dicevano delle cose strane tipo: “Mettetevi tutti contro il muro, è più sicuro”. Come, è più sicuro?
Noi abbiamo calmato queste persone, almeno 300 ragazzi impauriti. Li abbiamo fermati, abbiamo detto di stare tranquilli. Ho fatto 30 anni di stadio, sono abituata a certe dinamiche, ma lì ho visto tante persone che avevano fatto la gita a Roma portandosi la tenda, oppure con i bambini, invece non era assolutamente il luogo adatto per questo. A piazza San Giovanni c’erano anche persone disabili che non immaginavano di trovarsi in mezzo a questa cosa.

Che giudizio dai degli scontri e che effetto politico pensi che abbiano avuto?

A me piacerebbe portare avanti un lotta non violenta, ma per come siamo messi in Italia non è possibile, perché c’è il regime. Non c’è libertà, c’è molta violenza: verbale tutti i giorni dai nostri politici in televisione e poi in parlamento. Un altro tipo di violenza è quella economica, della sottomissione, e poi la violenza del Vaticano, contro la salute soprattutto di noi donne. I loro dogmi ormai sono sentiti come odiosi soprattutto dai giovanissimi, vedi infatti l’accanimento contro la statua della madonnina. Me l’aspettavo che sarebbero successi disordini perché purtroppo alla violenza si risponde con la violenza. Trovo interessante il movimento degli indignati spagnoli, l’Occupy Wall Street, le occupazioni pacifiche delle banche ma essendo noi un paese non libero me l’aspettavo che sarebbe andata a finire così.
La cosa che mi ha turbata è aver capito che c’erano dei gruppi che evidentemente si sarebbero trovati male durante gli scontri, come i precari, che si sono molti impauriti: ce li avevo vicini e non sapevano che fare. Qualcuno si è preso parecchia paura, e mi è dispiaciuto, perché avranno un brutto ricordo di quel giorno e non verranno più la prossima. Io sono andata a Roma convinta che uno spezzone sarebbe andato verso Montecitorio mentre un altro, della Fiom e Rifondazione, a San Giovanni. Chi è andato a San Giovanni si è trovato nella mischia mentre nessuno è andato a Montecitorio, era impossibile. Io non ho capito perché sia successo quel che è successo, e soprattutto a piazza San Giovanni.

Per impedire l’accampamento? Quello è stato un risultato: chi si voleva fermare non ha potuto.

Probabilmente, anche. La cosa più ingiusta è stata il dopo disordini, nessuno si è preoccupato di questo corteo che si è sparpagliato, della gente che è rimasta impaurita in giro. Secondo me dall’alto hanno deciso di portare gli scontri a San Giovanni. Per questo hanno chiuso la piazza. Chi era lì ha detto che ha preso le botte ma non sapeva neanche che cavolo stesse succedendo.

La polizia ha perfino usato i gas Cs, cancerogeni e proibiti dalla convenzione di Ginevra.

Sono gas fortissimi, non c’era nulla da fare. Perché questa violenza? Andavano bene pure quelli vecchi per disperdere la folla. E perché si è deciso di usare quella tipologia lì in quella piazza, dove c’erano anche disabili, donne e bambini?
Lo stato ci fa violenza? Quindi è normale che ci sia stata una risposta violenta, soprattutto dai giovani. Ho sentito di recente un bel discorso fatto da una persona che sarebbe potuta essere padre, che diceva a quelli di Rifondazione: “Voi mi avete stufato, noi abbiamo i figli disoccupati a casa, che cosa dobbiamo fare?” È questa la verità. Io pure sono disoccupata, ho più di 30 anni. Se me l’avessero detto a 20 che avevo il futuro segnato mi sarei comportata in modo diverso.

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SCONTRO TRA GINECOLOGI E MAMME SUL WEB

di Eliana Cabral. (xxd 13, gennaio 2012)
IN SPAGNA VIGNETTE OFFENSIVE APRONO IL DIBATTITO SUL RISPETTO DELLA DIGNITÀ DELLA DONNA CHE SI RIVOLGA ALLA SANITÀ PUBBLICA E PRIVATA E DANNO VISIBILITÀ ALLE MAMME ON LINE
È relativamente poco frequente in Spagna trovare sulle prime pagine dei giornali mainstream notizie che non siano strettamente di politica o economia. Eppure lo scorso 20 settembre il sito internet di El País pubblicava una notizia che fece subito scalpore attraverso i più svariati mezzi di comunicazione. Si rendeva nota la denuncia di un’associazione chiamata Il parto è nostro (www.elpartoesnuestro.es) contro una serie di vignette considerate degradanti verso le donne, pubblicate dalla Sego – Sociedad española de ginecología y ostetricia e visibili sublogelpartoesnuestro.com, post del 19 settembre.
La Sego è appunto la federazione spagnola delle società regionali di ginecologia e ostetricia e rappresenta questa specialità medica davanti allo stato e al resto delle istituzioni pubbliche. Le immagini in questione sono una serie di disegni piuttosto rozzi tanto nella grafica quanto nel senso dello humour, realizzati da uno dei soci membri attorno alla presunta quotidianità degli ambulatori ginecologici e delle loro pazienti. La pubblicazione era avvenuta proprio nel bollettino ufficiale della Sego. L’associazione El Parto es Nuestro ha dunque emesso un comunicato stampa in cui descriveva e denunciava le immagini, dando il via a una veemente polemica, giustificata dall’insensibilità dimostrata verso condizioni patologiche anche gravi: “Ad esempio in una di queste [vignette] si ridicolizza una donna con prolasso uterino”. Ma la critica riguarda soprattutto la rappresentazione di figure femminili: “Si presenta un’immagine della donna basata su stereotipi maschilisti e misogini. Si raffigura la donna come un essere inferiore, poco intelligente, dall’aspetto trasandato. Si ridicolizzano le donne grasse, le prostitute, le donne anziane o di basso livello socioeconomico e culturale”. L’associazione denuncia pure che in questa satira traspare la diffidenza della professione medica verso una serie di accorgimenti, piuttosto recenti, che tenderebbero ad assegnare un maggior potere decisionale alle donne sulla propria salute e sulla maternità: “ricorrono immagini di ‘cattive pratiche’, sconsigliate dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e perfino dalla stessa Sego, che invece qui risultano normalizzate e date per scontate (ad esempio, i parti con la donna sdraiata, nella cosiddetta posizione di litotomia). Si irridono le raccomandazioni della Oms sulla nascita (il consenso informato, il protagonismo attivo della madre nel proprio parto)”. Assai significativamente nelle vignette “si elide la donna come persona dalla scena del parto (in molte rappresentazioni dei parti, della donna si vedono solo i genitali)”.
La polemica sulle vignette è servita a dare visibilità a un problema poco conosciuto per il gran pubblico: la “violenza ginecologica”. Tra le centinaia di commenti pubblicati in proposito su giornali e blog, appaiono per la prima volta cenni sulla realtà, di solito nascosta, delle donne negli ambulatori ginecologici e nelle sale parto della sanità pubblica e privata; sulla violenza psichica e fisica esercitata sulle donne nel “primo mondo” attraverso pratiche e interventi medici generalizzati ma il più delle volte superflui, qualche volta pericolosi, spesso traumatizzanti. Una particolare protesta sorta da questa controversia nell’ambito della blogosfera e delle reti sociali, La revolución de las rosas, aspira a denunciare i maltrattamenti fisici e psichici subiti in silenzio da tante donne negli ospedali pubblici e privati.
La diatriba ha contribuito soprattutto a dare visibilità a problemi che riguardano tutte le donne. Le autrici di queste mobilitazioni lavorano dentro a un flusso magmatico internautico di blog e reti sociali, con figure carismatiche e siti di riferimento, con il punto in comune di una generica preoccupazione per migliorare le condizioni della maternità nei suoi diversi aspetti e nei suoi diversi momenti. In genere parliamo di siti web e blog gestiti da associazioni o da singoli in cui si condividono immagini, idee, racconti, esperienze, consigli, informazioni scientifiche, con il punto in comune della maternità: i contenuti sono difficilmente schematizzabili, ma spiccano certe idee comuni attorno al parto (il meno possibile medicalizzato), la nutrizione (preferenza per l’allattamento al seno, a domanda, prolungato se possibile fino ai due anni e anche oltre) e un certo stile di allevamento (secondo una pedagogia dell’attaccamento). Il movimento è molto eterogeneo e complesso; molto più di quanto non paiano capire i suoi detrattori (che ne definiscono le appartenenti con un lessico che va da “neomachistas” a “feminazis”), assai più suggestionati dall’estetica e dalla retorica esuberante, a tratti mistica, aleggiante in molti siti che non dalle idee effettivamente difese. Immagini e racconti che parlano spesso di una maternità intensa, piena di ormoni, di liquidi, di urla, di passione, di sentimenti contrastanti, di momenti di estasi, di dolore e di piacere, una maternità disinibita raccontata talora in modo molto simile a come si racconta il sesso, e che le autrici stesse definiscono come “naturale” o, più semplicemente, normale.
Nei confronti di questo movimento si sono levate molte voci critiche (tra cui quelle di importanti figure del femminismo): nelle loro argomentazioni si percepisce una diffidenza verso l’idea di naturalità, forse esito della storica e doverosa conflittualità verso le ideologie che legavano le parole “naturale” e “femminile” per relegare le donne in ruoli circoscritti e subordinati. Né manca il sospetto davanti a una proposta che viene associata all’antica patriarcale regola della donna che è in funzione degli altri o non è (in questo caso dei bisogni del proprio bambino). Ci sono state accese discussioni su argomenti molto concreti: circa le tipologie di nutrizione e allevamento dei figli, le preferenze per certe modalità di trasporto dei bambini, l’uso o meno di pannolini riciclabili e così via.
Certo, questi possono essere temi importanti da discutere; eppure si ha la sensazione che, mettendo a fuoco solo questi aspetti, ne siano statI trascurati altri che hanno costituito autentici successi raggiunti dal movimento e che sono d’interesse per tutte le donne. Infatti, come il caso delle vignette della Sego ha mostrato esemplarmente, questi soggetti sono riusciti a porre al centro del dibattito pubblico argomenti di grande importanza, come l’eccessiva medicalizzazione dei processi biologici femminili, o la sistematica sottomissione delle donne a trattamenti medici in cui spesso sono solo figure passive; a rivendicare un ruolo più consapevole e attivo nei processi legati alla maternità; a ripensare altri possibili rapporti col proprio corpo e con la propria sessualità; a rielaborare l’immagine delle donne così come a controllare l’uso che se ne fa nei media. Tutto questo a un livello massivo e in modo totalmente aperto e partecipativo.

