SEX WORKER: LA STRADA È UN VICOLO CIECO

Di M. Daniela Basile. (xxd 16, giugno 2012)
SONO STANCHE DELLA SITUAZIONE ITALIANA, UN LIMBO PRIVO DI CHIAREZZA E COERENZA LEGISLATIVA. LO FANNO PER SCELTA E CHIEDONO DIRITTI E LEGALITÀ. A ROMA LA CONFERENZA NAZIONALE DEL 21 APRILE NE È STATA OCCASIONE
“Non ho deviazioni psicologiche, né traumi familiari alle spalle. Fare la prostituta è un lavoro che mi piace”. Sabrina ha venticinque anni, porta un trucco lieve e il corpo minuto è ricoperto da un abbigliamento che non la rende per nulla diversa da tante altre studentesse fuori sede: una minigonna di jeans e un decolté generoso ma delicato. Preferisce mantenere l’anonimato, la società che la circonda non è pronta a rapportarsi con una lavoratrice del sesso. Problema condiviso con Giulia, trentenne di origine russa, in Italia da sette anni. Giulia è una ragazza solare, timida in certe circostanze e non riesce a portare la sua testimonianza davanti alla sala di palazzo Valentini a Roma, dove il 21 aprile si è tenuta la Conferenza nazionale sulla legalizzazione della prostituzione. In Russia lavorava in un night club ed è venuta nel “Bel Paese” per continuare la sua attività. “Da bambina sognavo di fare la cantante. Lavoravo in un negozio come commessa. Non riuscivo a comprare praticamente nulla. Un giorno un’amica mi disse che a lei regalavano tutto gli uomini, così ho iniziato anch’io. Lo faccio per soldi e qualche volta mi diverte. Non ho mai dovuto superare barriere morali e non sento pesi psichici o fisici. Non mi vergogno, non faccio male a nessuno. Ma devo mentire dicendo che lavoro in pizzeria”.

Sabrina e Giulia sono concrete e non interessa loro, almeno non adesso, fare discorsi filosofici sul sesso, sul loro rapporto con il corpo e sulla relazione uomo-donna. “La prostituzione è una realtà vera e quotidiana”. Sabrina e Giulia si sono unite alla battaglia di Pia Covre, fondatrice nel 1982 del Comitato per i diritti civili delle prostitute che insieme all’associazione Radicale Certi diritti e alla Cgil Nuovi diritti ha organizzato la giornata di riflessione del 21 aprile. Hanno in mano un disegno di legge che chiede: l’abrogazione della legge Merlin, la sistemazione dei contratti di servizi sessuali al di fuori dei reati legati al costume, la disciplina con decreto ministeriale dei controlli igienico-sanitari e della sicurezza, e infine, il regolamento degli aspetti tributari nelle forme previste dal ministero dell’Economia e delle Finanze. La legalizzazione permetterebbe così, com’è accaduto in altri paesi, che le lavoratrici del sesso emergano senza doversi nascondere. “I miei annunci su internet vengono bannati perché sospettati di essere mercato sessuale. È una forma di discriminazione” spiega Sabrina. “In questo periodo a Genova la situazione è insostenibile, soprattutto nel quartiere della Maddalena. La polizia fa controlli in continuazione multando i clienti e facendoci passare nottate in questura. Sia noi che i clienti abbiamo paura. Inoltre c’è la crisi e questo fa aumentare gli episodi di violenza. Vogliamo lavorare in pace e avere contratti di affitto regolari”, dichiara una rappresentante delle Graziose, associazione che riunisce numerose prostitute del centro storico genovese.
“La prostituzione è come una tovaglia che tirandola da una parte ti scappa dall’altra” spiega Porpora Marcasciano, nota attivista del movimento gay-lesbico-trans e vicepresidente del Movimento identità transessuale. “Non esiste una ricetta valida sempre e in ogni luogo. La regolamentazione non può partire dallo sfruttamento, inizierebbe con il piede sbagliato. Bisogna condividere il presupposto che si parla di vendita di prestazioni sessuali. Il discorso sul lavoro legato al sesso è semplice. Non va intrecciato all’immigrazione e alla criminalità, realtà più complesse. Lo sfruttamento e la tratta c’entrano poco o nulla”. E Porpora questo lo sa bene, per ragioni autobiografiche conosce altri tipi di scelte obbligate come quelle che vivono le transessuali. Tra di loro ci sono donne che non trovano altri ruoli e posti di lavoro nella società se non quelli legati al mercato del sesso. Antonia Monopoli, di origine pugliese, ne porta testimonianza. Ha lasciato la strada grazie ad Ala onlus Milano di cui adesso è responsabile dello sportello trans. “Ho iniziato a prostituirmi nel 1994. Per una transessuale era l’unica possibilità. Non mi piaceva e nel 2005 ne sono uscita. Ricordo che nel 2002 sono andata in questura venti volte circa. E le campagne politiche erano i periodi di maggior controllo. Appena ho trovato un’alternativa ne sono uscita. Non discrimino però chi lo fa per scelta”. E tra chi lo ha fatto per scelta c’è anche Tenera Valse, oggi trentottenne. Artista e figlia modello, insegnante di latino e greco, Tenera ha mollato tutto per diventare una sex worker che offre servizi bdsm, pratiche legate alla dominazione e sottomissione come il bondage e il sadomasochismo. “Sono ancora una donna modello, seppur di diversa natura. Adesso posso comprarmi tutti i libri che voglio e posso scrivere. Il lavoro dell’insegnante è costantemente frustrato”. La sua nuova vita segue la riflessione su una società che non sa valorizzare ruoli, lavori e competenze. La libertà sessuale e la letteratura sono le sue passioni. Ha pubblicato Portami tante rose, breve romanzo autobiografico. Il numero di rose rappresenta nel web gli euro a prestazione sessuale. “Il bdsm propone momenti performativi che aiutano a canalizzare l’energia e che sarebbero assai utili alle coppie”. Tenera, personaggio poliedrico di grande intelligenza, è costosa; le sue arti non sono all’ordine del giorno. “Ho più clienti uomini, ai quali è sempre stato permesso di lasciare liberi gli istinti. Sono degli animali, nel senso puro del termine. Storicamente le donne sono state addomesticate, sono meno disposte a prendersi spazio e cura di sé”.
Il tema della violenza ritorna costantemente durante l’incontro, come paura o esperienza. “È aumentata a tal punto nei confronti delle transessuali che l’Unione europea ha richiamato l’Italia esortandoci a trovare soluzioni” denuncia Porpora Marcasciano. “La situazione italiana, questo limbo privo di chiarezza e coerenza legislativa, porta le sex workers ad essere esposte ad una doppia violenza. Quella di sfruttatori o clienti e quella delle forze dell’ordine. Non è raro che vengano fermate, abusate e violentate.” Sottolinea Matteo Mecacci deputato Radicale e presidente della Commissione per i diritti umani dell’Osce

