RICETTA INDIGESTA

di Ornella Guzzetti. (xxd 14, marzo 2012)
In un quadretto raccontato dai media, nei giorni successivi alla nomina dell’attuale governo, Fornero discuteva di economia con Monti mentre girava il risotto in cucina. Sarà così che sono arrivati a immaginare le ricette propinate agli Italiani su come risolvere il problema del lavoro? Quella preferita è la flessibilità, che ha come ingrediente principale la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: “Non ne abbiamo chiesta l’eliminazione, né l’abbiamo difeso così com’è – dice Fornero – valuteremo quali sono gli strumenti più appropriati per aumentare l’occupazione”. L’articolo incriminato regola la reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, cioè ingiustificato o discriminatorio o effettuato senza comunicazione dei motivi, e interessa le unità produttive con più di quindici dipendenti, cinque se agricole, e le imprese con più di sessanta dipendenti. In concreto, lavoratrici e lavoratori licenziati possono ottenere di essere reintegrati sul posto di lavoro dal giudice nei casi, tra l’altro, di molestie sessuali, comportamento ingiurioso del superiore gerarchico, demansionamento, mobbing, o discriminazione per motivi politici, di religione, di etnia, età od orientamento sessuale. Si parla di “aperture” sulle modifiche nel senso che da una parte la Cgil ha accettato di sedersi a un tavolo per parlarne e dall’altra Confindustria chiosa: “Al di fuori dei casi di licenziamento discriminatorio, ci vuole l’indennizzo invece del reintegro” sbandierando quest’ultimo come un’anomalia italiana, una questione ideologica, addirittura la causa della bassa competitività del sistema produttivo, come se fossero i lavoratori reintegrati a decidere o a influire sulle politiche industriali. Come se non fosse soprattutto una questione di dignità, precarietà e ricattabilità. Perché le lavoratrici e i lavoratori perderebbero il diritto, cosa diversa dalla tutela in casi di discriminazione, di poter scegliere, invece che l’indennizzo, il reintegro. Sì, di poter scegliere il posto fisso. Che esiste ancora, che alle persone piacerebbe avere, smettendo di vivere ancora da precari a trenta e quarant’anni, come succede sempre più spesso. Il precariato non è una condizione che riguarda solo i giovani, ma tutte le età, in un mercato del lavoro che il governo vorrebbe più flessibile in “uscita” come cura alla rigidità in “entrata”. Ma la ricetta è digeribile? Indispensabile? Indolore? Una delle proposte sul tavolo è di raggruppare in un unico contratto la babele di normative che contraddistingue i vari contratti truffa, atipici, con finta partita Iva, che spogliano soprattutto i giovani di qualsiasi capacità contrattuale nei confronti dei datori di lavoro. Questi contratti dovrebbero essere sostituiti da un contratto a tempo indeterminato, ma non alla Marchionne, come chiariscono le lavoratrici del gruppo Fiat/Fiat Industrial, in una lettera a Fornero e alle Consigliere di parità: “Noi donne abbiamo una ragione in più per voler cancellare quell’accordo, perché in esso sono contenute norme gravemente discriminatorie nei confronti di madri e padri, lesive della legislazione vigente e dei principi di parità, sanciti dalla Costituzione Italiana e riaffermati dalle normative europee”. Alla fine, chi è discriminato sul lavoro, come le donne, perde garanzie e diritti già conquistati. Proprio come è successo alla norma che impediva i licenziamenti in bianco, grazie alla registrazione della data di assunzione, di cui più voci domandano la reintroduzione. Altri, come Stefano Rodotà, chiedono il reddito minimo garantito: “Proprio nei tempi difficili bisogna parlare dei diritti. Senza conservatorismi, si dice. E allora, poiché il governo annuncia interventi nella materia del lavoro, usciamo da schemi inutili e aggressivi come quelli che mettono al centro la modifica dell´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Uno sguardo sull´immediato futuro, realistico e lungimirante, esige che si affronti una revisione dei regimi di sicurezza sociale nella prospettiva del riconoscimento di un diritto ad un reddito universale di base”. Universale, anche per chi svolge lavoro domestico. Ma Fornero ha già messo le mani avanti: non ci sono soldi, siamo in crisi. Non è che più risorse sono un do ut des al tavolo delle trattative, in cambio delle modifiche all’art.18? Invece, spulciando tra i capitoli di spesa, perché non depennare l’acquisto di 131 caccia bombardieri Joint Strike Fighter F-35 dal bilancio del ministero della Difesa? Un caccia costa 120 milioni di euro, sufficienti a costruire 185 asili nido, permettendo alle madri di mantenere il loro posto di lavoro, per esempio. Per fare il risotto ci vuole burro, non cannoni.