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DI CHI E’ IL “NOSTRO” CORPO?

di Stefania Doglioli. (xxd 13, gennaio 2012)
VECCHIE E NUOVE BATTAGLIE SI COMBATTONO SUL NOSTRO CORPO. QUALI FORME DI RIBELLIONE SIAMO ABITUAT* A VIVERE ATTRAVERSO IL NOSTRO CORPO? MA SOPRATTUTTO CONTRO QUALI DIVIETI STIAMO LOTTANDO? LI CONOSCIAMO TUTTI? E QUAL È IL SIGNIFICATO?
C’è chi decide di donare il sangue, rifarsi il naso, ingrandirsi il seno, togliersi chirurgicamente la ciccia, E fin qui nulla di strano (almeno per il senso comune). C’è chi decide di cambiare sesso – con terapia ormonale annessa e obbligatoria in molti Paesi del mondo – oppure mettere a disposizione le proprie cellule o il proprio cadavere per la ricerca scientifica. E già le cose si complicano fino a ingarbugliarsi del tutto per chi decide di liberarsi delle mestruazioni togliendosi le ovaie, rimuovere i testicoli, farsi estrarre tutti denti, donare un ovulo o il proprio utero. Ci sono interventi che ci possono portare sulla passerella di una sfilata di moda o tra i* benefattor* di questa nostra società ed altri che ci etichettano come ribelli o ci possono addirittura portare in tribunale. Che cosa possiamo o non possiamo fare con il nostro corpo? La risposta a questa domanda non è affatto semplice.
Le occasioni in cui si parla del corpo si stanno moltiplicando – pratiche e discorsi scientifici, dibattiti sociali, laboratori, scuole politiche, seminari. Eppure non si capisce mai bene di quale corpo si stia parlando. Il motto “il corpo è mio e lo gestisco io”, tanto caro alle femministe della Seconda ondata, sta assumendo nuovi significati? Quando le femministe affermavano: “modificazione di sé e modificazione del mondo” quanto erano vicine ai più contemporanei movimenti di body art?
La disponibilità dell’uso del corpo è variabile. Lo scorso settembre in Gran Bretagna è stata avviata una nuova sperimentazione che prevede il trapianto temporaneo di utero per chi ne è sprovvista e vuole un figlio biologico. In molti paesi si sperimenta e si discute il trapianto di utero permanente.
Questa sperimentazione suggerisce quindi che è legale modificare il proprio corpo, correndo grossi rischi, per cercare di avere figl*, mentre per esempio non ci si può fare togliere ovaie e testicoli, per ragioni diverse dal cambio di sesso pur non correndo alcun rischio, come i protagonisti del documentario Eunuchi americani. Un altro esempio molto recente di che cosa si possa o non si possa fare con il proprio corpo arriva dalla Scozia dove, sempre lo scorso settembre, sono stati tolti quattro figli, poiché obesi, a una coppia di genitori che dopo avere seguito insieme ai propri figli un programma di “recupero della linea” non era riuscita a garantire uno stile di vita alimentare più adeguato, dal punto di vista della salute, alla propria famiglia. In Italia la notizia è stata data come fatto di costume, sorridendone e ritenendolo un eccesso. Considerare l’obesità infantile, che provoca problemi di tipo respiratorio, articolare, disturbi all’apparato digerente e psicologici e costituisce fattore di rischio per problemi cardiocircolatori, muscoloscheletrici, metabolici e lo sviluppo di tumori, qualcosa di differente da maltrattamenti o incuria, cause correnti per l’affido familiare, non può essere considerato costume.
Per analizzare il problema di che cosa si possa fare o meno con il proprio corpo è necessario sapere che In Italia questi interventi sul corpo sono permessi legalmente: chirurgia plastica (che comprende anche la mastoplastica additiva fino a proporzioni dannose per il benessere fisico), si possono donare gli organi, vengono praticate vere e proprie mutilazioni, alla nascita, su corpi intersessuati; si può cambiare sesso e certamente donare il sangue, ma questo non è proprio per tutt*. Inoltre cellule e tessuti umani oggi costituiscono la materia prima di una consistente parte di tutte le ricerche di ingegneria genetica applicata alla medicina e alla farmacologia. E gran parte delle società che operano nel settore dell’ingegneria genetica fanno correntemente uso di tessuti umani per lo sviluppo dei loro prodotti. È perfino possibile, e qualcun* lo fa, togliersi tutti i denti, dal momento che questa particolare condizione non viene considerata una malattia, oppure, pratica più frequente, limarseli per ottenere forme particolari con conseguenze sulla masticazione e sulla postura. Si interviene legalmente sul corpo, per esempio, anche con parti cesarei inutili e invasivi. Senza contare che l’anoressia è quasi un modello, il sovrappeso un problema estetico. Si può donare il corpo alla scienza dopo la morte. Ci sono normative sempre più diffuse che tendono a considerare il cadavere un bene socialmente disponibile per qualsiasi uso. Sono poi permessi capi di abbigliamento che deformano il corpo o sono rischiosi per la salute. Per esempio non è mai stata fatta una legge che vieta l’uso di un tacco di dodici centimetri che conduce a cambiamenti della postura e della biomeccanica corporea con degli adattamenti in genere peggiorativi nel tempo, ma perfino un reggiseno sbagliato può provocare disturbi cervico-brachiali, le tensioni alla cintura scapolare, nella zona cervicale e della nuca, mal di testa, disturbi alla vertebra cervicale, ma anche il mal di schiena nelle zone più basse della colonna vertebrale. Alcuni tessuti provocano dermatiti irritative e da contatto e attualmente la sicurezza dei prodotti viene garantita solamente da standard privati e dalla regolamentazione di alcune sostanze, e non di tutte quelle nocive.
Infine è legale, in una certa misura, obbligare il corpo, nel lavoro, a posture e ambienti che ne minano l’integrità e ne modificano l’aspetto e la salute. Il Testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (ex 626) ha lo scopo di migliorare le condizioni di lavoro e diminuire i rischi per la salute ma non copre tutti i rischi di malattie del lavoro. Il rischio zero non esiste, dicono i legislatori. E da una parte è vero, eliminare ogni rischio per certi lavori significa impedire del tutto l’esecuzione del lavoro ma in questo buco ci finiscono le opportunità economiche che fanno si che il testo unico abbia migliorato la vita dei lavoratori senza però garantirgli la salute in tutto e per tutto.
Ci sono poi dei divieti ben precisi: Il suicidio assistito è illegale, non è possibile assumere ormoni diversi da quelli del proprio sesso biologico prevalente (a meno che non si sia inseriti in un programma per il cambio di sesso), mutilazione di arti, l’isterectomia, la mastectomia. Inoltre è vietato togliersi i testicoli, donare ovuli, sottoporsi ad alcune forme di fecondazione, la maternità surrogata, le Mtf (mutilazioni/modificazioni genitali femminili), alcune forme di modificazione chirurgica del corpo come tongue splitting, subincisioni, body implants.
Del nostro corpo quindi non possiamo fare ciò che vogliamo. Perché? Le sociologhe e i sociologi ci hanno detto da ormai molto tempo che Il corpo è un fatto sociale, il corpo esprime integrazione o ribellione, cambiamento, bisogni, identità. Il corpo può mettere in discussione l’ordine sociale. È la risposta che stavo cercando?
La legge giustifica i divieti in nome dell’integrità del corpo: l’articolo 5 del Codice civile dice che gli atti attraverso i quali disponiamo del nostro corpo sono vietati quando procurano una diminuzione permanente dell’integrità fisica o quando sono contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume. Ma alcune pratiche considerate legali come ad esempio la chirurgia plastica estrema, le operazioni su corpi neonati intersessuati, le donazione di organi che compromettono l’integrità del corpo, non vanno forse contro questa legge? E poi: non è semplice definire l’integrità laddove l’esistenza dei cittadin* disabili induce a rivederne il concetto nel momento in cui ci ha permesso di considerare il corpo “standard” come diverso e non necessariamente migliore nelle sue capacità esperienziali e di costruzione di significati e identità. E proprio sull’identità il femminismo ci ha insegnato a considerare diversamente l’idea di libertà, che è libertà di essere, la libertà prima di tutto di ritrovare una identità, diversa da quella proposta dalla cultura dominante a partire principalmente dalla riflessione sul corpo.
Il corpo è spesso, a nostra insaputa, un campo di battaglia, modellato dagli scontri fra gruppi con valori differenti e diversi interessi politici ed economici. Attraverso il corpo esprimiamo la nostra storia personale e quando questa è differente da quella desiderata dalla cultura dominante della società in cui viviamo, viene ostacolata, censurata, negata ma anche modificata e corrotta, plasmata su ideali che potrebbero non appartenerci e/o che ci danneggiano.
Se il corpo è costruito socialmente è la cultura dominante a determinarne forme e funzioni. Se si analizzano i divieti legali si nota che ciò che viene normato è essenzialmente la vita, con il divieto all’eutanasia ad esempio, e la riproduzione, per esempio con il divieto ad alcune pratiche di fecondazione, all’asportazione di ovaie, utero e testicoli, assolutamente non indispensabili alla vita del corpo, ma fondamentali per la vita della società, la cui riproduzione culturale è assicurata anche attraverso la limitazione di interventi sul corpo che ne disegnano forme o funzioni differenti da quelle dello status quo. Si permette la transessualità a patto che sia accompagnata da sterilità (e l’ammissione di avere un disturbo psichico) perché, in genere, permette di ribadire la dicotomia sessuale normativa.. Con questo stesso scopo si promuove la trasformazione di corpi intersessuati, con vere e proprie mutilazioni. Si cerca inoltre di limitare gli interventi sul corpo che affermano la diversità, molte pratiche della body art, impianti sottocutanei, tongue splitting, scarificazioni, attraverso il divieto al di fuori della pratica medica laddove la medicina ufficiale non si è ancora avvicinata a questo tipo di interventi nonostante si presti a modificazioni corporee, attraverso la chirurgia plastica, spesso estremamente rischiose e dannose per la salute. È assolutamente evidente come quest’ultima serva a confermare le persone in un canone estetico imposto dagli standard moderni di bellezza, l’altro, al contrario, serva ad allontanarsi da ciò che comunemente viene considerato bello.
Il corpo sociale teme dunque la morte e i desideri che non può controllare. È questa ansia di morte che ci troviamo di fronte quando proponiamo nuovi sistemi sociali. In un interessante saggio di Enrico Pozzi ho letto: “si può fare quasi di tutto ad un corpo purché rimanga vivo e purchè l’azione che si compie abbia la funzione di socializzare: lo si può penetrare, deformare, marchiare, chiuderne gli orifizi o aprirne di nuovi, ma non si può consapevolmente ucciderlo”. Ed infatti tutto ciò che non mette in pericolo l’esistenza dell’essere umano o della forma sociale in cui vive, abbiamo visto, è permesso.

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STRISCIANDO SULLA SCALA PER IL PARADISO