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CIE, BE FREE A PONTE GALERIA

di Natascia de Matteis. (xxd 4, febbraio 2011)
IL RACCONTO DI UNA OPERATRICE SULLA RABBIA E LA PAURA PER LE STORIE DI TRATTA, VIOLENZA E DISCRIMINAZIONI NARRATE DALLE DONNE DENTRO IL CENTRO DI IDENTIFICAZIONE ED ESPULSIONE DI PONTE GALERIA DI ROMA
Se mi chiedete quale sia la formula migliore per il sostegno e l’attivazione di percorsi di reinserimento e protezione per le donne vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale e/o lavorativo, io risponderei: Centro antitratta. È un luogo di donne per le donne caratterizzato dalla continuità, dall’accoglienza, da ampie possibilità di intervento. Ma quando da anni lavori sulle violenze contro le donne, per esempio a Roma, devi adeguarti ai tagli dei finanziamenti, a chi li concede in Provincia o in Comune. È una scommessa politica difficile da ignorare, accettare e sostenere ma, per necessità, avvii uno sportello

di ascolto direttamente nei luoghi dove le donne vengono trattenute per essere identificate e spesso espulse. Il CIE di Ponte Galeria, per esempio. Non è stato facile scegliere di lavorare a questo progetto. Qui il setting è completamente diverso, i tempi limitati. La sezione femminile è un luogo pervaso da inferriate metalliche, ai lati e sul tetto, e quando ti affacci guardi il tempo sospeso delle donne, rinchiuse perché clandestine, amministrativamente detenute. C’è chi resta nelle stanze, che sono piccole con tanti letti, chi stende panni su corde legate alle sbarre, altre appoggiano un lenzuolo per terra e sdraiate parlano fra loro, piangono, dormono o riflettono sole. La luce filtra attraverso le sbarre sulle loro mani, mentre attendono la visita medica o la consulenza legale. I luoghi dei colloqui sono sempre gli stessi, la mensa e la piccola biblioteca. Non c’è privacy e spesso sono presenti le maman che controllano le donne nigeriane. Abbiamo dovuto reinventare sul momento delle modalità per entrare in relazione con le donne, per aprire un autentico spazio di ascolto empatico in cui si possano sentire riconosciute. Sono soprattutto nigeriane e cinesi le donne che abbiamo incontrato, ma anche cittadine della ex Jugoslavia, maghrebine, latino-americane, cittadine dell’ex URSS e albanesi, e ancora donne apolidi, cittadine di campi rom, donne che hanno già scontato una pena e attendono l’espulsione. Notevole è anche il numero delle badanti che non hanno potuto essere regolarizzate per scadenza dei termini o problematiche inerenti il datore di lavoro. Le donne che incontriamo ci parlano di tratta, di sfruttamento sessuale e lavorativo, di violazioni dei diritti, incominciati nel paese di origine, dove circa il 15% ha subito un percorso di violenza e persecuzione che continua qui, ignorato due volte quando la richiesta di asilo non viene concessa. Non basta alle operatrici la competenza, intesa come accoglienza, ascolto e attivazione di risorse per un percorso di fuoriuscita, ma è necessario lavorare sui nostri ideologismi e stereotipi. La violenza raccontata fa paura, noi non ci siamo identificate in loro, abbiamo dovuto mantenere una distanza emotiva “professionale”, riconoscendo l’utilità di una presa in carico integrata del caso. Il disorientamento ha caratterizzato l’inizio del nostro lavoro e poi rabbia, frustrazione e la paura quando ti chiamano al telefono con la voce rotta perché è giovedì, e giovedì gli aerei le riportano forzatamente a casa. L’esperienza più intensa è quando senti a gran voce alcune urlare “freedom”, i colloqui si interrompono, esci dalla mensa e vivi un grande spettacolo che ci e si regalano: una pratica agita di sorellanza per festeggiare l’uscita di una donna dal CIE. Accorrono molte nigeriane, si uniscono talvolta donne di altra provenienza e in cerchio iniziano a cantare e ballare, agitando strumenti improvvisati, creati da loro, urlano in pidgin parole di libertà. A volte però è come un pugno nella pancia, perché troppo spesso quando escono dal CIE, ci sono intermediari o sfruttatori che le aspettano. Quando invece hai ottenuto fiducia, perché la donna ha un coraggio grande quanto una casa, ha sporto denuncia ed è pronta ad entrare in un centro antitratta, ti capita di accompagnarla in stazione. Con Vincent per esempio, che finalmente ha ottenuto il parere favorevole e può iniziare il suo percorso di reinserimento in una struttura protetta. Sono al CIE e, mentre parlo con un operatore di Polizia dell’Ufficio Immigrazione, all’improvviso mi sento stringere e urlare: “Grazie, sono libera, libera!”. Mi giro e Vincent è un fiume in piena, piange mentre sorride e continua a urlare la sua libertà. Mentre ci rechiamo alla stazione, ricordo a Vincent che nella struttura il telefono le verrà temporaneamente tolto e Vincent inizia a telefonare a tutta la sua famiglia, alle amiche e alla nostra operatrice che l’ha seguita. Il suo corpo si muove come a danzare. E tu devi solo trattenere le lacrime e pensare a guidare e resisti, perché a volte la scommessa politica la vinci, perché i risultati ci sostengono e stimolano: gli inserimenti realizzati in articolo18 – “Soggiorno per motivi di protezione sociale” del Dlgs 286/1998- col parere favorevole della Procura della Repubblica e a inserimento in struttura protetta già avvenuto, sono stati 18 tra il 2008/2009. Uno dei prodotti del nostro lavoro è il “Dossier sull’esperienza di sostegno a donne nigeriane trattenute presso il C.I.E. di Ponte Galeria e trafficate attraverso la Libia”, che abbiamo riportato nella seconda parte del volume Storie di Ponte e di frontiere. Il Dossier denuncia una circostanza che ci ha colpito per la sua forza drammatica: la costrizione alla prostituzione subita dalle donne nigeriane durante il passaggio per la Libia all’interno di bordelli, non legali ma ben strutturati e noti a tutti, diffusi nelle zone centrali di Tripoli e dintorni. Non intervenire sulla possibilità di offrire adeguate forme di protezione alle vittime anche nel caso il crimine contro di loro non sia avvenuto sul territorio italiano, come invece prescritto dall’ articolo 18, priverebbe queste donne, già vittime di prostituzione forzata e destinate a subire lo stesso reato sul territorio nazionale, di qualsiasi possibilità di salvezza

