
V: Simone De Beauvoir ha scritto ne Le deuxième sexe (1949) la celebre frase “Donne non si nasce, si diventa”. Ma io vorrei chiedere a te: come si diventa femminista? Come è diventata femminista Christine Delphy? Prima del tuo coinvolgimento nel nascente Mouvement de Liberation de la Femme a Parigi dov’eri? Quali letture, incontri, avvenimenti pensi abbiano segnato il tuo divenire femminista?
C: Diventare femminista: ci sono percorsi, cammini diversi, posso parlare con sicurezza solo di quello che è stato il mio. Sicuramente mi indignai molto presto dei vantaggi goduti da ragazzi e uomini, o delle interdizioni che ci erano ingiustamente imposte. Non ricordo più contro cosa in particolare o in generale protestavo, ma ricordo molto bene una frase che mio padre pronunciava spesso, quando esplodevo durante i pasti in famiglia. “Non essere femminista”!
Ricordo anche che non sapevo cosa esattamente cio significasse, ma capivo che era qualcosa che non andava bene, che non bisognava fare e che quindi era necessario difendersene. Così, non ho mai cessato di protestare, di domandare a voce alta davanti alla mia famiglia o alle mie amiche di scuola, perché le donne dovevano fare questo o quello, facendo però precedere le mie sortite da “Io non sono femminista, ma …”, una frase che ho poi ritrovato in seguito dappertutto.
Ma non protestavo a proposito delle stesse cose davanti alla mia famiglia e alle mie amiche. Così, il fatto che le donne dovessero cucinare e occuparsi dei lavori domestici, e soprattutto che mia madre lo dovesse fare, mentre mio padre leggeva il giornale, nonostante entrambi lavorassero, m’indignava particolarmente, ma di questo non parlavo mai a casa.
Del resto, durante l’infanzia, la mia famiglia mi valorizzava enormemente e immaginava per me un avvenire glorioso, particolarmente mia madre e i suoi due fratelli. Non c’erano limiti all’ambizione che avevano per me, alla fede che nutrivano nelle mie capacità. Non c’era nulla che mi fosse proibito perché “donna”: così, quando all’esterno della mia famiglia, feci esperienza di queste proibizioni, limitazioni o giudizi del tipo “due pesi, due misure”, divenni furiosa.
Così, ben presto, sperimentai un forte sentimento d’ingiustizia, l’ingiustizia generale e duratura fatta alle donne, e a ciascuna donna individualmente, lungo tutta la sua esistenza, in tutti i campi.
Questa ingiustizia, la vedevo all’opera nelle relazioni amorose che erano il soggetto dei romanzi classici che leggevo all’epoca. Ma poiché erano per la maggior parte opere del 19o secolo, ero persuasa che tutto questo non mi riguardasse, perché io vivevo nel 20o secolo. Ma ben presto subii io stessa il meccanismo “due pesi, due misure”, soprattutto a partire dall’adolescenza: le ragazze, e non i ragazzi, erano catturate in una vera e propria tela di ragno di ingiunzioni paradossali, in un labirinto irto di trappole.
Al momento di andare all’università, mi iscrissi a sociologia, senza ben sapere cosa fosse. I corsi che più mi interessarono furono quelli di psicologia sociale, con Stoetzel e Maisonneuve: imparai che tutto – o quasi tutto – quello che siamo portati a considerare come reazioni “naturali” e che attibuiamo alla natura umana universale, è di fatto culturale. Da allora guardai al mondo, alle sue credenze e convenzioni, attraverso questo prisma che mi dava distanza e distacco e che , in una certa misura, mi liberava. Quello che all’epoca definivo relatisvismo era più che un prisma, era anche un’arma con la quale resistere, perlomeno interiormente, alle pressioni e alle sanzioni. Fu in quel periodo che lessi il Secondo sesso di Simone de Beauvoir. Dopo averlo letto, per lungo tempo, il ricordo che ne serbai, fu quello di una delusione: mi sembrava che De Beauvoir non fosse andata molto lontano. Soltanto rileggendolo mi sono poi resa conto che molte delle cose che credevo di pensare io sola, le avevo trovate nel suo libro. Le avevo prese lì, o può darsi erano già in me, pronte a esplodere, ma ancora non formulate: come hanno sperimentato tante altre donne, Simone De Beauvoir, “aveva messo delle parole” su quello che sentivo. Poi, una volta terminata l’università, ottenni una borsa di studio per l’Università di Chicago.