di Lucy Van Pelt. (xxd 14, marzo 2012)
INTERVISTA ALLE RAGAZZE DI ROCK WITH MASCARA: ALICE CUSI E ANNALISA LIUZZI
Rock With Mascara è un movimento indipendente e autofinanziato che riunisce band italiane femminili o a prevalenza femminile che suonano musica rock, con l’intento comune di organizzare serate live in cui manifestarsi per quello che sono, cioè musiciste. Essere sul palco e allo stesso tempo essere considerate musiciste non è volte sono viste e/o presentate come una cosa fuori dal normale. Dietro questo loro impegno c’è anche la volontà di sensibilizzare riguardo a temi come la discriminazione di genere e la violenza sulle donne, grazie anche al sostegno dell’Unione Donne Italiane e al gemellaggio con il collettivo RRRagazze in RRRivolta. Com’è nato e da che esigenza sorge il movimento Rock with Mascara? Il movimento RWM è nato nel 2005 dalla nostra collaborazione con le Roipnol Witch. Abbiamo condiviso con loro alcune serate live, durante le quali, scambiandoci le nostre esperienze di musiciste donne, è nata la volontà di creare una rete di collaborazione e sostegno reciproco fra gruppi femminili, oltre che un’amicizia. Abbiamo quindi cominciato a unire le forze e a organizzare le nostre serate, inizialmente solo con le nostre due band; nel frattempo è nata una rubrica radiofonica condotta dalle Roipnol Witch su Radio Lupo Solitario e su K-Rock da Mono. Con il tempo, poi, ci è capitato di conoscere, apprezzare e coinvolgere man mano sempre più gruppi, fino ad arrivare al 2010, anno in cui RWM, presente con uno stand al MEI di Faenza, ha pubblicato e distribuito la sua prima compilation e incominciato un vero e proprio tour, che tuttora continua a portare le band del consideriamo molto importante, è quello delle Guerrilla Girls, che ha ispirato il collettivo RRRagazze in RRRivolta nelle forme espressive provocatorie. Parlateci dei gruppi che fanno parte di Rock with Mascara, dandoci anche dei riferimenti per dove ascoltare le vostre produzioni. I gruppi di RWM provengono da tutta l’Italia e fanno generi musicali diversi, anche se tutti rock. Credo che questo sia un punto di forza del movimento, poiché le serate RWM non sono mai dominate da un solo sottogenere, ma possono conciliare anche gusti diversi. In Emilia ci siamo noi Kyuuri, con il nostro live a prova di orecchie e un po’ “teatrale”, e le Roipnol Witch con i loro suoni sognanti e il loro stile inconfondibile, poi le movimento sui palchi di tutta l’Italia. Musicalmente e per le vostre tematiche vi siete ispirate al riot grrrl o c’è anche altro che vi ha influenzato? Ci sono influenze musicali molto variegate. il rock alternativo dei primi anni 90 è in generale presente in tutte noi. Poi, in quanto donne, è stato per noi naturale, istintivo, ricercare nei nostri ascolti, a un certo punto della nostra vita, i gruppi di donne che facevano musica in quel periodo e condividerne le tematiche, che sono ancora attuali. Anche la creazione di una rete di collaborazione, che agisce in maniera indipendente e “Do It Yourself”, è un aspetto che accomuna RWM e RRRagazze in RRRivolta a quel movimento. Un altro movimento che Mumble Rumble, attive da più di 20 anni, tecnicamente indiscutibili e sempre più “cattive”, c’è la carica di energia delle Dogs Don’t Like Techno e il rock più impegnato delle LeiBei, le divertentissime Eggs Salamini e l’attitudine punk delle Don’t Tell Mama. In Lombardia le carichissime Steri Strip e il punk delle Anphetamina C; in Veneto le Doppie Punte con le loro acconciature (musicali) elettriche, in Toscana le distortissime Kill the Nice Guy e le regine del garage Cleopatras, fino alla Puglia con le cattivissime (preciso, per me è un supercomplimento) Shotgun Babies. Potete ascoltare alcune delle nostreproduzioni sul sito www.myspace.com/rockwithmas caranight, altrimenti digitare Rock with Mascara su Facebook e visitare la pagina del movimento e le pagine correlate delle band. Rock with Mascara è sostenuto e gemellato con il collettivo RRRagazze in RRRivolta, fondato dalle Kyuuri. Qual è il tipo di attività e promozione di RRRagazze in RRRivolta? RRRagazze in RRRivolta è un collettivo che ha come obiettivo quello di decostruire gli stereotipi di genere di stampo patriarcale e mediatico attraverso la produzione di materiali informativi provocatori e la promozione dell’arte femminile, in particolare la musica. Ancora troppo spesso viviamo una condizione di discriminazione e svalutazione nella maggior parte degli ambiti sociali e, stanche di sentirci mortificate e strumentalizzate, abbiamo deciso di canalizzare la nostra “rabbia” in qualcosa di costruttivo che potesse essere in grado di modificare, attraverso l’informazione e la conoscenza, lo stato degradante delle cose. Le attività principali sono attualmente la partecipazione in quanto collaboratrici esterne di Eleonora dall’Ovo al programma “L’altro Martedì” su Radio Popolare Milano, la produzione di volantini provocatori riguardo “I vantaggi dell’essere una donna musicista”, la partecipazione e promozione a tutti gli eventi di Rock With Mascara e l’attacchinaggio rrrivoltoso dei volantini sulle spalle delle persone che incontriamo ai concerti. Durante la stagione 2011/2012 il RWM è diventato anche una rassegna mensile al Rocket, uno dei club di riferimento per la musica alternativa italiana e straniera a Milano. Come mai, secondo voi ultimamente si parla tanto di rock al femminile? Credo che sia molto importante il modo in cui si parla di gruppi musicali femminili e non tanto il “quanto”. Purtroppo viviamo la discriminazione non solo quando la stampa, i media, i gestori dei locali, le etichette, le agenzie di booking ci rifiutano, ma anche nel momento in cui considerano unicamente le peculiarità biologiche (la nostra vagina sembra avere un grrrandissimo potere commerciale!!) dimenticandosi del nostro lato artistico. Non sai quante volte ci è capitato di finire a suonare in locali che alla prima distorsione ci chiedevano di abbassare i volumi ammettendo di non aspettarsi un genere così da delle “signorine”. Jessica Dainese nel suo libro Le Ragazze del Rock dedica diverse pagine ai gruppi che fanno parte di Rock With Mascara. Secondo voi è l’ennesima novità di mercato o un interesse reale per le produzioni artistiche al femminile? Credo che dipenda molto dai casi. Per Jessica sono assolutamente convinta che non si tratti di una trovata commerciale, ho avuto modo di conoscere sia lei che Oderso (ndr Rubini, produttore, manager, fondatore di Italian Records) e il loro impegno nella promozione delle band femminili non si limita a questo libro, ma ha origini lontane. Purtroppo, però, sono ancora moltissimi i casi in cui veniamo strumentalizzate: basta guardare la maggior parte dei volantini che i locali distribuiscono per pubblicizzare le nostre serate. Ci tocca leggere cose del tipo “La prima serata tutta al femminile” oppure “La prima band tutta al femminile”. È strano, siamo considerate tutte delle pioniere anche dopo decenni di attività musicale! Speriamo davvero che con le nostre azioni le persone e gli addetti ai lavori inizino a rendersi conto della situazione discriminatoria che è in atto nel nostro paese. La strada da fare è ancora molto lunga purtroppo, ma noi non ci arrendiamo di certo davanti a queste difficoltà!