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UNA DONNA AL MESE – XXD 14

Succede spesso che quando da piccolina tiri fuori tutta l’energia femminista, anche se sei una bimba molto normata, vieni definita maschiaccia. Avevo 7 anni e nel paese di origine, sud Italia, capitava spesso che i maschietti a scuola ti palpeggiassero, un giorno nel bagno mentre mi lavavo le mani entra un bulletto e mi mette una mano su quello che io chiamavo normativamente sedere (culo era una bestemmia). Io con uno scatto improvviso gli assesto un calcio facendolo capitolare sul lavandino, setto nasale rotto. Mia madre prima allarmata dalla mia reazione, preoccupata perché avevo preso posizione e avrei destato attenzione, poi sorrise perché mio padre mi definì con ironia una maschiaccia. E io ero felice, mi sembrava di aver ricevuto un riconoscimento, invece era “solo” iniziata la connivenza materna con il “capofamiglia”. Non mi piacevano le gonne e alle elementari calzavo sempre dei pantaloni con gli stivali marroni e striscia gialla (erano gli anni 80). Non mi sedevo come le femmine, diceva sempre la mia prozia “a gambe allargate si siedono i maschi”, e le maschiacce ribattevo io. Poi alle medie inoltrate quando la parola mi sembrava una strategia potente, ogni volta che per strada qualcuno rivolgeva a mia madre (che era davvero bella) qualche frase raccapricciante, io rispondevo urlando. E a casa riprendeva il battibecco tra una madre intimorita dalle reazioni violente che avrei potuto ottenere e il riconoscimento di mio padre che mi aveva fatto credere che proteggere significa amare, sì perché lui era geloso, cioè si prendeva cura di noi, e io da brava maschiaccia avevo preso da lui. Era “solo” iniziata la mia identificazione paterna. Ho una sorella più grande di me di un anno, timida e complessata (ora incazzata e solitaria), mentre io spavalda e amante dell’horror italiano (il mio unico mito maschile era Dario Argento), mi destreggiavo in manifestazioni di amore e protezione continue. Non solo con lei, anche con l’amica e vicina di casa, e loro due ogni volta che andavamo a fare le vasche nella villa comunale, appena vedevano qualche gruppetto rincitrullito di maschietti locali rallentavano il passo e camminavano dietro di me. Ed io fiera iniziavo a far volteggiare la mia cinta borchiata, elemento estetico consentito in famiglia perché faceva parte del mio look dark (e perché ero brava a scuola), senza rendermi conto che l’incredulità era un elemento forte del maschilismo culturale che anche noi femmine stavamo introiettando. Perché in provincia di Foggia non era consentito alle donne rispondere, reagire, difendersi, era talmente vietato che quando succedeva l’incredulità maschile diventava un freno per azioni moleste. Io, vera maschiaccia?, appassionata di pallacanestro, e non pallavolo dove non c’era nessun contatto fisico, poi, quando andavo in bicicletta a raggiungere la palestra nelle primissime ore pomeridiane, nelle deserte vie paesane che ancora profumavano di cibi cotti, mi volevo davvero bene e mi proteggevo urlando bestemmie e prendendo a calci le portiere delle macchine che si aprivano. I miei genitori non sono mai venuti a vedere una partita, anche se ero una fuoriclasse con la proposta di passare nella squadra delle “grandi”, però la cosa che mia madre spesso ricorda è l’immagine di me in bicicletta, con il borsone da un lato, l’ombrello nell’altra mano e una pioggia dirompente, il commento lo immaginate: una vera maschiaccia, uguale a tuo padre, con tanto di sorriso. E poi a carnevale, che allegria, camminare per le

strade, tra maschere e pezzettini di carta colorata, ma nella provincia di Foggia c’era una molesta tradizione maschile, riempire le calze di nylon color carne delle nonne di farina e uova, per renderle dure e pronte ad essere lanciate contro donne ed anziani. La mia strategia era comprare tante bombolette spray e fischietti, equipaggiare le tasche delle amiche e quando alla nostra vista appariva il gruppetto malefico, spruzzare, dividersi, accerchiarli, urlare al ladro, fischiare e colpire. Poi alle superiori, nell’illustre liceo classico con sole tre sezioni (io avevo voluto la C, quella meno in vista), vengo eletta come rappresentante di classe e di istituto, e per la prima volta realizzo l’occupazione del Liceo Classico. Non solo, coinvolgo le altre scuole e indico una mega assemblea nel cinema (che ora non c’è più), con tanto di verve e spirito politico, ottengo applausi e approvazioni. Nella fase organizzativa assembleare, quella fatta di incontri con i rappresentanti tutti rigorosamente maschi delle altre scuole di zona, ho indossato il più grande travestimento della maschiaccia. Soprattutto al geometra e all’industriale dovevo convincere che ero io la rappresentante. Io, che tra insulti e improperi sessisti, vestita di nero, con i capelli lunghi e biondi, e tanta volontà di agire, da femmina li ho fatti capitolare, senza colpi e strumenti, senza setti nasali rotti e bombolette spray. Da piccoletta mi chiamavano maschiaccia, ma ora io lo so che ero e sono femminista.

