Libri ritrovati: Un classico del femminismo italiano

La depressione dopo il parto

Dentro a un’anodina copertina celestino pallido e al titolo davvero poco accattivante de La depressione dopo il parto si nasconde invece un vero e proprio classico del femminismo che XXD pubblica nella sezione ‘speciali’.

Sul numero di giugno, tra breve on line, nella rubrica ‘Libri perduti’, la scheda di Daniela Danna.

Leggi o scarica il libro di Patrizia Romito: La depressione dopo il parto. Nascita di un figlio e disagio delle madri, Il mulino 1992 in formato .pdf
 

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Psychovox – La Scelta (2011)

di Lucy Van Pelt

Secondo album per questo trio che viene dalla Brianza e che si presenta con la classica formazione chitarra (Francesco Carbone), batteria (Mauro Giletto), basso e voce (Laura Spada). Li ho visti calcare i palchi più volte e sempre sono rimasta impressionata dalla potenza che sprigionano in concerto, come se i suoni del disco prendessero vita e si dilatassero in immagini suggestive che rapiscono fino all’ultima nota. Rispetto al precedente Paura del Vuoto le sonorità de La Scelta sono divenute più asciutte, ma probabilmente anche più incisive e d’impatto. Ascoltandoli, si sente che gli Psychovox hanno masticato tutto quel rock alternativo che fa capo a gruppi come Afterhours o Verdena (anche loro trio, fra l’altro, anche loro con una bravissima bassista, Roberta Sammarelli). Tuttavia il risultato che si evidenzia è qualcosa di omogeneo e perfettamente digerito in un personalissimo stile che non cerca appigli né riferimenti ad altri gruppi più o meno conosciuti. La Scelta non è altro che un concept album (raccolta di brani che ruotano attorno a un unico tema), in cui l’uomo, inteso come umanità, diventa il filo conduttore. Si parte dalla presa di coscienza della propria mancanza di libertà, perchè come recitano le parole di Jiddu Krishnamurti sul retro del libretto: La scelta c’è dove c’è confusione. Per la mente che vede con chiarezza non c’è necessità di scelta, c’è azione. Penso che molti problemi scaturiscano dal dire che siamo liberi di scegliere, che la scelta significa libertà. Al contrario, io direi che la scelta significa una mente confusa, e perciò non libera. I testi (scritti quasi totalmente da Laura Spada) pervadono di un senso d’inquietudine e rabbia, senza mai eccedere nella retorica, e s’intrecciano perfettamente con la tensione emotiva trasmessa dagli strumenti e dalla voce, che spingono le melodie verso un confine quasi bieco e minaccioso, al limite dell’obliquo. L’uomo è il fulcro nelle sue scelte, nella ricerca di fede, di un divino reale e tangibile: nel brano Caino sembra aver frainteso ciò che può appagare la sua ricerca (“Prega per avere più denaro / prega per sentirsi migliore / prega per alimentare speranza, illusione e perdono / prega per arrivare primo / prega perchè in fondo ha paura di morire”), come a voler allontanare l’ansia dell’unica cosa certa: la morte. L’angoscia può sfociare nell’astrazione mentale, nel desiderio di allontanamento da una lucidità impostaci dalla società in cui viviamo (“Seduti, distratti, protetti dalla sicurezza e la comodità barattiamo false promesse con la coscienza e la dignità con la lucidità… Abbiamo occhi secolari, loro sanno, guardano la verità…” – Da Occhi Secolari). Alla fine il Divino, come rimedio al male, lo possiamo trovare solo in noi stessi (“Come non essere schiavo delle tue paure / come non provare gusto a possedere / a non farsi fottere dall’illusione / ascolta il divino che è dentro di te… “- Da Il Divino). Lo stesso concetto è espresso anche nel pezzo di congedo Addio (“Non ho saputo dirti addio / ho scritto le parole su di un foglio che ho gettato via […] la mia verità sarà l’unica cosa, la mia lucidità sarà l’unica cosa che resterà, che mi salverà…”). Un acquisto che consiglio vivamente a chi ama il rock alternativo. C’è inoltre da dire che il gruppo ha registrato senza avvalersi di alcuna produzione o etichetta, una chiara e apprezzabile scelta artistica, soprattutto visto un risultato così profondo e ben elaborato. Per ascoltare la musica dei Psychovox andate sul loro myspace.
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Matrimoni forzati: seminario

riceviamo da Trama di terre:

Care e cari,
inviamo l’invito al invito convegno 27 maggio 2011 e al invito seminario 28 maggio 2011organizzati da Trama di Terre per il 27 e il 28 maggio prossimi, raccomandandovi di iscrivervi per tempo. Fate attenzione perchè si tratta di due iniziative differenti anche se collegate, per cui sono necessarie due differenti iscrizioni, da effettuare tramite il sito: www.tramaditerre.org
In allegato trovate i programmi delle due giornate.
Cari saluti a tutte/i,
le donne di Trama di Terre

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I NUOVI METODI PER AVERE FIGLI

di Ornella Guzzetti. (xxd 7, maggio 2011)

In Francia, in un centro espositivo frequentato da scolaresche e famiglie in gita domenicale, si è discusso della legge sulla bioetica approvata nel 1994, già modificata una volta e ora di nuovo in corso di revisione, per decidere se ammettere o meno alcune pratiche rese possibili dai progressi in campo medico ma che riguardano questioni etiche complesse e delicate come togliere l’anonimato dei donatori di gameti, ridiscutere la gratuità della donazione, approvare la procreazione assistita di donne single o coppie dello stesso sesso, ampliare la diagnosi genetica preimpianto, permettere la maternità surrogata.

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ALLAH, FATIMA, AISHA E IL FEMMINISMO

di Sara Hejazi (xxd 7, maggio 2011)

L’interpretazione del corano e la dimestichezza con la shari’a non sono più prerogativa esclusiva di barbuti uomini in turbante. In Medio Oriente il cammino verso una rilettura della società patriarcale a favore di un più equilibrato rapporto tra i generi passa attraverso una versione inedita dell’Islam, fattosi garante della lotta per l’uguaglianza tra i sessi. Si tratta di un processo iniziato ormai quaranta anni fa, anche se ancora poco noto in Europa e negli Stati Uniti, e che sta andando affinandosi sempre più, acquistando credibilità proprio laddove il modello femminista occidentale va perdendo fascino ed attrattiva.

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INTERVISTA A CHRISTINE DELPHY

di Vincenza Perilli (xxd 7, maggio 2011)

V: Simone De Beauvoir ha scritto ne Le deuxième sexe (1949) la celebre frase “Donne non si nasce, si diventa”. Ma io vorrei chiedere a te: come si diventa femminista? Come è diventata femminista Christine Delphy? Prima del tuo coinvolgimento nel nascente Mouvement de Liberation de la Femme a Parigi dov’eri? Quali letture, incontri, avvenimenti pensi abbiano segnato il tuo divenire femminista?

C: Diventare femminista: ci sono percorsi, cammini diversi, posso parlare con sicurezza solo di quello che è stato il mio. Sicuramente mi indignai  molto presto dei vantaggi goduti da ragazzi e uomini, o delle interdizioni che ci erano ingiustamente imposte. Non ricordo più contro cosa in particolare o in generale protestavo, ma ricordo molto bene una frase che mio padre pronunciava spesso, quando esplodevo durante i pasti in famiglia. “Non essere femminista”!

Ricordo anche che non sapevo cosa esattamente cio significasse, ma capivo che era qualcosa che non andava bene, che non bisognava fare e che quindi era necessario difendersene. Così, non ho mai cessato di protestare, di domandare a voce alta davanti alla mia famiglia o alle mie amiche di scuola, perché le donne dovevano fare questo o quello, facendo però precedere le mie sortite da “Io non sono femminista, ma …”, una frase che ho poi ritrovato in seguito dappertutto.

Ma non protestavo a proposito delle stesse cose davanti alla mia famiglia e alle mie amiche. Così, il fatto che le donne dovessero cucinare e occuparsi dei lavori domestici, e soprattutto che mia madre lo dovesse fare, mentre mio padre leggeva il giornale, nonostante entrambi lavorassero, m’indignava particolarmente, ma di questo non parlavo mai a casa.