Pubblicato in articoli, editoriali xxd, generale | Lascia un commento

LE DONNE, LE ISTITUZIONI, LA MILITANZA

di Ornella Guzzetti. (xxd 15, aprile2012)
LE ASSOCIAZIONI DELLE DONNE BUSSANO ALLE PORTE DEI COMUNI, DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO. RACCOLGONO E PORTANO LE RICHIESTE DAL BASSO.
LA QUESTIONE DELLA VIOLENZA SULLE DONNE RITORNA AD UNIRE REALTÀ MOLTO DIVERSE DEL FEMMINISMO ITALIANO. SERVE UN’AZIONE COMUNE.
Se l’8 marzo è la data in cui le istituzioni si ricordano di organizzare qualche evento per le donne, le tante associazioni attive sul territorio si rivolgono alle istituzioni tutto l’anno. O meglio, ci sono tante cose da fare e da dire che un giorno solo non basta. Lo dimostra l’esperimento di partecipazione dal basso dei tavoli di lavoro della commissione consiliare Pari opportunità di Milano, voluti dalla consigliera Anita Sonego. Decine e decine di donne si sono incontrate e confrontate per mesi, da settembre 2011, sia singole sia rappresentanti delle associazioni. Prima si sono conosciute, si sono date delle regole di discussione, hanno espresso i loro bisogni, e poi hanno progettato e costruito proposte concrete allo scopo di migliorare la vita delle cittadine e la loro partecipazione al cambiamento della città. I documenti politici prodotti sono stati presentati ufficialmente il 14 marzo a Palazzo Marino, davanti alle rappresentanti della istituzione. Sono proposte concrete, anche se smussate per perseguire l’obiettivo di realizzabilità in breve tempo e a costo contenuto. La questione più sentita è stata quella della fondazione di una Casa delle Donne a Milano, ma anche i servizi per le lavoratrici – soluzioni per la prima infanzia, albo comunale di babysitter qualificate, Coworking, promozione del lavoro delle donne – e per la salute femminile – in particolari un’indagine sui consultori – sono stati oggetto di analisi approfondita e richieste precise. Riguardo al tema della violenza sulle donne, il documento presentato sottolinea che il Comune potrebbe e dovrebbe costituirsi parte civile per il risarcimento dei danni morali e materiali relativi ai reati di violenza sessuale, omicidio, tratta di persone, sequestro e violenza privata, stalking, percosse, lesioni fisiche, ecc. in base all’articolo 5 dello Statuto comunale dove l’ente si impegna ad attuare specifiche azioni positive volte a evitare le discriminazioni a carico delle donne. Che la violenza sia una conseguenza della strutturale ineguaglianza tra uomini e donne è convinta la Lobby Europea delle Donne EWL, un’associazione ombrello che mette insieme la più grande coalizione di organizzazioni non governative, movimenti, gruppi femministi e femminili dell’Unione Europea, di vari orientamenti politici. Circa 3000 associazioni il cui coordinamento italiano, LEF, si è riunito il 16 marzo all’ufficio del parlamento europeo a Milano per presentare le strategie e i progetti comuni declinati in tutti i paesi dell’Unione e quelli specifici delle diciannove associazioni italiane, tutte assolutamente diverse tra loro ma il cui scopo comune è di sensibilizzare e agire sui rappresentanti politici al fine di uniformare quelli che sono i diritti e le opportunità per le donne in Europa. Sono stati toccati temi come le quote nei consigli d’amministrazione, pari retribuzione, tassi d’occupazione femminile, medicina di genere, bilanci di genere, il problema della prostituzione e della tratta e quello delle donne migranti in Italia per ricongiungimento famigliare che dipendono dal permesso di soggiorno del marito: per loro c’è il rischio della perdita delle libertà individuali perché risulta impossibile liberarsi dalla subordinazione e/o dalla eventuale violenza domestica in quanto la loro permanenza in Italia dipende dalla posizione giuridica del marito. A livello europeo, un gruppo di lavoro di EWL sta elaborando, sul tema specifico della violenza su donne e ragazze, una linea d’azione per ottenere dall’Unione, impegnando i paesi aderenti, che qualsiasi forma di violenza maschile contro le donne venga considerata un crimine e affinché le vittime vengano protette e sostenute, e i responsabili puniti. Lo scopo dichiarato è fare attività di sensibilizzazione a livello nazionale, per provocare il cambiamento nella società e la fine della violenza. L’azione di sensibilizzazione a Unaltrogeneredicomunicazione o il Corpo delle Donne. Proprio Lorella Zanardo ha voluto contattare il comitato promotore di Senonoraquando con un appello ad unire le forze per combattere la misoginia italiana, per concordare un’azione comune e per reagire in modo unanime. Un appello all’impegno unito alla militanza. Nella riunione che si è svolta a Roma il 23 marzo tra Snoq e Lorella Zanardo si è solo iniziato uno scambio di idee. C’è accordo sul fatto che, prima di una possibile mobilitazione nazionale o forse europea, bisogna fare dell’altro. Sensibilizzare in maniera diversa da come si è fatto finora perché le parole non bastano più – e gli spot governativi sfornati ogni 25/11 non hanno prodotto risultati. Soprattutto pare importantissimo superare la divisione dell’universo di associazioni e movimenti delle livello dei governi locali, nazionali ed europei ha però bisogno di un sostegno dal basso. Visti i dati allarmanti sulla violenza e la paralisi di qualsiasi azione concreta di contrasto a questa situazione è necessario fare di più, a partire dalle istituzioni. A partire da quello che si è costruito finora: i centri antiviolenza (con pochi fondi a disposizione), gli studi in proposito e le azioni di informazione e monitoraggio portate avanti da un rete di numerosissimi blog femministi attivi nel mobilitare le donne e nel fare controinformazione, tra cui per esempio Femminismo a sud, Bollettino di guerra, donne in Italia. C’è – dice Zanardo – una frammentazione di sforzi che pare dispersiva: molti obbiettivi potrebbero forse essere raggiunti più facilmente se si unissero le forze su obbiettivi specifici, continuando poi il proprio cammino autonomamente. È importante che la discussione si allarghi a tutte le donne, ai comitati, ai centri antiviolenza, in rete: la violenza e gli assassinii non sono un fatto privato ma un problema pubblico da affrontare, anche con gli uomini. Nel 2009 Marco Deriu, firmatario dell’appello “La violenza sulle donne ci riguarda”, diceva: “Gli uomini non odiano le donne, ne sono terrorizzati. Ho analizzato molti casi di cronaca. Nella maggioranza delle violenze domestiche, il violento cerca disperatamente di sottomettere la donna di cui in realtà è debitore, dipendente, senza la quale sarebbe finito. La violenza misogina di oggi non è il ritorno del patriarcato, è il sintomo del suo crollo”. Tuttavia, se così fosse davvero, non c’è da stare a guardare aspettandone la fine: che purtroppo, come per le peggiori dittature, è sempre accompagnata dalle peggiori atrocità, come ci ricordano le cinquanta donne uccise dall’inizio dell’anno in Italia.

Pubblicato in articoli, femminismi, generale | Lascia un commento

IL GOVERNO DEI BANCHIERI

di Daniela Danna. (xxd 15, giugno 2012)
Ci salverà dalla crisi l’abrogazione dell’articolo 18? Una volta il settimanale satirico Cuore aveva una rubrica intitolata “Hanno la faccia come il culo”. Si parlava spesso di Craxi e dei vari democristiani. Molta acqua è passata sotto i ponti ma la sfrontatezza del potere rimane uguale, il fuoco di fila dei media ripete ossessivamente le ragioni dei padroni, si dibatte seriamente (?) se licenziare più facilmente porterà ad assumere più facilmente, quando è evidente che porterà alla selezione darwinianamente meritocratica dei lavoratori: la sopravvivenza del più docile, del più redditizio, del meno rompiballe, del più sottomesso e servile. Quanto alle lavoratrici, ci verrà ricordato il nostro ruolo a fianco delle culle, razza di usurpatrici dei posti di lavoro maschili! Non sentite ticchettare l’orologio biologico? Al governo delle privatizzazioni, cioè del privare i cittadini delle proprietà pubbliche, si contrappone un insieme di forze della sinistra che si impegnano per difendere i beni comuni, un’espressione che non è ancora entrata nel nostro diritto – ma è stata proposta dalla Commissione Rodotà già da alcuni anni, nel processo di revisione del concetto di “demanio”. Questi giuristi vogliono far cessare quella contrapposizione tra proprietà privata e proprietà pubblica in cui “pubblico” significa null’altro che “a disposizione di chi governa in quel momento”. Il senso dei beni comuni invece è quello di una proprietà comune, di tutti, che non può quindi essere usata a vantaggio di pochi, tantomeno dai governi, attuali e passati e si prevede futuri, che la vogliono vendere per nutrire la rendita finanziaria. Scuola e università sono beni comuni, la sanità pubblica e i mezzi per ottenerla (ospedali, ambulatori, ma anche il lavoro degli stessi medici, infermieri, i vari addetti al servizio sanitario) sono un bene comune. Che vuol dire che “non ce li possiamo permettere”? La ricchezza sociale è creata da lavoratrici (in casa e fuori) e lavoratori, e tra i nostri bisogni e desideri primari c’è quello di rimanere in buona salute e di essere curati dalle malattie, di risparmiarci sul luogo di lavoro (ma direi dappertutto) le sostanze e attività nocive, e di istruirci e anche di usare scuola e università come canali di mobilità sociale (azzerati dal modello aziendalistico senza valore legale del titolo di studio che si prospetta) aprile – maggio 2012 5 specialmente per le nuove generazioni. In che cosa una società dovrebbe spendere risorse, se non in questo “welfare” creato comunque concretamente dai lavoratori? Se ve lo chiedessero, finalmente, questi banchieri cattolici al governo, che cosa rispondereste? Salute o F35? Ma la scelta è già stata fatta. Le donne in particolare stanno perdendo anni di vita sana. Dal 2004 al 2008 c’è stato un enorme declino dell’aspettativa di vita sana: praticamente più di dieci anni per le donne e sei anni per gli uomini secondo i dati Eurostat. La spaventosa notizia è di un anno fa, ma né il governo dei ladri, fascisti e puttanieri né quello dei banchieri hanno ritenuto anche solo di commentare il dato. Invece altri tagli, altri “programmi di aggiustamento strutturale”, cioè la riduzione del welfare e dell’impiego pubblico sono previsti all’orizzonte. C’è molta propaganda, anche a sinistra, sul “Fondo salvastati europeo” (European Stability Mechanism – Esm), deciso a livello UE un anno fa e programmato per giugno 2013. L’ennesima trovata dei banchieri che ci malgovernano sarà costituita con conferimenti di denaro pubblico – l’Italia darà 125 miliardi di euro – gestiti dai ministri delle finanze dei paesi membri. Grazie a un’intervista all’economista Lidia Undiemi, pubblicata su http://www.informarexresistere.fr, abbiamo solo ora scoperto che è prevista l’immunità totale dei responsabili di questa struttura, naturalmente in quanto “tecnici”. “Il Fondo salva-stati concederà finanziamenti agli stati in difficoltà in cambio di ‘rigorose condizionalità’ da far gravare sulle spalle del popolo”, come scrive Lidia nella sua lettera di dimissioni dall’Idv che (non ci sorprende) appoggia la proposta senza nessuna discussione interna. Sarà una sorta di Fondo Monetario europeo col mandato di spremere i cittadini europei, impotenti quanto quelli dei paesi impoveriti e indebitati vessati dal Fmi: “La politica nazionale diventa oggetto di contrattazione finanziaria”. Marx direbbe che si è sollevato il velo sulla democrazia borghese: il potere non è del popolo, ma di chi ha il capitale: di chi fabbrica e gestisce il denaro, ovvero i banchieri, e dei proprietari degli altri mezzi di produzione. I “responsabili” di questa istituzione finanziaria non saranno responsabili di fronte a nessuno, godranno di immunità giudiziaria, e la riservatezza dei loro documenti (art. 35 del Trattato: Treaty establishing the European Stability Mechanism*) impedirà qualunque controllo sul loro operato. La fine del capitalismo si prospetta come un ritorno al feudalesimo. La Grecia siamo noi.