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UNA DONNA AL MESE – XXD 15

Il pranzo domenicale da mia nonna aveva delle ritualità molto interessanti, innanzitutto l’ordine con cui venivano servite le persone. Si trattava della prima portata, servita da mia nonna in piedi intorno al tavolo, le successive venivano posate sul tavolo, ma la prima dava il senso profondo di quale era il tuo posto all’interno della famiglia. Prima lei serviva il marito, poi il padre (ospite della casa), il figlio, il figlio maschio della figlia, la figlia femmina del figlio maschio e poi tutti gli/le altr*. Io ero la figlia femmina della figlia femmina, in fondo alla scala di quella piccola società. Non c’è niente di meglio per capire subito che non sarebbe stato semplice. Non sono mai stata una bambocciona e un po’ me ne rammarico, come quando ci si rammarica di non poter andare contro la propria natura e respirare sott’acqua. Non essere bamboccioni però non è davvero per forza una buona cosa, significa rifiutare una rete di salvataggio, è come fare bungee jumping senza la corda, a dire il vero assomiglia ad uno stato di ebbrezza perenne e drogarsi troppo fa male si sa. È iniziato tutto con una semplice domanda: ma quanto sale si mette nell’acqua della pasta? Vivere da sola a sedici anni, all’improvviso, è un’esperienza che dopo averla superata ti fa pensare di poter fare qualunque cosa, sposta il limite, dona una fiducia sconsiderata nelle tue possibilità. Inoltre sono figlia della generazione che ha vissuto il boom economico e che ha pensato di poter crescere i propri figli nel pensiero del “tutto è possibile”. È possibile andarsene dalla famiglia minorenni, studiare anche se tua madre ha la terza media, girare il mondo, sposarsi, divorziare dopo un anno, lasciare l’università, fare la barbona, tornare all’università, lavorare sotto l’effetto di sostanze psicotrope, sperimentare sperimentare e ancora sperimentare. È possibile soprattutto rifiutare opportunità perché non si tratta proprio di quello che senti sia meglio per te, è possibile buttare all’aria carriere e decidere di fare la contadina, investire un mucchio di soldi e fallire sempre nell’idea gatta che anche dal dodicesimo piano si può atterrare sulle zampe senza farsi nulla. Sono anche figlia della generazione di donne che sono cresciute un attimo prima del femminismo, che l’hanno respirato quando ormai per loro era un po’ troppo tardi, per educazione, abitudine e strumenti e che hanno visto la propria possibilità di rivalsa nelle figlie. Solo che erano un po’ confuse, mia madre perlomeno lo era, e ha interpretato il femminismo a modo suo, con i reggiseni, i miei, ha bruciato anche le magliette, le mie, e mi avrebbe fatto andare in giro seminuda se non mi fossi ribellata. Mi ha anche educata a temere gli uomini, purtroppo mentre gli uomini mi stavano stuprando sotto i suoi occhi ma non se n’è accorta, è una combinazione esplosiva e non so ancora bene dove siano finiti i miei pezzi dopo il boom. Che non era quello economico no. Quello ha continuato a sfuggirmi per tutta la vita, un’escalation, più crescevo più si faceva veloce, impossibile rincorrerlo. Il fatto è che il boom economico è stato solo una parentesi, non si sa se fortunata, meglio sarebbe stato crescere con l’idea chiara fin dall’inizio che ogni mattone deve avere la giusta calce e che una casa di terra è diversa da una in cemento ed è meglio non mischiare. Meglio essere educate all’oculatezza, alla prudenza. Meglio cercare di evitare di pentirsi. Ma di cosa sarà poi meglio pentirsi? Di non avere più una casa, una famiglia d’origine su cui contare, un lavoro sicuro o semisicuro o di non avere ricordi meravigliosamente folli, divertenti, azzardati e anche quando dolorosi, pieni di esperienze che ti fanno sentire di non aver sprecato poi molto di questo poco tempo di vita? Non lo so, infatti ora di tempo ne spreco tantissimo, perché sono stanca, stanchissima e perché sono comunque figlia di un mondo che è impostato sull’avere e non sull’essere ed io sono molto ma ho molto poco. Di mio intendo, nel senso capitalistico del termine. Ma ancora più brutto è che non mi fido pienamente del dono, dei moltissimi doni che mi vengono offerti, sto ferma a guardarli con il dubbio che mi verranno tolti e non verranno sostituiti. E nel mezzo del cammin della mia vita mi ritrovo a consigliare vite da bamboccion* . Mi resta per fortuna il profondo fastidio che mi provoca l’idea di essermi arresa. Conto su quello. Anche per tornare alla profonda consapevolezza che il femminismo forse non è stato come il boom economico e la parentesi è ancora aperta ed è qualcosa che mi appartiene, nel senso non capitalistico del termine, insieme a tutte le donne che invece per fortuna non appartengono a nessun* ma condividono con me la stessa vecchia idea gatta di potersi buttare da un grattacielo perché comunque volare è bello.

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LA CACCIA ALLE STREGHE NON E’ MAI FINITA

Di Stefania Doglioli. (xxd 16, giugno 2012)
UN GRAVE EPISODIO DI RAZZISMO MASCHERATO DA “DIFESA DELLE NOSTRE DONNE. COME I MEDIA SI SONO INVENTATI UNA COPERTURA AL TENTATO POGROM DI TORINO