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CAZZI E POLITICA

di Michele Poli. (xxd 14, marzo 2012)
A TORINO SCRITTE SUL MURO DI UN CENTRO FEMMINISTA. VENGONO CANCELLATE E OSTINATAMENTE RICOMPAIONO. UN NON INSIGNIFICANTE EPISODIO DI GUERRIGLIA CONTRO LE DONNE
Nel novembre del 2010 il comune di Torino ha assegnato al Centro studi e documentazione pensiero femminile la sede di C.so San Maurizio 6: questa decisione a qualcuno non è piaciuta. Ma partiamo dall’inizio. Il Centro è nato nel 1955, grazie a un gruppo di donne, studiose, docenti universitarie e giornaliste, che ha voluto raccogliere il materiale prodotto dal femminismo in Italia, per classificarlo, conservarlo e metterlo a disposizione di studiose e studiosi. Risulta evidente, almeno, a chi non è misogino, che conservare e trasmettere la memoria delle donne, valorizzandone il loro pensiero e la loro storia, significa valorizzare la storia di tutti, quindi, uomini e donne. Dunque, l’assegnazione ha consentito alla biblioteca, impossibilitata a sostenere il costo di un affitto, di evitare la chiusura e la conseguente dispersione del patrimonio di documentazione femminista. Ebbene, nell’ultimo anno mani ignote, che fatico a non immaginare maschili, hanno iniziato a riempire i muri esterni e la porta di accesso del centro con scritte ingiuriose contro le donne e con disegni stilizzati di genitali maschili. Questi disegni minacciosi e invasivi, tra l’altro tracciati su un palazzo protetto per il suo valore storico-artistico, hanno cominciato a diffondersi a ondate su tutta la facciata. Ciò ha comportato l’annullamento di alcuni seminari aperti alla cittadinanza per evitare a student* e insegnanti il passaggio in tali forche caudine, ma ha avuto anche altri effetti probabilmente desiderati dai violenti aggressori. Infatti alle donne del Centro, ovviamente preparate ad affrontare le discriminazioni di genere, non è certo sfuggito che: “Questa tradizionale usanza maschile di minacciare con parole come puttana o similari è fortemente connotata in senso sessuato: ci vogliono marcare con la scritta ‘troie’ come forma di svalutazione, come forma di controllo che passa attraverso la riconduzione a corpo”, dichiara la presidente dell’associazione femminista Gabriella Rossi. A chi scrive pare che questi individui, che antepongono cazzi e insulti alle proprie ragioni, vogliano colpire un luogo simbolo del femminismo e siano capaci solo di fare cazzate, non essendo in grado di esprimere un’idea o un pensiero. Mi auguro che questo gesto ripetuto non sia opera di qualcuno che suppone di avere maturato un diritto a gestire quel luogo in virtù di precedenti occupazioni, che magari si sente unico portatore della voce del dissenso, senza in alcun modo ravvisare nella battaglia per la libertà delle donne una comune e condivisa lotta per cui valga la pena spendersi. Un’ipotesi che pesca del fallimento della politica come la si è pensata fino ad ora, non solo della politica istituzionale, ma anche di alcuni movimenti spontanei mai in grado di raccogliere le giuste istanze delle donne, ovvero della metà della popolazione della dispersione del patrimonio di documentazione femminista. Ebbene, nell’ultimo anno mani ignote, che fatico a non immaginare maschili, hanno iniziato a riempire i muri esterni e la porta di accesso del centro con scritte ingiuriose contro le donne e con disegni stilizzati di genitali maschili. Questi disegni minacciosi e invasivi, tra l’altro tracciati su un palazzo protetto per il suo valore storico-artistico, hanno cominciato a diffondersi a ondate su tutta la facciata. Ciò ha comportato l’annullamento di alcuni seminari aperti alla cittadinanza per evitare a student* e insegnanti il passaggio in tali forche caudine, ma ha avuto anche altri effetti probabilmente desiderati dai violenti aggressori. Infatti alle donne del Centro, ovviamente preparate ad affrontare le discriminazioni di genere, non è certo sfuggito che: “Questa tradizionale usanza maschile di minacciare con parole come puttana o similari è fortemente connotata in senso sessuato: ci vogliono marcare con la scritta ‘troie’ come forma di svalutazione, come forma di controllo che passa attraverso la riconduzione a corpo”, dichiara la presidente dell’associazione terra. Riflettendo con queste donne ho percepito che la società non sembra preoccuparsi per questa sorta di stalking politico. A chi si rifiuta di comprendere la gravità dell’atto, porgo l’invito a immaginare la propria casa ricoperta di simboli che contraddicono e umiliano anche uno solo dei propri desideri custoditi nel proprio animo. Tra l’altro, non è certo questo il solo luogo delle donne a essere minacciato in Italia: ad esempio una violenza ancora più grave sta colpendo la sede di incontro delle femministe e delle lesbiche di via Dei Volsci 22 a Roma, intimorita con diversi attacchi esplosivi che hanno danneggiato in maniera grave la porta e l’interno della sede. Se penso a cosa può spingere degli uomini a compiere questi atti e quali vissuti li abitano, giungo a conclusioni che mi fanno paura. Come maschio, mi sembra che il pensiero che li muove sia che le donne meritano solo cazzi, provocando la sensazione di “disconoscimento politico totale”, così come mi racconta Rossi. Inoltre, è disperante pensare a compagni del mio stesso genere, incapaci di esprimere il proprio pensiero attraverso la dialettica o azioni positive, e per tali motivi, testimoni solo di una totale mancanza di valori. Mi preoccupa che molti uomini non riconoscano dignità alla controparte, qualunque essa sia, alimentando un ciclo senza fine di disconoscimenti reciproci delle istanze di ciascuno. Perché sempre quando si minacciano le donne si usa il fallo? Appare scontato che molti uomini ritengono che l’esibizione o la rappresentazione del proprio membro, ossia l’ostentazione della mascolinità stereotipata e vuota di contenuti, possa inequivocabilmente decretare l’inferiorità delle donne. Di certo, vedere i miei genitali usati come minacce non mi aiuta a pensarli con gioia e, a causa di quegli uomini che fanno del pene un simbolo improprio, mi vengono mille dubbi su come la cultura patriarcale mi abbia indotto a concepirli e a usarli. Se cresco in un immaginario maschile in cui il fallo è strumento di violenza, come posso poi avvalermene coerentemente con la donna o l’uomo che amo? Se la dignità maschile passa attraverso il bisogno di mortificare e umiliare pubblicamente significa che è ben poca cosa in se stessa. Nel gioco delle politiche e delle strategie di potere, spesso gli Stati aggressori cercano consenso proclamando un’identità condivisa, in nome della quale invadono o reprimono chi ne viene escluso; mi sembra che in qualche modo si riproponga lo stesso copione repressivo contro le donne, opponendo loro una pseudoidentità di genere di riferimento, ovviamente maschile. Alimentati da ideali privi di aggancio con il quotidiano, sovente, gli uomini finiscono per adottare gli stessi sistemi iniqui di coloro che criticano, poiché non vedono la luce che apporta nelle relazioni la politica della differenza e il conseguente rispetto della diversità, proprio quello che il Centro in questione intende promuovere. Sono convinto che questi uomini non comprendano fino in fondo gli effetti che provocano: “senso di impotenza” e “tanta rabbia”, come riferiscono le donne, frustrazioni che nessun uomo vorrebbe mai vivere. Contro questo “atto di violenza che mi ha rotto qualcosa dentro” – parole di una di loro tanto vicine anche al mio sentire – spero in una decisa reazione della società civile che vada oltre la semplice solidarietà. Occorre una buona volta promuovere, proprio con l’aiuto di donne come queste e come tante altre, la fattibilità di una società di donne e di uomini, capaci di diventare adulti senza essere in conflitto tra loro, con se stessi, con il mondo.