Del resto, durante l’infanzia, la mia famiglia mi valorizzava enormemente e immaginava per me un avvenire glorioso, particolarmente mia madre e i suoi due fratelli. Non c’erano limiti all’ambizione che avevano per me, alla fede che nutrivano nelle mie capacità. Non c’era nulla che mi fosse proibito perché “donna”: così, quando all’esterno della mia famiglia, feci esperienza di queste proibizioni, limitazioni o giudizi del tipo “due pesi, due misure”, divenni furiosa.

Così, ben presto, sperimentai un forte sentimento d’ingiustizia, l’ingiustizia generale e duratura fatta alle donne, e a ciascuna donna individualmente, lungo tutta la sua esistenza, in tutti i campi.

Questa ingiustizia, la vedevo all’opera nelle relazioni amorose che erano il soggetto dei romanzi classici che leggevo all’epoca. Ma poiché erano per la maggior parte opere del 19o secolo, ero persuasa che tutto questo non mi riguardasse, perché io vivevo nel 20o secolo. Ma ben presto subii io stessa il meccanismo “due pesi, due misure”, soprattutto a partire dall’adolescenza: le ragazze, e non i ragazzi, erano catturate in una vera e propria tela di ragno di ingiunzioni paradossali, in un labirinto irto di trappole.

Al momento di andare all’università, mi iscrissi a sociologia, senza ben sapere cosa fosse. I corsi che più mi interessarono furono quelli di psicologia sociale, con Stoetzel e Maisonneuve: imparai che tutto – o quasi tutto – quello che siamo portati a considerare come reazioni “naturali” e che attibuiamo alla natura umana universale, è di fatto culturale. Da allora guardai al mondo, alle sue credenze e convenzioni, attraverso questo prisma che mi dava distanza e distacco e che , in una certa misura, mi liberava. Quello che all’epoca definivo relatisvismo era più che un prisma, era anche un’arma con la quale resistere, perlomeno interiormente, alle pressioni e alle sanzioni. Fu in quel periodo che lessi il Secondo sesso di Simone de Beauvoir. Dopo averlo letto, per lungo tempo, il ricordo che ne serbai, fu quello di una delusione: mi sembrava che De Beauvoir non fosse andata molto lontano. Soltanto rileggendolo mi sono poi resa conto che molte delle cose che credevo di pensare io sola, le avevo trovate nel suo libro. Le avevo prese lì, o può darsi erano già in me, pronte a esplodere, ma ancora non formulate: come hanno sperimentato tante altre donne, Simone De Beauvoir, “aveva messo delle parole” su quello che sentivo. Poi, una volta terminata l’università, ottenni una borsa di studio per l’Università di Chicago.

V. : La borsa era quella della Fondazione Eleanor Roosevelt per i diritti umani e ti ha permesso di restare negli Stati Uniti per tre anni, dal 1962 al 1965. Dopo il primo anno all’Università sei riuscita a entrare nel programma graduate (post-diploma) dell’Università di Berkeley dove, sotto la supervisione di  Erving Goffman, hai scritto una lunga dissertazione su Freud, purtroppo perduta. Puoi parlarci di questa tua lettura freudiana?

C.: Lessi Freud in un crescendo di indignazione e di sollievo. Da un lato ero inorridita dalla perversità della sua teoria, che enunciava una inferiorità psicologica delle donne dalla quale discendeva la loro inferiorità sociale, ma facendone portare la responsabilità alle donne stesse, alla loro percezione della loro propria anatomia, dicendo che questa percezione era fondata, che le donne percepivano precisamente la realtà del loro essere anatomicamente inferiori. Dall’altro lato, vedendo i tesori di sofismi e di semplificazioni ingiustificate che egli dispensava per arrivare al suo fine (cioè difendere come sola sessualità “normale” il coito eterosessuale), compresi, all’inverso di quanto lui sosteneva, che questa preminenza era puramente sociale, e che gli/le omosessuali erano un gruppo stigmatizzato. In questa dissertazione, dimostravo che il fine teorico di Freud era di far coincidere il logos, la ragione, con l’anankè, il destino, che lui chiamava principio di realtà (così, quando egli scrive che l’anatomia è il destino, pensa a questa accezione di destino come realtà). Freud non accettava che le relazioni umane possano avere molteplici sensi, che la realtà è soggettiva. O piuttosto, al sua soggettività dominante gli impediva d’immaginare che altri possano interpretare la realtà in maniera differente e altrettanto valida. Tutte le altre interpretazioni gli apparivano come ”rifiuto della realtà”. Questa lettura ebbe dunque l’effetto d’indignarmi e nello stesso tempo di liberarmi, mostrandomi con che cosa noi, le donne e gli/le omosessuali, avessimo a che fare.