Torino lo scorso dicembre è stata teatro di un grave episodio di razzismo, un campo rom è stato incendiato durante una fiaccolata che ha preso a pretesto una denuncia di stupro fatta da parte di una ragazza di sedici anni, che, in una prima dichiarazione, fatta sotto shock e poi smentita, aveva identificato i propri aggressori in due uomini rom. Il Museo diffuso della resistenza, della guerra, dei diritti e della libertà ha organizzato il 18 aprile un dibattito sull’incendio del campo rom della Continassa a Torino con la presenza del direttore de La Stampa, Mario Calabresi e di Vladimiro Zagrebesky, giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il dibattito è stato stimolato dalle letture degli estratti di articoli comparsi sulle pagine dei maggiori quotidiani, ma non ha purtroppo affrontato una riflessione su quella che è stata una vera e propria campagna stampa contro la ragazza identificata come la responsabile dell’incendio. Al dibattito erano presenti alcune rappresentanti di una parte deldi solidarietà organizzata per lei si è conclusa con l’incendio dell’insediamento di nomadi da dove sarebbero provenuti i responsabili di una violenza che non c’è mai stata” (Il fatto quotidiano), “sabato scorso è avvenuto un raid incendiario contro i rom dopo la denuncia di un stupro da parte di una sedicenne che ha poi ammesso di aver inventato tutto” (La Repubblica Torino.it), “l’indignazione è fortissima dopo l’assalto scatenato da un gruppo di persone che volevano vendicare il presunto stupro subito, a opera di ‘due stranieri’ da una sedicenne. Invece la ragazza aveva inventato tutto, probabilmente per nascondere la vergogna provata dopo il primo rapporto sessuale della sua vita” (La Stampa). In Italia, secondo l’ultima indagine di vittimizzazione condotta dall’Istat, ci sono stati 1 milione e 150.000 casi di violenza contro le donne nel 2006. Non ci sono stati altrettanti casi di violenza nei confronti degli aggressori, non ci sono stati 1 milione di incendi, aggressioni o omicidi per vendicare la violenza sulledonne, anzi non ce ne sono stati proprio. Sebbene esista in Italia un modello culturale che utilizza l’idea della protezione della donna come causa legittima di aggressioni fra uomini la realtà è che gli uomini non vendicano le donne vittime di violenza, gli uomini intervengono in quanto aggressori ed è a dir poco pretestuoso ed in realtà manipolatorio e profondamente sessista affermare che un incendio sia stato l’atto di vendetta di una comunità in difesa di una delle proprie componenti. Lo stupro non c’entra proprio nulla, l’incendio è stato un crimine dell’odio basato sull’etnia, la razza, la nazionalità, la religione ai danni di una comunità con cui non si volevano condividere i propri spazi. I giornali però sembrano non trovare interessante la notizia così com’è, decisamente meno interessanti i responsabili dell’incendio di quanto non possa essere la storia di una minorenne stuprata e “bugiarda”. Infatti amano sottolineare che la violenza è stata inventata, come se, paradossalmente, se fosse stata vera l’incendio sarebbe stato legittimo, come se fossimo abituati ad episodi di vendetta contro gli stupratori, come se si trattasse di una prassi usuale, dimenticando che gli unici atti compiuti per difendere l’onore in Italia passavano attraverso l’uccisione delle donne e l’onore da difendere era sempre quello dell’uomo. Il sindaco di Torino afferma che “In nessun paese civile si può accettare che si dia luogo a un linciaggio verso persone assolutamente innocenti” rivelando in un incredibile lapsus i sentimenti di tutti gli attori della vicenda, il linciaggio verso i colpevoli è legittimo, e così si consuma la persecuzione nei confronti di una ragazza che si è deciso essere colpevole di un reato da lei mai consumato. Il dibattito diventa più ampio, coinvolge le associazioni del territorio e i partiti, gli organi di stampa fingono di riflettere su se stessi. La voce delle donne rimane inascoltata e non viene dato spazio sui mezzi di informazione ad alcun elemento di controinformazione. A un atto gravissimo di xenofobia, violenza e intolleranza si è in realtà deciso di aggiungere un’ulteriore forma di violenza nei confronti della ragazza. Si aggiungono particolari inutili per spiegare l’evento, ma, per i più, scandalosamente morbosi sulla sessualità e sulla verginità della ragazza. Particolari che non ci dicono assolutamente nulla sui responsabili dell’aggressione e l’effetto è la ricostruzione di atmosfere medievali di caccia alle streghe. Si consuma un nuovo crimine dell’odio, contro un genere che continua a essere umiliato, violato, oppresso ed usato per manipolazioni odiose. La legge italiana prevede sanzioni per i crimini dell’odio basati su motivi di razza, etnia, nazionalità e religione. A luglio del 2011, se il disegno di legge fosse stato approvato, la legge avrebbe incluso tra i motivi anche l’omofobia e la transfobia. Non è successo. A nessuno è però venuto in mente di aggiungere anche il genere affinché la società possa infine diventare consapevole del fatto che le donne sono da millenni semplicemente vittime di un odio feroce da parte di uomini e donne, perché non si può spiegare in nessun altro modo l’insieme di crimini di cui quotidianamente sono vittime.

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STORIE DI VITE RUBATE DALLO STATO

di Natascia de Matteis e Stefania Doglioli (xxd 16, giugno 2012)
OPERATRICI DI CENTRI E SPORTELLI ANTIVIOLENZA TESTIMONIANO LE CONSEGUENZE DEI TAGLI AI FONDI PER LA PREVENZIONE E LA LOTTA ALLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE

La signora R.S., cinquantenne, arriva allo sportello del nostro Centro antiviolenza nel mese di gennaio di quest’anno. Con lei c’è la secondogenita dei suoi tre figli, una ragazzina di 14 anni. La donna racconta di una intera vita passata a subire violenza, maltrattamenti e umiliazioni da parte di suo marito. Sei anni fa, la donna ha scoperto che suo marito deteneva sul suo pc materiale pedopornografico. R. si ribella non prevedendo la reazione di suo marito, che alla presenza dei suoi tre figli, ha tentato di ucciderla con un fucile da pesca. Schivato il colpo, la donna deposita una denuncia che poco dopo ritirerà, convinta da suo marito. La vita familiare prosegue in un clima sempre violento e pericoloso per la salute fisica e mentale di R. e dei suoi figli. A gennaio la donna si rivolge a noi. Sin da subito capiamo che il modo migliore per aiutare R. e i suoi figli è quello di proteggerli in una casa rifugio. La mancanza di case rifugio nel nostro territorio, dovuta alla chiusura di queste ultime, ci ha portato a dovere prevedere un progetto alternativo. Abbiamo fatto ricorso a risorse interne e personali della famiglia. Così oggi R. vive, facendo la spola, tra la casa dei suoi genitori e quella di una sua amica, portando con sé i suoi figli. Non siamo quindi riuscite a permettere a questa donna e ai suoi figli di riorganizzare la propria vita altrove. Non siamo riuscite a garantire serenità a questo nucleo familiare che teme ancora di poter essere avvicinato dall’uomo, nonostante gli ammonimenti e le diffide che ha ricevuto. (Testimonianza di una operatrice del centro antiviolenza RiscoprirSi di Andria).