Pubblicato in articoli, editoriali xxd, generale | Lascia un commento

ALL’ACCADEMIA DELLA FELICITA’

Di Veruska Sabuco. (xxd 15, aprile2012)
Quando ho ricevuto la prima comunicazione delle iniziative organizzate dall’Accademia della felicità (http://www.accademiafelicita.it/) mi sono chiesta, partendo dal nome e dall’immagine zuccherosa del sito (la grande madre, peonie e palloncini) se fosse stata fondata da un gruppetto di annoiate sciurette new age o da qualche pseudo guru specializzato nel turlupinare le povere di spirito. I corsi e i workshop proposti portavano titoli come “Ama te stessa! E vivi relazioni felici”, “Io non ho paura. la strada per il successo”, “Mai più donne invisibili” (no, non è l’ultimo numero dei ”Fantastici 4”), “Career Girls” e così via. Mi sono rattamente premurata di organizzare un’intervista con la fondatrice, tanto per stanare gli imbonitori da circo. Quello che ho trovato ha spiazzato, in buona parte, le mie aspettative.

L’Accademia della felicità è stata fondata da Francesca Zampone e Marco Bonora nel marzo 2011 ed è uno spazio luminoso e dalle pareti color pastello all’interno di un cortile milanese nella violentemente “riqualificata” zona di Gioia.
Francesca Zampone, dopo aver seguito corsi sul coaching dal 2001, si è diplomata come coach nel Regno Unito e svolge questa attività dal 2003. Un coach, mi spiega, è “un facilitatore al cambiamento, è orientato agli obiettivi. Il coach è una stampella che guida con domande o tramite esercizi chi ha già in sé i germi del cambiamento”. Il coach offre informazioni e strumenti pratici (vengono indicate, ad esempio, le associazioni migliori a cui rivolgersi per affrontare problemi o avviare attività professionali). Il coaching del cuore (coaching from the heart), che Francesca pratica, è impostato sui desiderata: l’obiettivo da raggiungere è quello sentito e voluto, non quello che siamo spinte a perseguire per le aspettative legate al nostro sesso.
A fronte di una mia aspettativa di “fuffa”, sono rimasta piacevolmente sorpresa dall’approccio profondamente pragmatico di Francesca, che non promette il miracolo alla San Gennaro.
Dei corsi, workshop e incontri di puro networking alcuni sono gratuiti, altri a pagamento. Dato che il lavoro è centrale in molti dei corsi proposti e nella vita di tutte noi, le chiedo, direttamente, perché dovrei pagare un workshop di quattro orette? Davvero risolve tutti i miei problemi professionali, compreso il tetto di cristallo?
Mi risponde che “le generazioni X e Y sono cresciute in un ambiente che insegna che il denaro è fondamentale, vali tanto se puoi comprare tanto, se ne hai tanto. Vali per quanti soldi fai. Il rapporto col denaro è un’indicatore di come ci si rapporta col mondo, le persone provano disagio rispetto al denaro”, specie le donne, dato che, appunto, rappresenta un valore di sé. “Un rapporto disturbato con il denaro è un sintomo”, mi dice, “se la persona non ha una ‘famiglia’ e perde il lavoro, si sente come se avesse perso se stessa”. Per questo, sostiene, è necessario “cambiare il punto di vista”.
Una delle tematiche che Francesca vuole affrontare è quella della leadership personale.
“Nel senso comune, una donna sottomessa è più seduttiva” e comportarsi in modo antitetico alle aspettative genera sofferenza. In questo modo, le donne si trovano a svolgere ruoli di finto comando, limitandosi a riferire gli ordini. Il problema è collegato anche al desiderio di piacere che porta ad assentire continuamente e in modo acritico, anche quando questo ci danneggia. La domanda da farci, è “Quanto sono disposta a sacrificare di me per stare nel mondo del lavoro?”, non ce lo dice nessuno.
Centrando il suo coaching sul rispondere a questa domanda e stanare cosa davvero vogliono le coachee (persone che fanno uso del coach), Francesca sostiene che dobbiamo concentrarci su cosa interessa a noi fare per “fare carriera”, quell’aspettativa degli anni ’80 che le 40enni non riescono a scrollarsi di dosso.
Un problema collettivo serio è, mi dice, che le donne non programmano il loro percorso lavorativo, non progettano dove vogliono arrivare e, soprattutto, non fanno squadra, disperdendo le loro energie nella lotta una-a-molti. Insomma, “le donne non sanno chi sono, e il mondo lo sente”, nel tentativo di soddisfare le aspettative sociali sulle “qualità femminili”, neanche ci chiediamo cosa davvero ci serva.
Alla fine dell’intervista, mi sembra che l’Accademia si rivolga, tra virgolette, alla massaia frustrata anni ’60 che è dentro le lavoratrici di oggi, ai pruriti in mezzo alle scapole mentali che ci perseguitano, ai gesti mancati che non ci spieghiamo e che sono sintomo di una insoddisfazione profonda. Il coaching mi sembra un modo anche costruttivo per metterci una pezza da un punto di vista personale, laddove però questi sintomi, un po’ “lieve isteria” del 21° secolo, hanno una forte matrice socioculturale nel patriarcato ancora dominante e in un disconoscimento del femminismo che, noi poverette della classe media impoverita (non solo monetariamente), non riusciamo più a reclamare.
Dal mio punto di vista niente di nuovo sotto il sole, tranne la sorpresa del pragmatismo nascosto sotto ai palloncini.