V: In molte occasioni hai sottolineato l’importanza e l’influenza esercitate da questo soggiorno statunitense sul tuo percorso intellettuale e politico, di come esso abbia orientato la tua ricerca universitaria in una prospettiva di genere, ti abbia reso sensibile al razzismo e contemporaneamente ti abbia messo di fronte a un paradosso.

C.: Sì, l’esperienza americana mi ha resa sensibile al razzismo, che non percepivo in Francia e che impiegai ancora molto tempo a percepire dopo il mio ritorno. La guerra del Vietnam, e le misere razionalizzazioni che gli americani, compresi alcuni amici, mettevano in campo per difenderla, mi hanno fatto avanzare verso una radicalizzazione “progressista” o di “sinistra”. Ma soprattutto, il mio lavoro con la sezione di Washington della National Urban League – una delle due più grandi e antiche associazioni per la difesa dei diritti dei neri con la Naacp e le molestie che ho subìto dal direttore e da un collega, mi ha fatto sbattere contro un paradosso: lavoravo per “i neri”, contro il loro sfruttamento ad opera dei “bianchi”, e gli uomini neri hanno tentato si sfruttarmi, approfittando del mio statuto inferiore di donna, mentre io mi rifiutavo di approfittare del loro statuto inferiore di Neri. O meglio: se essi potevano tentare di sfruttarmi, era proprio perché io lavoravo per la loro causa. Una decisione cominciò a prendere forma nella mia testa: oramai, non lotterò per nessun altro che per my people. “My people” è un’espressione difficilmente traducibile in francese: non è il “mio popolo” in senso nazionale, significa i “miei”, i “miei simili”. E tuttavia non era ancora giunto il momento di poter anche solo immaginare una lotta collettiva delle donne, né qui né altrove; e gli Stati Uniti erano l’ultimo paese in cui io l’avrei immaginata, poiché trovavo le americane molto più “alienate” (all’epoca non utilizzavo questa parola) che le francesi. Questa lotta partì tuttavia nel 1968, tre anni dopo la mia partenza, come del resto in Francia. E le ragioni delle americane sono state le stesse delle francesi o delle inglesi: le donne che hanno partecipato con entusiasmo e sincerità ai movimenti progressisti sono state trattate – nei movimenti per i diritti civili così come nei movimenti contro la guerra o nei movimenti studenteschi del 68 come delle assistenti e degli oggetti sessuali da parte degli uomini che dirigevano la lotta. Mi sono unita, nel maggio 1968, ad un piccolo gruppo di donne, il FMA (Féminin masculin avenir) e il gruppo è andato avanti fino al 1970, quando leggemmo un articolo scritto da Monique Wittig e altre tre donne Combat pour la libération des femmes. Le abbiamo incontrate e qualche mese più tardi il MLF (Mouvement de Libération des femmes) esisteva.