La signora R. scappa dalla famiglia che ha formato sposandosi e si rifugia nella famiglia di origine in un gioco di dipendenze pericoloso. La presenza di operatrici professionalmente preparate la aiuta ma neppure loro sono in grado, in assenza di fondi, di garantirle un percorso adeguato. G. arriva allo sportello dell’associazione Me.dea chiusa nella sua timidezza, condivide pian piano le discussioni, le umiliazioni, gli schiaffi, i calci, gli insulti, insieme alle donne che Incontra trova forza, la riconosce. G. non vuole più quella vita per se né per i suoi figli. Ci mettiamo due mesi ad organizzare con l’avvocato, l’assistente sociale, la scuola e le forze di polizia l’uscita da casa. G. segue alla lettera le istruzioni di tutti, ed è finalmente pronta insieme ai sui figli a ricominciare la loro vita. Doccia gelata, non ci sono fondi, non ci sono case rifugio per donne vittime di violenza. Staranno “temporaneamente” in una struttura d’emergenza. Sono trascorsi due mesi, non potevano uscire (troppo vicino a casa e quindi pericoloso), nessuna notizia su nuove soluzioni, nessuna prospettiva di iscrivere i bambini a scuola, nessuna speranza di cercarsi un lavoro, di riavere una casa. La fiducia nella madre viene meno, non ha mantenuta la promessa. G. a sua volta non ha più fiducia in nessuno, non regge, non ci crede più e decide di tornare a casa. (Testimonianza della responsabile del centro Me.dea).

Il sistema sociale italiano riconosce il suo nucleo essenziale e funzionale nella famiglia. Alla famiglia chiede servizi e fornisce diritti, lo stato delega in cambio di ideologia. Ma questi sono alcuni esempi di ciò che succede in un sistema sociale e di welfare che si affida alle famiglie per contrastare l’effetto della crisi economica. Se te ne vai dalla famiglia che viola i tuoi diritti o la tua mente e il tuo corpo rimani sola e può succedere che ti ritrovi a dormire per strada dal momento che chiudono molti centri antiviolenza su tutto il territorio nazionale. Chi ti sostiene sono donne impegnate nella lotta contro la violenza di genere anche loro lasciate perlopiù sole dallo stato, che stanno cercando di resistere ma fanno sempre più fatica.

Abbiamo seguito una donna che è dovuta fuggire perché in pericolo di vita insieme al figlio di due mesi; ci siamo dovute attrezzare per pagare con i soldi dell’associazione una sistemazione per qualche giorno presso un bed and breakfast gestito dalle suore, in attesa che si liberasse uno dei pochissimi posti gratuiti disponibili in casa rifugio. (Testimonianza di una operatrice di Erinna, Viterbo).

Dal 1.1.2012 viviamo grazie al volontariato svolto dalle operatrici, dalle raccolte fondi privati (cene, eventi di beneficenza, banchetti). Con il 2011 sono terminati i trasferimenti a favore della prosecuzione delle attività degli sportelli di ascolto, le case rifugio non sono mai state finanziate, ad oggi la provincia di Alessandria ne è priva. (Testimonianza di una Responsabile del centro Me.dea).

I fondi si tagliano e non si ha neppure il coraggio di sostenerne la responsabilità, si creano piuttosto scuse ben documentate, metodologie di intervento supportate da teorie che alla prova dei fatti sono però dei veri e propri colabrodi. È il caso della cosiddetta giustizia riparativa. Applicata a donne adulte ed a minori suggerisce che è molto meglio restare in famiglia, che deve essere preservata, e propone interventi familiari insieme a chi ti sta massacrando. Certo è molto meno costoso, nei momenti di crisi i diritti diminuiscono. Dai dati di altre nazioni, come gli Stati Uniti, che hanno basato la propria politica di welfare sul concetto di family preservation, sappiamo inoltre che è del tutto inutile, ma anche loro continuano ad utilizzarla per un unico motivo: è economica! (È stato valutato un risparmio di 27000 dollari per ogni bambino che non viene ospitato fuori dalla casa familiare, nessuna valutazione però sugli effetti e sui costi di un bambino che continua ad essere abusato). Il rapporto tra tutela dei diritti e economia è strettissimo e molto delicato, ma le scelte politiche non devono necessariamente andare nel senso della riduzione dei servizi necessari a garantirli. Si tratta appunto di scelte. In Italia, il drastico ridimensionamento dei fondi statali di carattere sociale unito ai tagli delle regioni, così come deciso con la manovra finanziaria per il 2011, ha comportato un’importante riduzione degli interventi di politica sociale. Con la manovra Monti per le regioni si prevedono ulteriori tagli per 3,1 miliardi a decorrere dal 2012. Per i comuni oltre i 5mila abitanti sono previsti tagli per 1.450 miliardi nel 2012; della stessa entità, ma dal 2013, i tagli ai comuni con popolazione superiore ai 1.000 abitanti. Per le province, la riduzione dei trasferimenti sarà di 415 milioni a partire dal 2012 (Repubblica.it, economia e finanza).

Nello specifico dei servizi di sostegno alle donne vittime di violenza, i 18 milioni di euro stanziati dal Piano nazionale contro la violenza di genere e lo stalking del 2010 sono rimasti sulla carta, e le diverse manovre finanziarie hanno ridimensionato notevolmente i fondi per garantire il mantenimento dei servizi. In vista della mancanza di posti di accoglienza nelle case rifugio, spesso le operatrici dei centri hanno agito soluzioni di ripiego: il pagamento con le risorse dell’associazione di una retta per una stanza, l’inserimento delle donne e dei loro figli in alloggi di amici e parenti, con il grave rischio di avvicinamento del partner violento. La denuncia si leva forte per l’impossibilità di garantire la serenità e dare concretezza all’autodeterminazione della donna. I finanziamenti di breve durata o l’autofinanziamento cui fanno ricorso i centri esistenti si traducono nell’impossibilità di retribuire le operatrici o versare compensi alle volontarie, nella perdita di elementi qualificati, nella difficoltà a gestire i costi per la formazione e il continuo aggiornamento, nel disconoscimento dell’expertise trentennale maturata dai centri antiviolenza fino ad arrivare alla chiusura dei centri o a fare diventare uno sportello con convenzione scaduta un presidio dei diritti delle donne, come ha testimoniato Oria Gargano della cooperativa Be free, in Sportello donna 24ore, pubblicato nel numero 14 di xxd.

L’associazione nazionale D. I. Re, che coordina 58 centri antiviolenza e case delle donne su tutto il territorio italiano, ha diramato numerosi comunicati stampa chiedendo il rafforzamento delle politiche per la prevenzione e la lotta della violenza contro le donne. Nell’appello del 3 maggio a Giorgio Napolitano “La violenza dei numeri, la responsabilità di tutti” viene fatta richiesta di non tagliare i fondi per il sostegno a centri antiviolenza e case delle donne, e di firmare la Convenzione europea per la prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne.

