di Stefania Prandi. (xxd 9, luglio 2011)
Essere transessuali non significa avere un disturbo mentale. Ne sono convinti gli psichiatri, gli avvocati e gli attivisti delle associazioni che fanno parte della Rete internazionale per la depatologizzazione delle identità trans. Questo movimento chiede che il transessualismo venga tolto dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm, acronimo della sigla inglese Diagnostic and statistical manual), considerato la Bibbia della psichiatria, visto il larghissimo numero di specialisti che lo utilizzano come principale riferimento per la propria attività clinica e di ricerca. Il Dsm classifica il transessualismo come “disturbo dell’identità di genere” (Dig) – chiamandolo anche “disforia di genere”. Tra i criteri diagnostici include “una forte e persistente identificazione col sesso opposto” e “un persistente malessere riguardo al proprio sesso o senso di estraneità riguardo al ruolo sessuale del proprio sesso”.
Da anni psichiatri e attivisti contestano la patologizzazione del transessualismo. La loro battaglia è diventata di particolare attualità perché all’inizio del 2012 il Dsm (la cui ultima edizione risale al 1994) dovrà essere rinnovato.
Secondo le indicazioni in vigore, soltanto dopo la diagnosi di uno specialista si può procedere con la cura ormonale, l’intervento chirurgico per la rimozione degli organi riproduttori (e per l’eventuale ricostruzione degli organi genitali) e il conseguente cambio di nome sui documenti di identità. La Rete per la depatologizzazione del transessualismo chiede, attraverso l’eliminazione della diagnosi, che la persona transessuale venga messa nella condizione di decidere da sola che cosa fare con il proprio corpo. Come viene spiegato nel manifesto che è stato redatto in occasione della campagna per il 2012, la diagnosi non rappresenta altro che un dispositivo attraverso il quale le “identità e i corpi” delle persone transessuali vengono riconosciuti come “non a norma”.
“La psichiatrizzazione – si legge nel manifesto – dà di fatto alle istituzioni medico- psichiatriche il controllo delle nostre identità di genere. La pratica corrente di queste istituzioni, motivate da interessi di stato, religiosi, economici e politici, riflette e riproduce il binomio maschio/femmina, spacciando questa posizione per quella “vera” e naturale. Questo binomio suppone la sola esistenza di due corpi (maschio e femmina) e associa un determinato comportamento a ciascuno di essi (maschile e femminile). Allo stesso tempo ha tradizionalmente considerato l’eterosessualità come l’unica possibile relazione tra i due”.
Depatologizzare il transessualismo, però, potrebbe avere una conseguenza che non tutti i e le trans sono disposti ad accettare: la perdita del sostegno economico da parte dello Stato nel percorso di transizione e nell’operazione. Uno Stato che accettasse che è un diritto delle persone transessuali “cambiare nome e sesso sui documenti ufficiali senza doversi sottoporre a monitoraggio medico o psichiatrico” e che rinunciasse ad avere giurisdizione su nomi, corpi o identità, potrebbe sentirsi sollevato dal dovere di sostenere economicamente il percorso di transizione che, a quel punto, assumerebbe il valore di una pura scelta personale. Se questo rischio diventasse realtà, il percorso del cambio di sesso diventerebbe possibile soltanto per i pochi ricchi in grado di pagare di tasca propria. Come spiega Judith Butler nel saggio “Dilemmi diagnostici” contenuto nella raccolta di saggi La disfatta del genere, “sebbene la diagnosi di disforia di genere sia passabile di aspre critiche sarebbe errato esigerne l’annullamento senza prima aver creato un insieme di strutture attraverso le quali poter sostenere economicamente il cambio di sesso e acquistare lo status legale. In altre parole se la diagnosi rappresenta oggi lo strumento attraverso cui è possibile raggiungere i benefici e lo status desiderati non è semplice eliminarla, senza prima avere trovato altri modi, stabili nel tempo, per ottenere gli stessi risultati”.