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SPORTELLO DONNA 24ORE

di Oria Gargano. (xxd 14, marzo 2012)
A ROMA PRESSO IL SAN CAMILLO FUNZIONA UNO SPORTELLO ANTIVIOLENZA MINACCIATO DI CHIUSURA DALLE POLITICHE DI TAGLI ALLA SPESA SOCIALE. LA PRESIDENTE DELLA COOPERATIVA NE PARLA A XXD
Quando una convenzione finisce il servizio che ne è oggetto in genere termina. Ma quando è scaduto l’accordo tra l’azienda ospedaliera San Camillo Forlanini – uno dei più grandi ospedali di Roma – e la cooperativa sociale Be Free, le cose sono andate in un altro modo. Perché “Sportello DonnaH24” non è un ufficio che si può abbandonare spegnendo una luce e chiudendo una porta. Abbiamo aperto quella porta e abbiamo acceso quella luce il 1 novembre del 2009. Ci siamo guardate intorno: era tutto perfetto. Soprattutto, la collocazione: nel cuore del pronto soccorso generale, con una porta che si apre nella sala d’aspetto, discreto invito alle donne che trascorrono i tempi, sempre lunghi, dell’attesa, nel caso sentano di avere qualcosa da dirci (da qui il tono anodino dell’insegna, che non fa riferimento alla violenza, che non stigmatizza chi bussa al cospetto degli altri); e un’altra entrata direttamente dal triage, il luogo in cui, a meno che non si sia bambini, si entra senza essere accompagnati da nessuno. Percepivamo che questa collocazione sarebbe stata vincente. Ma contemporaneamente ci sentivamo come sospese su un’isola, in un contesto estraneo, dai ritmi scanditi dall’urgenza, con il chiasso, la concitazione, le urla di dolore, le acuzie, l’imprescindibilità e la delicatezza delle cure, spesso volte a evitare possibili esiti fatali. Non immaginavamo che la nostra piccola zattera ci avrebbe guidato sicura in quel mare magnum di ansie e dolore, e ci avrebbe dato la possibilità di “caricare su” oltre settecento donne vittime di violenze. Nell’assoluta maggioranza, da parte del partner. Quello stesso partner che le aveva accompagnate all’ospedale e che era fuori nella sala d’attesa del pronto soccorso con la sua falsa premura stampata in volto. Ma nell’ambiente protetto del triage era avvenuto un fenomeno incredibile: il personale medico aveva avuto attenzione per loro, aveva colto alcuni indicatori, e le aveva indirizzate a noi. Tutto questo non è accaduto per miracolo: c’è voluto molto lavoro di strutturazione e organizzazione interna, molta attenzione ai processi operativi, comunicativi e relazionali, sia interni che esterni al gruppo, molta chiarezza sugli obiettivi e sulle metodologie di lavoro. Perché SPORTELLODONNAH24 è donne che trascorrono i tempi, sempre lunghi, dell’attesa, nel caso sentano di avere qualcosa da dirci (da qui il tono anodino dell’insegna, che non fa riferimento alla violenza, che non stigmatizza chi bussa al cospetto degli altri); e un’altra entrata direttamente dal triage, il luogo in cui, a meno che non si sia bambini, si entra senza essere accompagnati da nessuno. Percepivamo che questa collocazione sarebbe stata vincente. Ma contemporaneamente ci sentivamo come sospese su un’isola, in un contesto estraneo, dai ritmi scanditi dall’urgenza, con il chiasso, la concitazione, le urla di dolore, le acuzie, l’imprescindibilità e la delicatezza delle cure, spesso volte a evitare possibili esiti fatali. Non immaginavamo che la nostra piccola zattera ci avrebbe guidato sicura in quel mare magnum di ansie e dolore, e ci avrebbe dato la possibilità di “caricare su” oltre settecento donne vittime di violenze. un’esperienza unica in Italia e quasi unica al mondo, e dunque non esistono teorie e pratiche cui fare riferimento, perché costringe a calare l’intervento in un contesto particolare che sconvolge ogni idea di setting, perché è un lavoro duro in un contesto difficile, perché aggredisce l’operatrice con questioni profonde che riguardano la vita e la morte e le avvengono accanto. Ma la motivazione, l’appartenenza, la forza dello stare insieme ci ha condotto verso altro. Verso la sorpresa della donna vittima di violenza che scopre un servizio simile in un’istituzione che lei reputa, giustamente, importantissima, e allora si dice che il fenomeno della violenza e di assistenzialismo che tiene bene le distanze da cui lo consideriamo connotato, noi che riteniamo la competenza un valore imprescindibile nell’accoglienza alle donne vittime di violenze, perché la sua mancanza svaluta il problema in sé – che non è poi così focale, se chiunque se ne può prendere carico. Noi che non ci sottraiamo mai alla polemica con chi sottopaga le operatrici sociali e ne sfrutta l’entusiasmo a fini ignobili. Noi che riteniamo che si possa agevolare l’empowerment delle persone solo se si è a propria volta riconosciuti e tutelati. Questa che sembra una contraddizione è per noi una forma di resistenza. Il nostro sinergia sempre più stretta con l’Ospedale, la stesura di protocolli condivisi sul maltrattamento in famiglia e sullo stupro, la messa a punto di un sistema informatico di raccordo tra le cartelle mediche stilate dal triage e le relazioni di SPORTELLODONNAH24. Non si può interrompere un sogno, soprattutto quando è un sogno che è giusto rendere disponibile a tante altre donne. Per questo siamo ancora là. Senza soldi, in effetti. Noi che detestiamo il volontariato per quell’appiccicume di buon cuore deve aver per forza una dimensione enorme, se l’ospedale rende questo servizio, e forse allora la sua situazione di donna maltrattata non dipende dalla propria dabbenaggine, ma è un fenomeno sociale. Verso il sollievo della ragazza stuprata che si trova materializzata accanto, nel suo peregrinare tra i reparti, una donna non-medica che le parla con parole inaspettate. Verso il coraggio di tutte quelle che hanno sporto denuncia, e hanno conosciuto avvocate che non ritenevano potessero esistere. Verso più di settecento sorrisi, prima mischiati alle lacrime, e poi via via più sicuri. E nel contempo la sinergia sempre più stretta con l’Ospedale, la stesura