La mancanza di risposte ci parla fin troppo evidentemente di una mancanza di interesse e tutte le dichiarazioni a favore dei diritti delle donne non fanno che offenderci quando sono accompagnate da misure e tagli di questo genere. Se si preferisce acquistare un caccia o garantire uno stipendio ad un city manager, se si preferisce preservare i privilegi dei potenti e dei loro protetti e garantire per esempio il mantenimento di sistemi ed ideologie aggressive bisognerebbe almeno essere chiari e permettere alle cittadine e ai cittadini di avere piena consapevolezza del sistema in cui vivono.

Non diteci che non ci sono soldi, ammettete piuttosto che non avete alcun interesse a proteggere i diritti delle donne

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XXD 16, CHE NON SIA L’ULTIMA

 

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EDITORIALE Non c’è bisogno di XXD? la Redazione
HUMOUR “Disegnare è il mio lavoro e uno strumento di lotta” di Alice nel paese delle femministe
SOCIETÀ Sex Worker: la strada è un vicolo cieco di M. Daniela Basile
DIBATTITO Pornoanimalismo? Parliamone di Agnese Pignataro
VIOLENZA 1 Storie di vite rubate dallo Stato di Natascia de Matteis e Stefania Doglioli
VIOLENZA 2 La caccia alle streghe non è mai finita di Stefania Doglioli
FEMMINISMI Sulla servitù delle donne di Marta Gallina
DALLA CRUNA DELL’AGO di Michele Poli
POST PORNO di Slavina
IN MEDIA STAT VIRTUS di Madame Corbeau
ISTANTANEE MUSICALI di Lucy Van Pelt
TWEET INVADERS di Donasonica
UNA DONNA AL MESE

Il 16° numero inizia con un contributo che non avremmo voluto scrivere. Da Luglio xxd non sarà più disponibile gratis online. Nell’editoriale Non c’è bisogno di xxd? la redazione vi invita a sostenere la rivista prenotando uno o più abbonamenti sul sito di produzioni dal basso (http://www.produzionidalbasso.com/pdb_917.html). Se non raggiungiamo le 500 quote, xxd 16 sarà l’ultimo numero in formato stampabile, anche se “vada come vada, continueremo ad essere impegnate nel femminismo culturalmente e politicamente”.
E per prenderla con ironia si parte con l’intervista di Alice nel paese delle femministe a Pat Carra, che racconta il suo lavoro politico dove le donne sono soggette di una narrazione irriverentemente femminista. Sex of humor è il suo ultimo lavoro, in uscita nelle librerie, recensito da Laura Mango.
Maria Daniela Basile, durante la conferenza nazionale sulla legalizzazione della prostituzione del 21 aprile a Roma, ha raccolto testimonianze dirette di sex worker e attiviste che chiedono diritti e legalità, denunciando il vicolo cieco in cui l’Italia tiene la questione rendendola invisibile.
Agnese Pignataro apre il dibattito sul pornanimalismo, indagando sulle relazioni tra sfruttamento animale e sessuale, a seguito di un forte dissenso del movimento animalista contro l’apertura da parte della Peta di un sito porno.
In Storie di vite rubate dallo Stato Natascia de Matteis e Stefania Doglioli hanno raccolto le testimonianze di operatrici di centri e sportelli antiviolenza, denunciando le conseguenze che i tagli ai fondi sociali avranno sulle vite delle donne.
In La caccia alle streghe non è mai finita, Stefania Doglioli fa una accurata riflessione di come un grave episodio di razzismo, l’incendio del campo rom della Continassa avvenuto a Torino lo scorso dicembre, sia stato mascherato da “difesa delle nostre donne”, con la complicità della stampa.
Marta Gallina ci racconta lo spirito e la grandezza di Harriet Taylor, una delle più influenti esponenti del primo femminismo, così come emerge nel testo di John Stuart Mill Sulla servitù delle donne.
E per le/gli appassionate/i non mancano le fantastiche rubriche: La Cruna dell’ago di Michele Poli, Postporno, questa volta scritto da Slavina, In Media Stat Virtus di Madame Corbeau, e infine la musica grazie alle Istantanee musicali di Lucy Van Pelt e Tweet invaders di donasonica.

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Gli animalisti e il corpo erotizzato

Di Agnese Pignataro – Le pubblicità dell’associazione animalista PETA sono spesso criticate in quanto sessiste per il fatto di veicolare i propri messaggi attraverso corpi nudi di belle donne. In realtà la PETA produce anche pubblicità con corpi nudi di uomini, ma è proprio tenendo conto di queste che il sessismo può essere pienamente colto. Difatti questi uomini, oltre che belli, sono rappresentati impegnati in diverse attività (in genere sportive, trattandosi di atleti), mentre le donne esibiscono esclusivamente la propria bellezza (anche quando sono atlete, come la nuotatrice Amanda Beard). Gli uomini della PETA sono cioè rappresentati come aventi un corpo che serve loro per fare varie cose, mentre le donne della PETA sono dei corpi, così come gli animali nella nostra società; l’uomo pubblicizza il veganismo come scelta alimentare che gli permette di eccellere nelle sue attività, mentre alla donna esso consente “solo” di essere bella e sana.

Se ci si ferma però a queste considerazioni si rischia di trasformare la PETA nel capro espiatorio del movimento di liberazione animale, esso stesso attraversato dalla problematica dell’uso del corpo e della genderizzazione dei ruoli militanti. Per esempio, un’azione come quella di mettere persone in vaschette incellophanate e insanguinate – in cui la vendita immaginaria di “carne umana” intende denunciare la riduzione delle vite animali a materia commestibile – può essere decifrata in modo diverso se i corpi nelle vaschette sono maschili o femminili. Di fatto, le militanti sono molto più disponibili dei loro colleghi maschi a mettere a disposizione il loro corpo per questo tipo di messa in scena; questo processo autoselettivo si concatena con la comodità dell’uso del corpo femminile: da un lato, esso attira di più lo sguardo del pubblico, dall’altro la sua esibizione è vissuta come meno problematica in virtù della sua sovraesposizione globale (in particolare nella società italiana).