Pubblicato in articoli, generale, società | Lascia un commento

TRA LE MOSO: IL MATRIARCATO CHE ESISTE

Di La redazione. (xxd 15, aprile 2012)
“Spero che la conoscenza di questa società possa avere su di voi lo stesso effetto che ha avuto su di me”, ha detto Francesca Rosati Freeman, “praticamente questa società mi ha cambiato la vita e posso dire che la posso dividere in due: prima dei moso e dopo i moso”. Quando nel 2004 è venuta a sapere dell’esistenza di questa società non avrebbe mai immaginato di trovarsi al convegno accanto a Najin Lacong e Ake Dama, incontrata per la prima volta nel 2005, la prima a spiegarle con molta naturalezza e fierezza, ma anche con precisione e dovizia di dettagli, come fosse organizzata la sua società.
Ake fino a un anno fa gestiva una piccola guest house a conduzione famigliare, ha due bambini, un maschio di 10 anni e una bambina di 6 anni, e fa la spola tra il suo villaggio natale e Li Jiang che si trova a 3-4 ore di distanza perché ha preso la decisione di fare cominciare la scuola elementare alla bambina a Li Jiang, dove l’istruzione è migliore che nel suo villaggio. Per finanziare gli studi dei suoi bambini, Ake ha dato in gestione la sua guest house e ha aperto un ristorante moso a Li Jiang. Il suo desiderio più grande è che i figli con gli studi acquisiscano le capacità per diffondere la cultura moso nel mondo, oggi minacciata dalla società occidentale e patriarcale, soprattutto dai programmi televisivi e dall’uso del computer
Najin ha una famiglia molto numerosa e anche lei ha lasciato il suo paese natale per trasferirsi e lavorare a Li Jiang da una sua zia responsabile di un azienda che produce il “sulima”, vino liquoroso ricavato dalla fermentazione del grano e di altri cereali ed erbe, che i moso chiamano il liquore delle donne. È stato creato apposta per le donne perché sembra sia di grande aiuto durante il parto. A Li Jiang esiste una comunità numerosa, le donne si incontrano una volta a settimana e poi una volta al mese ci sono riunioni dove le donne discutono insieme. Il loro passatempo preferito è cantare e ballare, e il loro concetto di felicità è stare bene in salute e avere da mangiare per tutta la famiglia. “Durante i miei soggiorni nel territorio moso ho avuto modo di approfondire i vari aspetti della loro società”, testimonia Freema, “accorgendomi subito che regna una grande armonia”.
Abitano ai confini del Tibet, in una regione molto montagnosa sui contrafforti dell’Himalaya a quasi tremila metri di altitudine. Della famiglia fanno parte tutti i discendenti in linea materna e a capo di essa vi è la Dabù, la donna più abile, saggia e in genere più anziana, che trasmette il nome, i beni e gestisce l’economia familiare. La famiglia moso ha una struttura molto solida, si può dire perenne, e non si disgrega mai. Ciascuno ha un proprio ruolo, adempiendo al quale si sente responsabilizzato e al tempo stesso protetto. I due ruoli, maschile e femminile, non sono mai gerarchici ma complementari, l’indivisibilità dei beni all’interno della famiglia fa si che nessuno possa arricchirsi a discapito di un altro. Le decisioni vengono prese solo quando tutti i membri adulti della famiglia dopo innumerevoli discussioni, hanno trovato un accordo, e le posizioni prese dalla Dabù hanno un grande significato. La condivisione dei beni, unita alla complementarietà dei ruoli e allo sforzo di raggiungere un consenso decisionale ampiamente condiviso, fanno della comunità moso una società con un senso del rispetto e dell’uguaglianza assai profondo. La stanza principale dove si svolgono le attività dei familiari è sempre chiusa, attraverso questa porta si accede alla camera dei misteri, dove le donne danno alla luce i loro bambini e dove vengono sistemati i corpi dei defunti prima del funerale. Una stanza dove vita e morte si alternano in un ciclo continuo.
Ciò che fa della cultura moso una cultura che salvaguarda la pace in famiglia è l’esclusione del matrimonio e della convivenza dallo stile di vita tradizionale. Anzi questi sono ritenuti un attacco alla famiglia stessa. I moso non rinunciano all’amore, al sesso, alla procreazione. Al compimento del tredicesimo anno di età una grande cerimonia segna il passaggio dall’infanzia alla vita adulta. Sia le ragazze che i ragazzi ricevono il costume tradizionale che indosseranno per feste e cerimonie e danze serali. Ma la ragazza in più riceve anche la chiave della sua camera, chiamata “la camera dei fiori”, dove quando lo deciderà ospiterà la persona che ama. Da questo momento inizia una nuova vita con un nuovo statuto sociale. el’acquisizione del diritto di partecipare a tutte le attività familiari, sociali e amorose.
La coppia è considerata troppo instabile per far coincidere amore, famiglia e coabitazione: se la relazione amorosa dovesse finire non si corre il rischio di perdere l’amore e la famiglia. La separazione della vita familiare da quella amorosa consente la salvaguardia della famiglia e garantisce a uomini e donne grande libertà sessuale. Permette alle donne di avere il controllo del proprio corpo e della sessualità, e poiché le coppie non vivono sotto lo stesso tetto, ma si incontrano nella camera di lei, non si litiga mai per la precarietà economica, per dinamiche familiari o per incompatibilità di carattere, né si litiga con i parenti del proprio partner.
Non si litiga nemmeno per l’educazione dei figli, perché appartengono alla madre e alla famiglia materna e sono considerati la reincarnazione degli antenati.
Anche se il padre biologico ha un ruolo marginale, i bimbi non sono privati di una figura maschile con funzioni e responsabilità paterne, incarnate dallo zio materno. Senza matrimonio e senza convivenza non ci può essere violenza coniugale, tipica delle famiglie mononucleari patriarcali, e in caso di separazione non c’è cambiamento di carattere materiale per adulti e bambini. La madre non rimarrà da sola a occuparsene e i bambini non sentiranno nessuna mancanza del padre.
“La libertà sessuale”, racconta Freeman, “qui garantisce equilibrio e armonia per tutti i membri della famiglia, è una istituzione, ma l’omosessualità non esiste. Un ragazzo che è andato all’università mi ha detto che prima di allora non ne aveva mai sentito parlare. E anche altre ong me lo hanno confermato. Quando siamo state al parco Valentino le due ragazze moso hanno visto due donne baciarsi e mi hanno chiesto: ‘Ma cosa stanno facendo?’ Se poi si fa in modo discreto io non lo so ma loro dicono che non esiste. In ambito amoroso non esiste il concetto della proprietà privata. Amore e sesso non significano possesso, e quindi i moso considerano la gelosia come un concetto molto negativo, dissociato dall’amore, la condannano e la stigmatizzano. È la violenza che fa perdere la faccia. Se il proprio partner ha incontri clandestini con un’altra donna non è certo la fine del mondo. Esistono casi sporadici di violenza sulla partner, che non viene occultata ma resa pubblica e gestita da una persona considerata pubblicamente saggia”.
Anche la struttura politica, così come quella familiare, è basata sul consenso popolare. C’è una commissione amministrativa composta da uomini e donne che fanno da intermediari tra gli abitanti e il capo o la capa del villaggio, ma quando si presenta un problema sociale sono le Dabù, le rappresentanti delle famiglie, che dopo essersi confrontate con i membri adulti della propri famiglia, ne discutono tra di loro e poi ne parlano con il capo villaggio che ha il compito di coordinare la commissione amministrativa. Le donne non sono escluse da questo incarico amministrativo. Ake stessa è stata nominata capo del villaggio nel 2002 ma ha rifiutato l’incarico per non aggiungere ulteriori responsabilità a quella non meno importante della sua famiglia. Malgrado il turismo abbia iniziato a essere la risorsa economica principale in due villaggi, alcune attività come il trasporto dei passeggeri in barca e le danze serali sono ancora basati sulla solidarietà collettiva. Dopo aver dato a tutti le stesse opportunità di lavoro i proventi vengono divisi equamente fra tutte le famiglie del villaggio. Le famiglie moso si attengono a un comportamento corretto per evitare l’arricchimento di alcune famiglie a discapito delle altre. Le attività legate al turismo non sono ancora riuscite a soppiantare l’agricoltura e l’allevamento di maiali e capre, che insieme a tessitura e fabbricazioni tradizionali restano le attività più diffuse. L’aspetto spirituale è quello che più di ogni altro contribuisce a creare e mantenere l’armonia fra tutti. La religione è il buddismo tibetano, ma i moso non hanno mai rinunciato al loro sciamanesimo primitivo tanto che spesso Lama e Daba, i loro preti sciamani, si ritrovano insieme a officiare le stesse cerimonie religiose. Credere negli spiriti della natura e nella divinità delle montagne, considerare la natura sacra, e rispettarla fa si che i moso la preservino dalle distruzioni. La venerazione per la natura si riflette in ogni piccolo gesto quotidiano, percorrono i villaggi girando i loro mulini di preghiera per ingraziarsi gli spiriti della natura, poi girano più volte al giorno attorno allo stupa, un monumento funerario, e fanno offerte sugli altari funerari di casa dei prima di pranzo e cena. La venerazione della natura trova il suo culmine nel pellegrinaggio alla grande dea creatrice e protettrice di tutti i moso, Gamu: la montagna sacra. La natura è sacra e la divinità è donna. Anche il lago in lingua moso significa lago madre, così si afferma il principio del femminino sacro alla dea, e si riconosce alla donna la funzione della continuità della vita. Da ciò deriva grande rispetto per le donne, per i bambini e gli anziani, e la nascita della figlia femmina è un grande dono e non una disgrazia. Le donne non opprimono l’altro sesso ma condividono con gli uomini incarichi di responsabilità.
Conclude Freeman: “Si tratta di un altro modo di concepire vita e famiglia che potrebbe aiutarci. Il rispetto per la persona e la natura, l’economia del dono e la cura della vita vengono trasmessi come base dell’educazione dei moso. La società dei moso è una società di pace, definita nel 1995, nel 50enario anniversario dell’Onu, una società modello. Ispirarsi ai valori matriarcali sarebbe opportuno per noi che abbiamo bisogno di cambiamento, di nuovi modelli, e per noi donne è venuto il momento di riappropriarci di ciò che il patriarcato ci ha tolto”.