V. : La borsa era quella della Fondazione Eleanor Roosevelt per i diritti umani e ti ha permesso di restare negli Stati Uniti per tre anni, dal 1962 al 1965. Dopo il primo anno all’Università sei riuscita a entrare nel programma graduate (post-diploma) dell’Università di Berkeley dove, sotto la supervisione di Erving Goffman, hai scritto una lunga dissertazione su Freud, purtroppo perduta. Puoi parlarci di questa tua lettura freudiana?
C.: Lessi Freud in un crescendo di indignazione e di sollievo. Da un lato ero inorridita dalla perversità della sua teoria, che enunciava una inferiorità psicologica delle donne dalla quale discendeva la loro inferiorità sociale, ma facendone portare la responsabilità alle donne stesse, alla loro percezione della loro propria anatomia, dicendo che questa percezione era fondata, che le donne percepivano precisamente la realtà del loro essere anatomicamente inferiori. Dall’altro lato, vedendo i tesori di sofismi e di semplificazioni ingiustificate che egli dispensava per arrivare al suo fine (cioè difendere come sola sessualità “normale” il coito eterosessuale), compresi, all’inverso di quanto lui sosteneva, che questa preminenza era puramente sociale, e che gli/le omosessuali erano un gruppo stigmatizzato. In questa dissertazione, dimostravo che il fine teorico di Freud era di far coincidere il logos, la ragione, con l’anankè, il destino, che lui chiamava principio di realtà (così, quando egli scrive che l’anatomia è il destino, pensa a questa accezione di destino come realtà). Freud non accettava che le relazioni umane possano avere molteplici sensi, che la realtà è soggettiva. O piuttosto, al sua soggettività dominante gli impediva d’immaginare che altri possano interpretare la realtà in maniera differente e altrettanto valida. Tutte le altre interpretazioni gli apparivano come ”rifiuto della realtà”. Questa lettura ebbe dunque l’effetto d’indignarmi e nello stesso tempo di liberarmi, mostrandomi con che cosa noi, le donne e gli/le omosessuali, avessimo a che fare.
V: In molte occasioni hai sottolineato l’importanza e l’influenza esercitate da questo soggiorno statunitense sul tuo percorso intellettuale e politico, di come esso abbia orientato la tua ricerca universitaria in una prospettiva di genere, ti abbia reso sensibile al razzismo e contemporaneamente ti abbia messo di fronte a un paradosso.