di protocolli condivisi sul maltrattamento in famiglia e sullo stupro, la messa a punto di un sistema informatico di raccordo tra le cartelle mediche stilate dal triage e le relazioni di SPORTELLODONNAH24. Non si può interrompere un sogno, soprattutto quando è un sogno che è giusto rendere disponibile a tante altre donne. Per questo siamo ancora là. Senza soldi, in effetti. Noi che detestiamo il volontariato per quell’appiccicume di buon cuore e di assistenzialismo che tiene bene le distanze da cui lo consideriamo connotato, noi che riteniamo la competenza un valore imprescindibile nell’accoglienza alle donne vittime di violenze, perché la sua mancanza svaluta il problema in sé – che non è poi così focale, se chiunque se ne può prendere carico. Noi che non ci sottraiamo mai alla polemica con chi sottopaga le operatrici sociali e ne sfrutta l’entusiasmo a fini ignobili. Noi che riteniamo che si possa agevolare l’empowerment delle persone solo se si è a propria volta riconosciuti e tutelati. Questa che sembra una contraddizione è per noi una forma di resistenza. Il nostro stare a SPORTELLODONNAH24 senza convenzione da ormai più di tre mesi è in realtà un presidio dei diritti delle donne che continuano a venire, la nostra è una scelta attiva, non certo un olocausto di noi stesse sull’altare di un simulacro vuoto. La luce dell’ufficio l’abbiamo lasciata accesa anche di notte, per scrivere un report sulla nostra esperienza. Quel report è diventato un libro, edito da Sapere solidale che è la nostra casa editrice, e che ha come titolo “No, non sono scivolata nella doccia”. Quel libro contiene tutti i dati della nostra esperienza, dà conto di tutte le situazioni che abbiamo affrontato, riporta le caratteristiche delle donne, degli autori delle violenze, dei contesti, dei meccanismi, dell’interazione con il personale medico, e le nostre riflessioni, i nostri dubbi, le nostre paure. Abbiamo reso pubblico tutto quello che la società borghese tende a nascondere o a mimetizzare – noi che abbiamo dovuto imparare a fare i colloqui nei luoghi in cui il dolore rende nude, in ogni senso, noi che siamo riuscite a restare insieme e intatte. Da quel libro è nato un convegno, il 13 gennaio scorso, e tantissimi decisori delle politiche nazionali e locali sono venuti lì a sentire, cosa è SPORTELLODONNAH24, e non cosa è stato, e quasi tutti si sono impegnati ad attivarsi perché questa esperienza non finisca. Era quello che volevamo, adesso stiamo vigili a verificare le tante promesse. Quando una bella esperienza finisce si possono fare due cose: disperarsi, o agire. Noi siamo per l’agire politico, sempre!

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LA CITTA’ DEGLI UOMINI

di Maria Pia Ercolini. (xxd 14, marzo 2012)
SU FACEBOOK NASCE IL PRIMO GRUPPO DI TOPONOMASTICA FEMMINILE. OBIETTIVO: MAPPARE I LUOGHI INTITOLATI ALLE DONNE E FARE PRESSIONE SULLE AMMINISTRAZIONI PERCHÉ DIVENTINO SEMPRE DI PIÙ
Se la storia ha cancellato gran parte delle protagoniste femminili della nostra società, la geografia le ha certamente dato manforte: ben pochi luoghi conservano visibili tracce delle donne che li hanno vissuti. Le città pullulano di uomini illustri, regnanti e politici, pensatori e scienziati scolpiti nel marmo, fusi nel bronzo, incisi nelle targhe stradali. A far loro compagnia, un esiguo numero di donne, per lo più madonne, sante e religiose. Per censire e rendere noti i dati sul sessismo urbanistico oggi, nasce su Facebook “Toponomastiche femminili” (http://www.facebook.com/gro ups/292710960778847) un gruppo di lavoro che raccoglie ricercatrici volontarie d’ogni regione d’Italia, pronte a ispezionare capillarmente il territorio, a contare il numero di strade intitolate a donne e a uomini e a fare pressioni sulle amministrazioni affinché nuove strade, piazze, giardini e scuole siano intitolate alle donne. A tre settimane di vita, il gruppo conta circa 500 aderenti, che pubblicano regolarmente risultati e commenti alle ricerche. Si scopre così che Napoli non ha memoria delle donne della sua Repubblica rivoluzionaria, ma preferisce ricordare madonne, sante, religiose, mantenute, favorite e mamme; che Roma omaggia le sue donne nei quartieri più nuovi e nei viali interni ai parchi, continuando a esprimere un sostanziale disinteresse per le eccellenze femminili; che Firenze è invece più sensibile, e dal 2008 destina a figure femminili il 50% delle intitolazioni. Il progetto sulla toponomastica femminile è un altro modo di produrre cultura e di dare visibilità alle donne, che intendono chiedere alla Giunte comunali, sulla scia di qualche buona pratica in corso, di correggere la palese discriminazione in atto. Per rendersene conto ecco qualche numero: a Roma, nel 1999, su un totale di 14.270 strade, solo 336 ricordavano personaggi femminili. Nel 2007, in Alto Adige, 52 Comuni su 116 non avevano vie, piazze o edifici dedicati alle donne; nel 2009, negli otto capoluoghi piemontesi, le strade intitolate alle donne costituivano il 2% del totale. Un altro modo di ricordare le donne che hanno fatto la storia è rappresentato dal progetto delle guide turistiche di genere. Si tratta di pubblicazioni scritte in un linguaggio non sessista (seguendo le raccomandazioni della linguista Alma Sabatini) che ripercorrono le città interrogandosi sui passaggi e le culture femminili, su limiti, dimenticanze e pregiudizi in cui la società patriarcale ha avvolto le donne. Lo scorso autunno è uscito il primo volume di Roma. Percorsi di genere femminile, edito da Iacobelli. Il bisogno di riscoprire le tracce femminili contagia la Versilia, Palermo, Napoli, i Castelli Romani, e poi la Riviera ligure, Venezia, il Salento, Milano e la guida turistica di genere si accinge a diventare una collana editoriale (Iacobelli 2012-2014), dove decine di autrici autoctone, diverse per generazione, ruoli e interessi, ritrovano, con voce corale, una lingua non sessista con cui narrare un’altra storia.