Box: Domande ad Ake Dama e Najin Lacong
Le domande sono state poste dalle partecipanti al convegno, con la traduzione in cinese dell’interprete Federica Carnana

Il nuovo modello economico può esistere insieme a quello tradizionale?

È una domanda molto complessa. C’è molto turismo e c’è anche la televisione, il pc. Questo da un lato è un beneficio, perché molte donne ora desiderano che i loro figli ricevano una istruzione che noi non abbiamo avuto. Poterci confrontare con realtà al di fuori della nostra è un beneficio per conoscere e comprendere la realtà esterna, che porta a far apprezzare maggiormente il nostro sistema culturale.
È inevitabile che tutto ciò porterà a dei cambiamenti. L’idea ci spaventa, ma la speranza è che non ci siano sconvolgimenti immediati. Inoltre il turismo implica che la nostra società venga meglio compresa.

Alla domanda sulle diversità avete risposto che l’incontro con le diversità è utile per apprezzare di più ciò che si ha. Questa è una visione della diversità in negativo. Mi ha colpito molto, vedere il diverso come ciò che in realtà non fa che confermare il proprio modello. Insieme al fatto che non nasce nessuna persona che abbia un orientamento diverso da quello eterosessuale.

Non ne faccio una questione di “la nostra società è migliore di quella degli altri”, il discorso è che abbiamo difficoltà a comprendere un modo di vivere diverso dal nostro. Inoltre la televisione sta facendo vedere in modo assolutamente immediato delle cose che sono a volte scioccanti, soprattutto ai bambini, che non essendo ancora andati a scuola, non comprendono neanche la lingua cinese. E allora c’è bisogno dei genitori per fare da filtro. Da ogni società si può prendere qualcosa di buono. I giornalisti ci hanno chiesto se si può esportare il nostro modello di vita, e abbiamo risposto che non ha molto senso, Speriamo solo che gli altri vengano da noi e che adottino quello che credono ci sia di buono, ma senza nessunissima imposizione.
Non pensiate però che da noi nessuno litighi, ci possono essere dei piccoli conflitti in famiglia, tra madre e figlia, però si cerca di parlare e in due tre giorni la cosa si risolve.
Il turismo ha portato buone cose, come le infrastrutture; come l’autostrada che è più comoda e meno pericolosa da percorrere, soprattutto per avere cure mediche, in particolare per gli anziani. Mi spaventa che il sistema scolastico non sia in lingua moso ma in lingua cinese, perché temo che questo ci faccia perdere l’identità linguistica più che quella culturale.

A me lascia stupita che le donno moso non costruiscano qualcosa con il proprio compagno.

È un’ottica diversa quella con cui cresciamo, noi cresciamo con l’idea che la mamma e il sentimento materno sia quello più importante, quello del compagno viene al secondo posto. Un uomo passa, la mamma rimane.

Dite che le persone anziane sono facilitate ora nell’avere cure mediche, ma non c’è qualcuno nel villaggio che si occupa della medicina tradizionale?

Ci sono sempre stati e ci sono ancora dei guaritori che curano con le erbe, ma quando ci sono malattie particolarmente gravi, il guaritore non è sufficiente. Prima c’erano le levatrici, mentre ora le mamme spingono le figlie a partorire negli ospedali.

Io mi occupo di donne e di parto. In Italia molte donne si sono viste strappare la possibilità di partorire con il proprio potere personale. La medicalizzazione del parto è la prima arma per togliere potere alle donne. La stanza chiusa della vita e della morte la continuate a utilizzare?

Sì, questa stanza è usata. Voglio spiegarmi meglio: alcune madri spingono le figlie ad andare a partorire, ma non è per tutte così, solo quando ci sono delle difficoltà, oppure alcune madri dicono: “Il primo vai a partorirlo in ospedale, e poi gli altri a casa”. La stanza è considerata sacra, è dove vengono riposti oggetti sacri, o vanno a riposarsi gli anziani e le donne dopo il parto, è il luogo di connessione tra noi stessi e il sacro, non invitiamo un ospite all’interno di questa stanza.
Una volta le mamme che partorivano in casa non si ricordavano quando nascevano i figli, mentre ora in ospedale ti danno un bel foglio dove c’è scritto tutto.

Qual è l’aspetto che vi ha più colpito del nostro modo di vivere?

Non siamo tanti diversi. Anche in questi giorni, sentendo parlare le nostre amiche sudafricane o stando nel cerchio delle donne, ho pensato che siamo molto simili. Inoltre le domande che voi state facendo sono molto diverse da quelle che ci fanno i turisti cinesi, si capisce che sono fatte per comprendere la nostra realtà.

Pubblicato in articoli, generale, matriarcato | Lascia un commento

INCONTRO CON BERNIE MUTHIEN

di Alice nel paese delle femministe. (xxd 15, aprile2012)
Bernie Muthien, direttrice di Engender, ente sudafricano per la ricerca e la “costruzione di capacità”, ha parlato della società khoi-san del sud dell’Africa, una delle poche società matriarcali esistenti oggi. Si occupa di empowerment, violenza, Hiv, intersessualità e di altri temi importanti con Engender a Cape Town. Da dieci anni si è occupata di violenza domestica da donna a donna, fin da quando i centri antiviolenza ignoravano completamente la questione, che connette all’enorme livello di violenza nella società sudafricana.

Che cosa ne pensi del convegno?

È molto emozionante e incoraggiante per me vedere così tante donne italiane e non solo (saremo 250!), interessate alla sacralità della donna, alla matrilinearità e all’egualitarismo. Ci sono anche molti uomini, e tutte le fasce d’età. Non mi immaginavo l’Italia così progressista.
Purtroppo molte delle domande però sono state davvero patriarcali “E che ne è degli uomini?” Ma chissenefrega degli uomini, hanno tutto il mondo! Il ministero delle finanze e tutto il resto, chi se ne frega se hanno qualcosa da dire sui figli… prenditi il tuo spazio e il tuo potere!

Come mai hai detto che il genere è un concetto occidentale?

Il genere inteso in modo polarizzato e gerarchizzato è un concetto occidentale, significa che maschio è meglio che femmina e ci sono solo queste due opzioni. Il risultato è anche una violenza estrema, per esempio gli “stupri correttivi” [contro le lesbiche in Sudafrica] o la lapidazione delle adultere, questo non esiste né tra i khoi né tra i san, ma solo nelle culture patriarcali.
Quando parlo di violenza con la polizia del Kalahari dicono che non ci sono denunce di maltrattamenti domestici, anche se a volte i conflitti crescono di livello. L’uomo colpisce, la donna può prendere un bastone, l’uomo ne prende uno più grande… ma anche in questa violenza c’è un senso di eguaglianza perché la donna non si sdraia a fare la piccola vittima che lascia che l’uomo la picchi.