Ovviamente, se gli animalisti si scandalizzano nel caso della PETA e non in quello delle vaschette è per via dell’erotizzazione del corpo femminile, evidente nel primo caso (ma non è detto che sia assente nel secondo). È chiaro che l’immagine femminile proposta dalla PETA, consistendo esclusivamente in immagini ammiccanti di donne giovani e belle, propaganda una stereotipizzazione della donna, della bellezza e dell’erotismo. Ma non sono neanche accettabili le critiche basate sull’idea che tali immagini offendano la “dignità della donna”, come spesso dicono gli animalisti: queste critiche sottintendono una certa repulsione della sfera sessuale, una lettura inconscia della corporeità erotica come degradazione della persona. Nell’appello Se non ora quando il concetto di “dignità della donna” associava la dignità a figure femminili “rispettabili” (la brava studentessa, la madre di famiglia che lavora…), ovvero che vivono la sessualità rispettando i confini delle norme patriarcali, limitandola a relazioni eterosessuali stabili e legandola obbligatoriamente a una dimensione affettiva. In questo schema, la donna che scavalca tali confini vivendo la propria sessualità e corporeità in modo libero, decidendo eventualmente di usarla come mezzo per raggiungere un fine, perde la propria dignità. Le donne che si spogliano per la PETA non sfuggono alla condanna: sono donne che cercano soldi e/o pubblicità, si sente spesso dire. Ecco allora che la riprovazione per la PETA nasconde anche lantica avversione per la prostituta e che l’“antisessismo” animalista si rivela venato di misoginia patriarcale.

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QUALCHE VOLTA GIUSTIZIA E’ FATTA!

Sentenza esemplare alla Corte d’assise d’appello de L’Aquila a favore di diciassette donne nigeriane costrette a prostituirsi sulla Bonifica del Tronto in condizioni di grave sfruttamento: 50.000 euro di provvisionale immediata per ogni ragazza, la revoca della confisca dei beni sequestrati agli imputati in favore dello stato e il sequestro conservativo in favore delle vittime.

La storia era cominciata quattro anni fa, quando la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Teramo trasmetteva alla sezione Anticrimine dell’Aquila apposita delega tendente a verificare la riduzione in schiavitù di giovani nigeriane, che, grazie al sostegno di On The Road e di BeFree, cooperativa sociale contro la tratta, violenze e discriminazioni,  erano riuscite a vincere il terrore e a fornire elementi importanti per le indagini sul racket dei trafficanti di esseri umani.

A conclusione del processo il GUP de l’Aquila aveva decretato condanne per oltre 100 anni per 19 imputati, riconoscendoli colpevoli di gravissimi reati quali associazione per delinquere finalizzata alla tratta, riduzione in schiavitù, immigrazione clandestina.

Ma gli avvocati delle associazioni attive nel contrasto al traffico di esseri umani (Guido Talarico e Michela Manente per OnThe Road, Cristina Perozzi che lavorano tra Abruzzo e Marche, e Carla Quinto di BeFree, radicata a Roma) volevano altro: volevano che le vittime fossero immediatamente risarcite con il danaro ed i beni sequestrati al ricco e spietato racket.

E questa è stata la richiesta dalla quale è partito l’appello, che si motivava con il richiamo a disposizioni specifiche: l’art. 600 septies c.p. (norma che esprime la clausola di salvezza “fatti salvi i diritti della persona offesa”, introducendo una sorta di privilegio a vantaggio del danneggiato dall’illecito, le cui pretese civilistiche si impongono su quelle ablative dello Stato), e la direttiva UE n. 36/2011 che impone il risarcimento alle vittime di tratta in particolare l’art. 13 impone di “..promuovere l’uso degli strumenti e proventi sequestrati e confiscati provenienti dai reati di cui alla presente direttiva per finanziare l’assistenza e la protezione delle vittime, compreso il loro risarcimento.

La vittoria dei legali specializzati sul traffico di esseri umani rappresenta un fatto  importante nella lotta alla tratta e nella costruzione di una società civile consapevole di quanto il reato sia grave e devastante per le vittime. Esprime un valore altamente simbolico, oltre che immediatamente monetario: riconosce come profondamente devastante il danno che deriva alle vittime dalla condizione nella quale sono imprigionate,  in un momento in cui i governi nazionali e locali non sanno che esprimere politiche repressive, securitarie e di “decoro urbano” nei confronti delle cosiddette “prostitute”.

Che sono invece, e questa sentenza lo ribadisce, vittime di un gravissimo reato transnazionale che ne lede i diritti fondamentali.

BeFree e On The Road, costituitesi parte civile nel processo, hanno ottenuto 10.000 euro di risarcimento.

 

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Voilà il numero 15!

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EDITORIALE
Il governo dei banchieri di Daniela Danna
MATRIARCATO 1
Incontro con Bernie Muthien di Alice nel paese delle femministe

Al convegno Culture indigene di pace di Torino era presente una studiosa e femminista queer khoi-san, che abbiamo intervistato “nelle pieghe del convegno”

MATRIARCATO 2
Tra le moso:
il matriarcato che esiste de La Redazione

Al medesimo convegno torinese sono state invitate due donne dell’etnia moso, che vivono in Xina.l’antropologa Francesca Rosati Freeman le ha introdotte con una vivace descrizione della loro società

FEMMINISMI
Le donne, le istituzioni, la militanza di Ornella Guzzetti

Le associazioni delle donne bussano alle porte dei comuni, del parlamento, del governo. raccolgono e portano le richieste dal basso. la questione della violenza sulle donne ritorna ad unire realtà molto diverse del femminismo italiano. Serve un’azione comune.

SOCIETÀ
All’ Accademia della felicità di Veruska Sabucco

Dobbiamo desiderare di essere mogli e madri perfette, dobbiamo esigere una carriera che ci gratifica e assorbe ma che dobbiamo voler sacrificare per la famiglia, dobbiamo amare mamma, papà i vicini e i cagnolini e dobbiamo voler essere sexy 24/7. Ma se non dovessimo, cosa davvero ci piacerebbe? Francesca Zampone, coach di lungo corso, se lo chiede con noi.
DALLA CRUNA DELL’AGO di Michele Poli: Senza paura
POST PORNO di Rachele Borghi: Un sabato a scuola di squirting
NAVIGARE DA PIRATE di Laura Mango: La paranza
ISTANTANEE MUSICALI di Lucy Van Pelt: Exilia-Schilirà-Lo spirito del pianeta
TWEET INVADERS di Donasonica: #5
UNA LIBBRA DI CARNE di Agnese Pignataro: Gli animalisti e il corpo erotizzato
CI GIRANO LE OVAIE di Veruska Sabucco: Dexter to Watch Out For
TRE CIVETTE di Alessia Muroni: La radicalità del limite
UNA DONNA AL MESE

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