C.: Sì, l’esperienza americana mi ha resa sensibile al razzismo, che non percepivo in Francia e che impiegai ancora molto tempo a percepire dopo il mio ritorno. La guerra del Vietnam, e le misere razionalizzazioni che gli americani, compresi alcuni amici, mettevano in campo per difenderla, mi hanno fatto avanzare verso una radicalizzazione “progressista” o di “sinistra”. Ma soprattutto, il mio lavoro con la sezione di Washington della National Urban League – una delle due più grandi e antiche associazioni per la difesa dei diritti dei neri con la Naacp – e le molestie che ho subìto dal direttore e da un collega, mi ha fatto sbattere contro un paradosso: lavoravo per “i neri”, contro il loro sfruttamento ad opera dei “bianchi”, e gli uomini neri hanno tentato si sfruttarmi, approfittando del mio statuto inferiore di donna, mentre io mi rifiutavo di approfittare del loro statuto inferiore di Neri. O meglio: se essi potevano tentare di sfruttarmi, era proprio perché io lavoravo per la loro causa. Una decisione cominciò a prendere forma nella mia testa: oramai, non lotterò per nessun altro che per my people. “My people” è un’espressione difficilmente traducibile in francese: non è il “mio popolo” in senso nazionale, significa i “miei”, i “miei simili”. E tuttavia non era ancora giunto il momento di poter anche solo immaginare una lotta collettiva delle donne, né qui né altrove; e gli Stati Uniti erano l’ultimo paese in cui io l’avrei immaginata, poiché trovavo le americane molto più “alienate” (all’epoca non utilizzavo questa parola) che le francesi. Questa lotta partì tuttavia nel 1968, tre anni dopo la mia partenza, come del resto in Francia. E le ragioni delle americane sono state le stesse delle francesi o delle inglesi: le donne che hanno partecipato con entusiasmo e sincerità ai movimenti progressisti sono state trattate – nei movimenti per i diritti civili così come nei movimenti contro la guerra o nei movimenti studenteschi del 68 come delle assistenti e degli oggetti sessuali da parte degli uomini che dirigevano la lotta. Mi sono unita, nel maggio 1968, ad un piccolo gruppo di donne, il FMA (Féminin masculin avenir) e il gruppo è andato avanti fino al 1970, quando leggemmo un articolo scritto da Monique Wittig e altre tre donne Combat pour la libération des femmes. Le abbiamo incontrate e qualche mese più tardi il MLF (Mouvement de Libération des femmes) esisteva.
Christine Delphy è oggi ricercatrice al Cnrs. Nel 1968 entra a far parte del Fma (Féminin, masculin, avenir) uno dei gruppi che daranno origine al nuovo movimento femminista francese. Il Fma, originariamente misto, era nato per rimettere in questione il matrimonio, la famiglia, le strutture autoritarie che si oppongono a una reale emancipazione della donna. Il gruppo fa, in seguito, una scelta separatista: le donne per analizzare la loro oppressione specifica e determinare i loro propri modi di lotta devono separarsi dai loro oppressori, gli uomini. Nel 1970, alcune donne e tra queste Monique Witting pubblicano: “Pour un mouvement de libération des femmes” e dall’incontro tra queste e le donne del Fma ha origine il Mlf. L’apporto di Delphy al femminismo di quegli anni si basa principalmente sulla tesi che le donne formano, indipendentemente dalle loro differenze di classe, uno specifico gruppo sociale. Questo si definisce per il comune stato d’oppressione e sfruttamento da parte degli uomini. Più in particolare il patriarcato – il nemico principale – non è riducibile al capitalismo, ma ha una specifica base economica individuata da Delphy nel modo di produzione domestico, con il matrimonio come “contratto” di servitù.
Principali pubblicazioni:
Familiar exploitation: a New Analysis of Marriage in Contemporary Western Societies (con Diana Leonard), Cambridge, Polity Press, 1992.
L’ennemi principal. 1/Économie politique du patriarcat, Paris, Syllepse, 1998
L’ennemi principal. 2/Penser le genre, Paris, Syllepse, 2001
Pour sortir du libéralisme, (con Yves Salesse), Paris, Syllepse, 2002
Classer, dominer. Qui sont les « autres »?, Paris, La fabrique, 2008
Un universalisme si particulier, Paris, Syllepse, 2010
Articoli in italiano:
“Il nemico principale“, in Anabasi, Donne è bello, numero unico, 1970
“Un diritto al posto di un altro? Il dibattito sul velo in Francia”, in Solidarietà, n° 4, 2004, http://www.solidarieta.ch/portale/modules/news/article.php?storyid=115
“Ritrovare lo slancio del femminismo”, in Solidarietà, n° 1, 2005 http://www.solidarieta.ch/portale/modules/news/article.php?storyid=523
Vedi la versione integrale della scheda sul blog di Vincenza Perilli
http://marginaliavincenzaperilli.blogspot.com/2007/03/christine-dephy-una-scheda-bio.html