La cosa più diversa nelle società matriarcali è la gestione dei conflitti?

Sì, è una cosa importante. Molti studi multinazionali sulla pace mostrano che le società meno violente sono le società indigene e quelle scandinave. Il mio lavoro è stato di considerare anche il genere in questi studi, ed è vero, ci sono metodi più avanzati di risoluzione dei conflitti.
In un contesto patriarcale tu cresci nella competizione, è tutto quello che sai. Quando penso ad esempio al progetto genoma, in cui c’erano due team in competizione: se avessero combinato i soldi e le energie lo avrebbero fatto in metà del tempo, risparmiando. Ma no, dobbiamo avere due team in competizione! E questo è il modello patriarcale capitalistico.
Invece noi cresciamo nella cooperazione occupandoci gli uni degli altri – anche se c’è un piccolo grado di etaismo (disuguaglianza in base all’età). Chi è più vecchia di me mi comanda, io sono cresciuta così – devi sempre essere responsabile verso queste donne anziane, ma in cambio hai un senso di sicurezza. Nella vita mi sento sicura, so che se non avessi soldi mia sorella mi aiuterebbe. Ho il senso dell’essere parte di un tutto e la sicurezza dell’attenzione reciproca.

Ma è veramente aiuto senza che si tramuti in controllo?

Sì. Pensa: da dove viene il controllo? Anche nelle relazioni romantiche il controllo deriva da insicurezza e paura. Ecco perché nella mia presentazione ho parlato di forme alternative di amore. La gelosia e tutto il resto vengono dalla paura. Se sai che questo momento durerà un istante, allora te lo godi, invece di pensare a cosa accadrà tra vent’anni. Devo fare un’assicurazione sulla tua fedeltà?
La saggezza di queste donne khoi-san è incredibile, e anche da vecchie vanno ancora nei campi insieme, cercano le piante, le cose che guariscono. Fanno così tanto lavoro e hanno così tanta gioia, e hanno vissuto nell’orrore, non possiamo immaginare quanto, il colonialismo, l’apartheid. Hanno vissuto nelle fattorie, sono state impoverite e lo sono ancora, e loro sorridono e ridono e sono piene di vita. Hanno pochissimo e dividono con te quel poco che hanno. Questa è bellezza, e semplicità, e costante consapevolezza della sacralità. Mi dispiace invece che molti uomini sono sottosopra, per il capitalismo, e per l’alcolismo come tutti i popoli indigeni. Ma le donne anziane! Sono incredibili. Stanno però morendo tutte.
Chi parla di “scambio” non capisce. Non esiste lo scambio! Tu hai bisogno di qualcosa e io te lo do, non voglio niente in cambio, non voglio nemmeno che tu mi ami.
Ecco quello che intendiamo con “il paradigma del dono”, che è un paradigma indigeno.
Dobbiamo cambiare l’idea che “io do a te, tu dai a me”. Se qualcuno ha un bisogno, dagli ciò che gli serve. Il cosmo tiene tutto in equilibrio, e te lo ridarà.

Penso che lo puoi fare in piccola parte, almeno nel nostro contesto, perché ti fottono sempre.

Ah, lo so. Anche l’economia dello scambio si nutre del paradigma del dono. Noi donne indigene lavoriamo con le donne europee e ci fottono sempre. Ma in questo incontro, non potete immaginare quanto sono stata ispirata. Le organizzatrici sono state meravigliose, questo calore… Eravate al cerchio delle donne?

No, eravamo a cena tra noi.

Peccato, È stato incredibile, la cosa più vicina ai nostri cerchi delle donne che potessi sperimentare con donne europee in un paese sviluppato. L’auditorium era pieno di donne, in un grande cerchio, hanno spento la luce, e c’erano i tamburi, e la traduzione in italiano, stavo andando in uno stato alterato di coscienza. Sai che diciamo che i bianchi non sanno ballare, ma queste donne come ballavano le une con le altre… erano selvagge! È stato incredibile!

Pubblicato in articoli, generale, matriarcato | Lascia un commento

“DISEGNARE E’ IL MIO LAVORO E UNO STRUMENTO DI LOTTA”

Di Alice nel paese delle femministe. (xxd 16, giugno 2012)
INTERVISTA CON PAT CARRA, DI CUI È IN LIBRERIA LA NUOVA RACCOLTA DI VIGNETTE: SEX OF HUMOUR
Per quale motivo, secondo lei, ci sono attualmente poche fumettiste?
In realtà è sempre stato così. Il settore del fumetto satiricopolitico non è mai stato molto frequentato dalle donne. In Italia, le brave fumettiste e illustratrici si sono dedicate spesso alle illustrazioni per l’infanzia, di cui ci sono esempi meravigliosi. E diciamo che molto aiuta anche il contesto. Quando fondammo “Aspirina” c’era un grande vitalità, una voglia di riunirsi tutte, di fare gruppo, che indubbiamente stimola molto. Come stimola molto anche il periodo storico: sull’onda del femminismo vennero fuori bravissime fumettiste, come Giuliana Maldini, Stefania Giudastri, Cristina Gentile, Paola Sandei che poi si è dedicata ad altro. In ogni caso, io incontro ragazze che si dedicano al fumetto, ce ne sono molte nelle accademie, o sparse nei blog, anche mia figlia disegna, ha collaborato con me nel mio ultimo libro. La mia impressione è che si stia formando un nuovo fermento di questo tipo e la creazione di contesti evidenti potrebbe essere di aiuto.
Nella sua carriera quali sono state le tematiche più difficili da rappresentare attraverso il fumetto?
Io non parlerei di carriera. Disegnare è il mio lavoro e uno strumento di lotta. Il pensiero ha senso solo se si traduce in azione, trovare il pensiero giusto e il modo giusto di tradurlo in azione è una lotta. Per me fare fumetto è lotta. Forse i temi più difficili da rappresentare sono quelli economici, le banche sono i veri poteri intoccabili. Basta guardare le vignette sui giornali, c’è moltissima satira sui politici, mentre quelle dedicate all’economia, ai banchieri sono davvero poche. Non è un caso.
Ha incontrato difficoltà nella sua carriera in quanto fumettista donna?
No, non direi. La mia fortuna è stata disegnare donne. In Italia c’è sempre un grande parlare di femminismo ma viene considerato sempre il femminismo istituzionale, non la sua parte radicale che non è stata colta, neanche dalla sinistra, probabilmente perché ha spaventato. Abbiamo avuto il femminismo più radicale d’Europa ed ha scatenato una paura tale da creare un reazione fortissima, di cancellazione. Ma credo che qualcosa stia per cambiare: le rivoluzioni degli uomini sono come onde, si impennano e svaniscono, quelle delle donne sono carsiche, riappaiono in determinati momenti. Le donne però hanno spesso paura della lotta e tendono a tirarsi indietro, non devono. Sono contraria anche ad una politica delle donne annacquata, ero ad esempio contraria alla manifestazione del 13 febbraio. Ma il conflitto che si è scatenato a livello di idee in quel caso è stato molto interessante, un esempio del cambiamento in atto.
Qual è stato il momento più felice o divertente del suo lavoro?
La mia esperienza più bella è stata in Aspirina quando ho potuto disegnare con un’amica, Ste. Fu un esperimento di disegno in coppia, c’erano questi due personaggi, Pat e Ste che dialogavano tra loro, una ero io e la disegnavo io, l’altra era lei. Un felice esperimento di disegno relazionale.
C’è un aneddoto significativo nel suo percorso?
Di aneddoti possono essercene tanti. E’ interessante un episodio della mia infanzia, il mio primo fumetto umoristico-politico, che ho ritrovato pochi anni fa. Nel fumetto disegnavo uno scherzo telefonico che io e la mia gemella, da bambine, avevamo fatto al fidanzato della nostra sorella maggiore, molto più grande di noi. Questo fidanzato era una figura molto particolare, molto pesante e per noi quello scherzo, che fu uno scherzo molto serio, coraggioso, fu un modo per uscire da una situazione di impotenza in cui noi ci trovavamo relegate. Fu come un’iniziazione, la possibilità di poter lottare e superare la propria impotenza. Io tradussi tutto subito in fumetto. Lo avevo dimenticato ed è stato molto strano e significativo per me ritrovarlo.
Come ha conosciuto XXD? Ha consigli, suggerimenti per noi?
Ho conosciuto il vostro giornale grazie a mia figlia, che credo lo abbia scoperto navigando. Ci sono due suggerimenti che posso darvi, uno sul fumetto e uno sulla redazione. Credo che sarebbe più facile per “XXD” creare una pagina di fumetto in cui si avvicendino più fumettiste piuttosto che avere una rubrica fissa. Scambiare idee in gruppo spesso fa nascere storie: tutto nasce dalle relazioni. Inoltre così si risolverebbe il peso che potrebbe creare una rubrica fissa. Per quel che riguarda la redazione io vi consiglio di incontrarvi spesso di persona. Bisogna vedersi, rischiare di parlarsi e litigare. È sempre nel discorso diretto che ci si arricchisce, si diventa meno egocentrici. L’esperienza diretta è fondamentale. Sono dell’opinione che questa generazione non possa affidarsi troppo alla rete, è necessaria l’esperienza sensoriale, del corpo.
Il suo ultimo lavoro Sex of humour parla del rapporto tra i generi riferendosi alla ipersessualizzazione della società. Da cosa ha tratto ispirazione?
Sex of humour ruota intorno ai rapporti tra i sessi e tra donne. Come sempre nel mio lavoro, le donne sono protagoniste della narrazione. Ipersessualizzazione…non so, è una parola che non uso, quello che vedo con la mia ipermiopia è una società al tracollo, uomini che dovrebbero con urgenza fare un lavoro politico sulla questione maschile. Mi ispira la realtà, per capire cosa accade mi confronto spesso con amiche della Libreria delle donne di Milano e con persone in cui ho fiducia
Perché hai scelto come personaggi principali delle vignette una suora e una donna col burqa?
Le personagge che ricorrono nel libro sono la nuda, la suora e la donna con il burqa. Sono dei simboli, sembrano distanti e invece sono vicine l’una all’altra. La rete delle donne supera barriere maschili e schieramenti, per esempio quello dello scontro di civiltà. Sono personagge che amo, mi piace tenerle insieme. L’effetto grafico mi fa sorridere anche quando non ci sono battute