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NEUROSESSISMO

di Stefania Prandi. (xxd 14, marzo 2012)
CIRCOLANO SEMPRE PIÙ LIBRI DIVULGATIVI IN CUI GLI SCIENZIATI CI SPIEGANO CHE BISOGNA ARRENDERSI ALLA NATURA CHE HA FATTO I CERVELLI DEGLI UOMINI E DELLE DONNE DIVERSI TRA DI LORO. SECONDO XXD, CHE HA INTERVISTATO RAFFAELLA RUMIATI, SI TRATTA SOLO DI NEUROSESSISMO.
Donne e uomini non hanno cervelli diversi. Non è vero, come sostenevano i greci, che gli uomini sono dotati “per natura” di logos (la ragione per eccellenza) mentre le donne di metis (il risvolto pratico della ragione che nasce dall’esperienza e dall’astuzia). Non ci sono evidenze scientifiche che dimostrano che le donne sono predisposte ad essere Queste sono alcune conclusioni a cui sono arrivati negli ultimi anni scienziate e scienziati che si occupano di biologia e genere. Tra loro Raffaella Rumiati, docente di Neuroscienze cognitive alla Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa) di Trieste e autrice di svariate pubblicazioni, tra cui Donne e Uomini. Si nasce o si diventa? (Il Mulino 2010). Perché si può dire che donne e uomini non hanno cervelli diversi? Per ora non sembra ci siano prove sensate in favore di differenze morfologiche tra i cervelli maschile e femminile. I vari tentativi di dimostrare che ci sono delle differenze sono stati condotti post mortem e non hanno portato a risultati attendibili. Fallimentari anche gli studi che volevano dimostrare che le donne hanno alcune sezioni del corpo calloso (ponte di sostanza bianca che collega i due emisferi) più sviluppate rispetto ai maschi. Queste ricerche venivano fatte perché si credeva che le donne fossero meno lateralizzate. Con questo termine si indica l’organizzazione del cervello, formato da due emisferi che influenzano in modo predominante la parte opposta del corpo e controllano diversamente un’ampia gamma di funzioni. Si credeva, per esempio, che nelle donne il linguaggio non fosse esclusivamente appannaggio dell’emisfero sinistro, come per gli uomini, ma bilaterale. Queste supposizioni non sono mai state Quindi le presunte attitudini femminili o maschili sono semplicemente conseguenze culturali e sociali e non biologiche? Sulla base della letteratura che ho consultato non è possibile stabilire se le differenze osservate siano dovute al fatto che la natura ci ha voluti così. corroborate da dati scientifici. Anche il fatto che le donne abbiano, in genere, un cervello più piccolo degli uomini non implica una riduzione di funzionalità. La grandezza del cervello, infatti, è proporzionale al resto del corpo. Sarebbe come dire che le persone basse sono meno intelligenti di quelle alte. Non sono l’unica a essere giunta a questa conclusione ma altre studiose che hanno analizzato in modo molto analitico la letteratura sulle differenze. Perché si crede che le donne siano meno predisposte alle materie scientifiche? È un dato di fatto che ci siano meno ragazze che ragazzi iscritte alle facoltà di fisica, matematica, chimica o ingegneria, anche nei paesi cosiddetti sviluppati come l’Italia, la Germania o anche gli Stati Uniti. Questa asimmetria ovviamente coinvolge anche il corpo docenti: nelle facoltà citate sopra, le donne docenti sono pochissime, specie nelle posizioni apicali. Questo si verifica anche nelle facoltà in cui è aumentato il numero delle ragazze che hanno conseguito il dottorato di ricerca. Perché? Siccome non ci sono prove scientifiche convincenti che le donne non siano portate per le materie scientifiche, bisogna arrendersi all’idea che qualcosa non funziona nel sistema educativo della maggior parte dei paesi cosiddetti sviluppati. Nei paesi come l’Islanda e la Norvegia, le adolescenti hanno dei risultati scolastici per la matematica che non differiscono da quelli dei loro coetanei maschi. In Italia il gap è ancora notevole e simile a quello riscontato in Turchia. In uno studio apparso qualche anno fa si è visto che questi risultati sono correlati con un indice di equità che è stato calcolato sulla base dell’accesso alle cure sanitarie e alla scolarità dei cittadini e delle cittadine dei vari Paesi: dove l’indice di equità è più elevato, le differenze tra i sessi scompaiono quando addirittura non si invertono. A favore di un’interpretazione “culturale” di queste differenze ci vengono in aiuto anche i dati relativi alla partecipazione alle Olimpiadi della matematica. Nei paesi ex dell’est Europa, le ragazze selezionate erano in numero maggiore prima della caduta del Muro. È chiaro che qui la biologia non c’entra nulla. Per quanto riguarda il passato, alle donne sono state date meno opportunità per eccellere in queste aree del sapere. Il che non significa che non ci siano state delle ottime matematiche o fisiche. Che cos’è il neuro-sessismo? Negli ultimi dieci anni, le neuroscienze hanno cominciato ad esercitare un notevole fascino come testimonia il proliferare di nuovi campi di indagine con il prefisso neuro-: neuroeconomia, neuroetica, neuro estetica e così via. Anche lo studio delle differenze sessuali ha subito questo fascino a giudicare dall’intrusione nella letteratura sulle differenze di molti termini neurosceintifici per esprimere però dei concetti antiquati e retrivi. Questo fenomeno è particolarmente evidente nei testi divulgativi sulle differenze sessuali, come ha suggerito Cornelia Fine. Secondo la Fine, il neurosessismo si manifesta per esempio, quando si afferma che le donne sono più portate degli uomini a prendersi cura degli altri: lo si è sempre pensato ma ora si ammanta con un linguaggio scientifico un’idea retrograda della donna. Si tratta di una tendenza tornata in auge di recente e che si sta diffondendo sempre di più? Il fascino delle neuroscienze si deve anche o soprattutto al fatto che offrono delle immagini dei fenomeni che studiano. Per esempio, è possibile, utilizzando la risonanza magnetica funzionale, vedere le aree del cervello che si attivano quando i soggetti sperimentali leggono parole oppure osservano volti. Questa visualizzazione dei correlati cerebrali della lettura o del riconoscimento dei volti rende la spiegazione di che cosa sia la lettura o il riconoscimento più “vera”. Questo accade anche nel caso dello studio delle differenze. Ci sono pubblicazioni anche mainstream (come ad esempio Il cervello delle donne di Louann Brizendine) che sostengono che le donne pensano e agiscono in modo diverso dagli uomini a causa degli ormoni. Le che ne pensa? I libri della Brizendine sono stati molto criticati perché non sono accurati e perché trattano in modo molto fantasioso i dati relativi alle differenze sessuali. Nel libro “Brain Storm” pubblicato recentemente da Rebecca Jordan-Young, l’autrice ha analizzato gli studi in cui si sostiene che le differenze sessuali siano causate dalle differenze ormonali. Le sue conclusioni sono inequivocabili: non solo gli studi a disposizione non ci permettono di dire che le differenze sessuali sono dovute agli ormoni (fatta eccezione ovviamente per le differenze macroscopiche che caratterizzano i genitali interni e esterni), ma non è nemmeno possibile pensare che si possano fare degli esperimenti in cui tutte le variabili sono controllate.