Pubblicato in articoli, generale, umorismo | Lascia un commento

Non c’è bisogno di XXD?

La redazione. (xxd 16, giugno 2012)
Questo numero di XXD, il sedicesimo, rischia di essere l’ultimo in formato stampabile con la nostra bella (scusate l’autocomplimento…) elaborazione grafica. La campagna di abbonamenti su Produzioni dal basso, prosegue, anche se l’obiettivo dei 500 abbonamenti entro la fine di questo mese sembra difficilmente raggiungibile. Abbiamo poche lettrici, forse appunto 500 per ogni numero, e non sono molto “interattive”, raramente abbiamo avuto feedback come commenti sul sito, lettere, incoraggiamenti, anche se la redazione ha incontrato e “inglobato” molte donne che si sono proposte in vari ruoli e che hanno arricchito la rivista, per breve o per lungo tempo.
Un aiuto che potete darci, oltre naturalmente all’abbonamento, è quello di farci conoscere tra amiche e amici e conoscenti. Ci siamo sentite dire: “Per le cose che scrivete, certo potete avere poche lettrici”, ma non ci crediamo. Pensiamo che nell’Italia di oggi ci siano molte donne e anche qualche uomo che la pensa come noi: “per le cose che scrivete”, e non solo ma anche per le immagini che usiamo, per l’assenza di pubblicità… Noi siamo una voce fuori dal coro che, ci scrivono, “parla con delicatezza ma incisività, ironia e originalità – non è mero urlo di protesta ma analisi e ricerca di una realtà che a conti fatti ancora non ha canali” che coerentemente la divulghino e la sostengano. Pochissime attualmente sono le riviste che parlano davvero del femminile e soprattutto che rimangono coerenti nei diversi numeri, se non addirittura all’interno di uno stesso numero, senza tornare all’immagine della bambolina muta da ben vestire e ben truccare allo scopo di ottenere approvazione maschile.
Siamo consapevoli che non è facile avere il coraggio di guardarsi senza veli, e di quanto sia necessario lavorare in ricerca e autoanalisi per liberarsi di secoli di addomesticamento coatto. Ogni giorno ci misuriamo con la lotta, interiore ed esterna, nel lavoro e nella società, contro l’addomesticamento ricevuto nella nostra crescita di “femmine” – e siamo sicure che sempre più uomini si sentono a disagio nel loro addomesticamento di “maschi”.
Abbiamo sicuramente “peccato” nella propaganda e diffusione, a cui sono andate poche energie.
Forse la scelta del formato stampabile non si addice propriamente al web (da cui la scarsa interattività), e il senso dell’operazione si è rivelato “non al passo con i tempi”: i conti economici che sono stati fatti sul passaggio alla carta hanno sconsigliato questa sconsideratezza, in tempi di chiusura di cartacei e prosperità di lettori portatili per files di giornali e libri.
Le aficionade che ci hanno sostenute in Produzioni dal basso sono, come molte di noi, non giovanissime, già impegnate e partecipanti a svariate associazioni e movimenti – quindi anche la nostra voglia di fare una rivista femminista divulgativa è rimasta in realtà tale: le nostre parole e immagini sostengono quelle che già nel femminismo ci sono, ma la platea non si allarga.
Continueremo per questo mese la campagna per Produzioni dal basso, e soprattutto, vada come vada, continueremo a essere impegnate nel femminismo culturalmente e politicamente – questo a livello individuale, perché XXD non ha raggiunto la massa critica per poter dedicare energie anche alle campagne politiche oltre che all’informazione.
Grazie a tutte e tutti le lettrici che ci hanno seguito in questo avvincente anno e mezzo di vita.
Arrivederci? A Venezia a settembre sicuramente, al seminario da noi introdotto su “Decrescita e popolazione” alla conferenza internazionale sulla decrescita.