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LA VITA SIAMO NOI

di Maria Daniela Basile. (xxd 14, marzo 2012)
PROVVEDIMENTI REGIONALI E COMUNALI CERCANO DI MODIFICARE I CONSULTORI
E INDEBOLIRE LA 194. A ROMA IL 21 GENNAIO SI È SVOLTA UN’ASSEMBLEA
NAZIONALE PER DEFINIRE LA SITUAZIONE E PER CAPIRE COME AGIRE.
Legge Tarzia per il Lazio, legge Bignami e delibera Correggio per l’Emilia Romagna, protocollo Cota-Ferrero per il Piemonte, progetto Nasko per la Lombardia: variazioni su tema di un format prestampato “smantellare il motivo d’essere dei consultori”. Siringhe al botulino che cercano di riportare il monito contro l’aborto al vecchio splendore, eliminando la fatica degli anni sessanta e settanta, occultando le tracce delle leggi su aborto e consultori che hanno portato legalità e rispetto alla donna consapevole. “Le donne laziali possono non leggere la legge Bignami, è la fotocopia della proposta Tarzia” esordisce Roberta Granelli di Mujeres libres, collettivo femminista di Bologna, durante l’assemblea nazionale dal titolo “La vita siamo noi” tenutasi a Roma il 21 gennaio presso la Casa internazionale delle donne. Giornata in cui rappresentati dei diversi collettivi e associazioni femminili di Milano, Torino, come fine statutario “la tutela della vita fin dal concepimento”. Tale clausola è stata riconosciuta come “irragionevolmente discriminatoria e stabilita in assenza di specifiche esigenze di limitazioni o differenziazioni”, barriera alla libertà di associazione, quindi violazione dell’art. 3 della Costituzione. Le leggi Tarzia e Bignami, imbottite di locuzioni quali “tutela della vita e del figlio concepito, già considerato come membro della famiglia”, prevedono inoltre la costituzione di un Comitato Bioetico. “La legge Tarzia ha come mission la dissuasione, siamo spettatrici di un passaggio fondamentalista” dichiara Giovanna Scassellati, ginecologa del San Camillo di Roma. “A Modena i fautori della delibera Correggio si attribuiscono il merito dello scarto del 10% tra chi chiede l’interruzione volontaria di gravidanza e chi effettivamente poi la fa”, continua Giovanna. “L’anno precedente lo scarto era stato del 12%. Non si può quindi attribuire un legame causaeffetto”. Si tenta quindi di inserire simili attori nella vita dei consultori, circondando così le donne di dissuasori. Rileggendo la legge 405/1975, che ha istituito il consultorio, si nota la sua equilibrata strutturazione. “Senza laicità ci saranno conseguenze sulla libertà di autodeterminazione femminile e perderemo la dimensione pluralistica dei diritti”, ha sottolineato Stefania Friggeri dell’associazione Iniziativa Laica di Reggio Emilia. “Da sole non possiamo farcela, abbiamo bisogno dell’appoggio politico”. Modena, Forlì, Bologna, Roma, Reggio Emilia, Napoli e Terni hanno portato testimonianze per un confronto che coinvolgesse tutte le regioni. Forte la presenza del centro e del nord, esigua se non del tutto assente quella delle regioni meridionali. Un centinaio di donne si è recato nella capitale per rispondere agli attacchi che stanno subendo i consultori. Durante l’incontro è emerso come ogni regione stia cercando di adottare dei provvedimenti che consolidino il legame tra i consultori e i movimenti per la vita, di cui la maggioranza è di matrice cattolica. Il caso del protocollo Cota-Ferrero, approvato dalla regione Piemonte nel 2010, descrive bene cosa stia accadendo. Nel luglio 2011, infatti, il TAR ha analizzato e promosso il ricorso presentato dalle associazioni Casa delle donne e Promozione Sociale grazie alle oltre seimila firme raccolte. Il TAR ha annullato il protocollo perché, come si legge nel punto 11 della sentenza, predisponeva che per iscriversi negli elenchi dell’Asl, quali associazioni od organizzazioni collaboratrici nell’operato dei consultori, si dovesse possedere Friggeri racconta nei dettagli il caso della delibera di Correggio attraverso il quale si è sancito un sodalizio tra i Movimenti per la vita e i consultori. In Lombardia con il fondo Nasko si è portato avanti un discorso analogo con i Cav, Centri di Aiuto alla Vita. Nel sito internet della Regione Lombardia si legge che la madre riceverà un aiuto economico “gestito dai consultori familiari pubblici e privati accreditati e dai Cav”. “Obiettivo del progetto è far conoscere i Cav e sostituirli, nel tempo, ai consultori. Fin ora ne hanno usufruito soprattutto donne straniere che dopo il periodo di aiuto economico non avevano idea di come andare avanti” spiega Daniela Fantini dell’associazione milanese Usciamo dal Silenzio. Il fondo Nasko istituito nel giugno del 2010, consiste nell’erogazione di duecentocinquanta euro al mese per diciotto mesi da collocare nel periodo pre e post parto. Tale cifra andrà alle “coraggiose” che dicono di no all’aborto, solo però quando bussano alla porta dei consultori che prontamente le indirizzano ai Cav. Ricordiamo che in Italia il sussidio di maternità comunale è di 310 euro per i primi cinque mesi dopo il parto e quello statale è di 1.900 euro erogato in un’unica rata, per ottenerli bisogna possedere determinati livelli di reddito, numerosità della famiglia e altre specifiche condizioni. Cosa propone il progetto Nasko? Una carta prepagata, gestita dai Cav, da usare in luoghi e con prodotti convenzionati. Il sospetto che sia solo una presa in giro viene spontaneo. Il sussidio infatti dovrebbe essere non un’alternativa all’aborto bensì aiuto alla maternità, creando un reale sistema di assistenza e aiuto alla famiglia non una carotina che distolga l’attenzione dai problemi reali. Si sta identificando l’interruzione volontaria di gravidanza con il consultorio istituito per questo e altri servizi quali: assistenza sociale e psicologica per le coppie, visite ginecologiche, accompagnamento alla genitorialità biologica e adottiva, supporto psicologico per ragazze/i fino ai diciotto anni. È evidente che l’obiettivo non è modificare il consultorio, sul quale andrebbero fatti ben altri interventi, bensì la legge 194. Durante il dibattito sul Corpo, uno dei temi dei gruppi si lavoro svolti nel pomeriggio del 21 gennaio, Milva Pistoni, dell’Assemblea permanente contro la proposta di legge Tarzia di Roma, ha evidenziato che “La gravidanza sta diventando prodotto legato al consumo, la non gravidanza una schedatura. Il corpo della donna sta subendo una mercificazione anche nella medicalizzazione”. “Preoccupa la disinformazione relativa sia ai consultori sia al rapporto corpo-sessualità. Ancora non esiste una reale libertà sessuale ma una liberalizzazione sessuale del corpo,” ha spiegato Erminia Emprin del collettivo Streghe per sempre del Lazio. Gli altri due gruppi, Servizi e Diritti, hanno visto posizioni contrastanti e non hanno trovato una conclusione unitaria. Tra i problemi emersi c’è la presenza degli obiettori di coscienza nei consultori. “Bisogna combattere affinché siano esclusi dai consultori, bisogna proporre la definizione astensione volontaria da lavoro e non obiezione di coscienza” ha sottolineato Giovanna Scassellati ginecologa romana. L’assemblea si è preposta infine di creare una campagna di sensibilizzazione e informazione sul ruolo dei consultori e sulla sessualità consapevole, di sostenere la petizione sulla pillola del giorno dopo come farmaco da banco e di non smettere di affermare che il consultorio è luogo di autodeterminazione femminile.

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