Pubblicato in articoli, editoriali xxd, generale | Lascia un commento

UNA DONNA AL MESE – XXD 16

Ho sempre rifiutato il concetto di “femminilità”, perché convinta appartenesse a un luogo comune grande come una casa, a un megastereotipo preconfezionato.
Mia madre ha sempre rifiutato l’idea di trattarmi da bimbetta o da femminuccia.
Ma di tanto in tanto mi comprava dei vestitini (orridi) dai tessuti impregnati di fiorellini rosa e azzurri. Li detestavo. Ma sapevo quanto lei ci tenesse, e sapevo anche che, durante le grandi cerimonie quali: primina, diplomino delle scuole elementari e capodanni al ristorante (molto rari), dovevo essere “femmina”.
E non capivo perché dovessi essere diversa da mio fratello e dai miei cuginetti maschi. Eppure loro erano costretti a diventare insaccati viventi, con cravattino stritolante color caco o viola bara.
Io rifiutavo l’idea di non poter indossare quel tipo di tortura e il solo pensiero di mostrarmi femminile, mi imbarazzava. Io! Una bimba circondata da maschi, fiera di provare a giocare con i loro soldatini (facendo vincere sempre gli indiani), con i lego e le costruzioni metalliche. Io! Che difendevo a spada tratta il diritto ad indossare sempre jeans e pantaloni. Eppure giocavo con le barbie, eppure amavo immergermi nel ruolo della mamma (mai casalinga, sempre manager!) di tanti bambolotti multirazziali. Insomma: ero una Lisa Simpson.
Ho scoperto la parola Femmina solo dopo aver abbandonato per sempre l’uniforme da ribelle contro tutto e tutti. Ho scoperto di essere immensamente felice di essere nata “svantaggiata”. L’essere Femmina ha per me adesso un altro significato. È avvenuto solo dopo aver scoperto la bellezza del mio corpo femminile, dopo l’accettazione delle mie rotondità, del mio seno minuscolo e morbido, della mia genetica delicatezza della pelle, della raffinatezza di alcuni gesti. Il non dover emulare gesti coloriti e forzati dei maschi ma seguire i movimenti dolci e musicali che il corpo femminile inevitabilmente regala.
La bellezza della forza nata da una debolezza che gli altri ti hanno imposto. Femmina è colei che rifiuta la sola idea di essere definita inferiore a causa del suo sesso, è colei che ha capito quanto sia bella la Natura Umana femminile in tutte le sue forme. Sono stata grassa, magrissima, gonfia, in perfetta forma ma sempre donna, sempre femmina, sempre io. Il mio corpo è cambiato seguendo la mia mente, le mie esigenze. La femminilità è, ovviamente, tutto fuorché un paio di scarpe con tacco e un vestito con i volant sulle spalle: è capire che il diritto a poter scegliere e al non giudicarsi secondo le “loro” regole, è un diritto fondamentale e sacrosanto. Così come, per me, essere femminile significa non avere bisogno dell’approvazione di nessun uomo, camminare da sola con fermezza, inciampare, fare errori e imparare da questi. È costruirsi le proprie regole, scegliere il proprio cammino con coraggio. È accettarsi e volersi migliorare e sapere che tutto questo è dato sì anche dal proprio sesso, perché siamo nate con un handicap: il sessismo, e da questo bisogna trarre forza per diventare donne a tutti gli effetti.
Oggi mi sento così e ogni giorno di più questo pensiero si rafforza nella mia mente. E quando indosso un jeans e una t-shirt, riesco a sentirmi pienamente inserita nel mio sesso e nel Mondo intero, perché so che la mia forza e la mia femminilità, risiedono nel mio carattere, nelle mie esperienze di vita, nel mio sguardo.

Pubblicato in generale, una donna al mese | Lascia un commento

SULLA SERVITÙ DELLE DONNE

Di Marta Gallina. QUANTO UN LIBRO SCRITTO NEL 1869 PUÒ PARLARE DELLA NOSTRA SOCIETÀ? È UNA DOMANDA CHE CI SI TROVA A FARE IMBATTENDOSI NELLA LETTURA DEL SAGGIO DI JOHN STUART MILL
La genesi di The subjection of women (in traduzione Sulla servitù delle donne) è celebre. Harriet Taylor, moglie in seconde nozze di Stuart Mill, fu una delle più influenti esponenti del primo femminismo ed è ricordata specialmente per la sua aspra critica contro l’impianto giuridico che regolava la vita nell’Inghilterra del 20° secolo. Il suo impegno e i suoi scritti sono fondamentali per arrivare a comprendere il senso ultimo del saggio di John Stuart Mill. Egli, infatti, economista liberista e filosofo utilitarista, restò affascinato dalle idee innovative e anticonvenzionali della moglie, con cui intratteneva oltre al rapporto sentimentale, anche una relazione intellettuale, come lui stesso scrive: “quando due persone hanno i loro pensieri e le speculazioni del tutto in comune, è di poca importanza per quanto riguarda la questione di originalità, chi di essi detiene la penna”. Sulla servitù delle donne fu pubblicato dieci anni dopo la morte di Harriet Taylor e di lei nelle pagine del libro si possono leggere lo spirito, il pensiero, la voglia di cambiamento. L’intento del saggio è infatti quello di cambiare. Ma prima dell’innovazione è necessaria l’analisi, e in effetti in poche pagine si può veder riassunta la società inglese d’allora, con una chiarezza, freschezza e lungimiranza che tuttora sbalordiscono.
Il saggio si apre con un excursus storico: nel mondo si sono susseguite varie forme di schiavismo, ma tutte queste hanno avuto una fine, abbattute da parti della società che potevano prendere le difese di chi stava soffrendo. Questo ragionamento segue idealmente la legge del più forte: “I potenti del mondo furono condotti alla moderazione solo quando a loro volta dovettero subire la costrizione di una forza superiore”. Ma come è possibile far cessare una schiavitù che coinvolge tutta la popolazione mondiale? “Qualunque sia l’orgoglio nell’esercizio del potere, e qualunque ne sia l’interesse, questa soddisfazione e questo interesse non sono il privilegio di una classe, lo sono del sesso maschile tutto intero”. Un costume accettato da tutti è indubbiamente più difficile da estirpare rispetto a un’usanza circoscritta. Infatti, ciò che si fa per abitudine, viene percepito come fatto naturale. Come John Stuart Mill stesso precisa: “La subordinazione della donna all’uomo è un costume universale, una deroga a questo costume appare dunque naturalmente contro natura”.
Ma occorre fare qualche chiarimento, dal momento che la servitù delle donne manca di una caratteristica comune agli altri tipi di asservimento: la costrizione. Il matrimonio – sostiene Stuart Mill – è una forma di servitù legalizzata a cui le donne non si sottraggono, dal momento che “tutte le donne si allevano sin dall’infanzia nella credenza che l’ideale del loro carattere è l’antitesi di quella dell’uomo: esse sono educate a non voler niente per se stesse, a non agire alla propria volontà, ma a sottomettersi e cedere alle altrui”. È attraverso l’educazione dunque che viene plasmato il carattere degli individui; e non è vero, forse, che l’educazione di maschi e femmine è fondamentalmente diversa tuttora nella nostra società? Ci sembra normale che una bambina debba giocare con le bambole e un bambino con le macchinine. Come d’altra parte ci sembra normale che una bambina alla domanda ‘Che lavoro vuoi fare da grande?’ risponda ‘la mamma’, mentre ci parrebbe del tutto fuori luogo se un maschietto rispondesse ‘il papà’.
John Stuart Mill va anche oltre, richiamando a sé le scienze sociali e affermando che “Ciò che si chiama oggi natura della donna è un prodotto eminentemente artificiale; è il risultato di una compressione forzata in un senso, e di uno stimolo fuor di natura in un altro”. In questo modo, l’economista anticipa i gender studies del secondo 20° secolo, che affermano e sostengono la costruzione sociale dei ruoli di genere e del corpo degli individui.
Ma questa non è la sola intuizione lungimirante che si legge nel libro. Vi si trova, infatti, anche la questione della perdita secca che la società provoca escludendo o ammettendo in certe posizioni individui sulla base dell’appartenenza a un genere: “[…] riconoscerebbe ingiusto escludere la metà della razza umana dalla maggior parte delle occupazioni lucrose, e da quasi tutte le funzioni elevate, e di stabilire dalla nascita che le donne non possono divenire capaci di coprire impieghi legalmente aperti ai membri più stupidi e vili dell’altro sesso”. Come lo stesso Stuart Mill fa notare, non solo ci si priva di molti talenti, ma si elimina anche il fattore concorrenza che provocherebbe un forte stimolo nei competitori. Tuttora non siamo riusciti a risolvere questo nodo focale. Le quote rosa mirano a lavorare in questo senso, ma il rischio è quello di riservare posti a delle persone non perché se lo meritano ma perché appartenenti a un certo sesso. Il che risulta poi essere lo stesso concetto elaborato nel saggio, ma visto dalla parte opposta.
John Stuart Mill, in conclusione, tiene a precisare che la società che schiavizza la donna non rappresenta la natura del mondo, ma una sopravvivenza di un mondo antico, passato e distrutto dal correre della storia. “La subordinazione delle donne sorge come un fatto isolato, in mezzo alle istituzioni moderne” ed è forse per questo che conserviamo la speranza che tutto ciò possa cambiare. In fondo, anche piccoli libri come questo possono cambiare il corso della storia e contribuire alla costruzione di una società che sia non solo diversa, ma – se possibile – anche migliore.

Pubblicato in articoli, femminismi, generale | Lascia un commento