Christine Delphy è oggi ricercatrice al Cnrs. Nel 1968 entra a far parte del Fma (Féminin, masculin, avenir) uno dei gruppi che daranno origine al nuovo movimento femminista francese. Il Fma, originariamente misto, era nato per rimettere in questione il matrimonio, la famiglia, le strutture autoritarie che si oppongono a una reale emancipazione della donna. Il gruppo fa, in seguito, una scelta separatista: le donne per analizzare la loro oppressione specifica e determinare i loro propri modi di lotta devono separarsi dai loro oppressori, gli uomini. Nel 1970, alcune donne e tra queste Monique Witting pubblicano: “Pour un mouvement de libération des femmes” e dall’incontro tra queste e le donne del Fma ha origine il Mlf.  L’apporto di Delphy al femminismo di quegli anni si basa principalmente sulla tesi che le donne formano, indipendentemente dalle loro differenze di classe, uno specifico gruppo sociale. Questo si definisce per il comune stato d’oppressione e sfruttamento da parte degli uomini. Più in particolare il patriarcato – il nemico principale – non è riducibile al capitalismo, ma ha una specifica base economica individuata da Delphy nel modo di produzione domestico, con il matrimonio come “contratto” di servitù.

Principali pubblicazioni:

Familiar exploitation: a New Analysis of Marriage in Contemporary Western Societies (con Diana Leonard), Cambridge, Polity Press, 1992.

L’ennemi principal. 1/Économie politique du patriarcat, Paris, Syllepse, 1998

L’ennemi principal. 2/Penser le genre, Paris, Syllepse, 2001

Pour sortir du libéralisme, (con Yves Salesse), Paris, Syllepse, 2002

Classer, dominer. Qui sont les « autres »?, Paris, La fabrique, 2008

Un universalisme si particulier, Paris, Syllepse, 2010

Articoli in italiano:

“Il nemico principale“, in Anabasi, Donne è bello, numero unico, 1970

“Un diritto al posto di un altro? Il dibattito sul velo in Francia”, in Solidarietà, n° 4, 2004, http://www.solidarieta.ch/portale/modules/news/article.php?storyid=115

“Ritrovare lo slancio del femminismo”, in Solidarietà, n° 1, 2005 http://www.solidarieta.ch/portale/modules/news/article.php?storyid=523

Vedi la versione integrale della scheda sul blog di Vincenza Perilli

http://marginaliavincenzaperilli.blogspot.com/2007/03/christine-dephy-una-scheda-bio.html

 

 

 

 

 

 

 

 

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IL MATRIMONIO IMPOSSIBILE

di Stefania Prandi. (xxd 7, maggio 2011)

Le hanno voltato le spalle in molti: politici, sindacalisti, attivisti. Gli unici a starle vicino sono stati sua moglie e gli avvocati di Rete Lenford, associazione che si occupa di tutelare i diritti di lesbiche, gay, bisex e trans. Grazie a questi pochi ma buoni compagni di battaglia lei non si è mai persa d’animo e ha portato il suo caso davanti a un giudice che, in primo grado, le ha dato ragione. E’ questa, in estrema sintesi, la vicenda che ha visto protagonista Alessandra Bernaroli, transessuale di Bologna, che dopo il cambio di sesso ha rischiato di vedersi annullare il matrimonio a causa della solerzia di “un oscuro burocrate benpensante”.

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Alle donne il potere di salvare l’ambiente

di Isabel

 È stato facile per te, come donna, diventare direttrice generale?

Non è stato facile e continua a essere durissima. Perché come spesso accade per le donne quando arrivano ad avere dei ruoli di responsabilità la realtà è che comunque sei circondata da uomini e soprattutto il metodo di lavoro e le logiche continuano a essere maschili e l’idea che avevo sempre avuto che arrivi in luoghi di potere e cambi le regole non è cosi attuabile.

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Sette pollici

di Marta Meloni

Non guardo la tv, da anni; mi sono liberata di questa stupida scatola, ma ogni giorno vengo bombardata per strada da centinaia di spots, il mezzo di propaganda più utilizzato per suscitare o ampliare desideri e bisogni creati da un sistema consumistico.

Tutto quello che passa in tv ci fa capire che non ci ritengono persone, ma consumatori; la pubblicità è sempre più attenta ai nostri capricci e richieste, sa come fare leva per rendere sempre più desiderabile un bene, anche se inutile.

Assistiamo ormai, da decenni, allo sfruttamento del corpo femminile, perché la donna, secondo la mentalità sessista della società, da sempre è colei che strega, convince, ammalia. Reggiseni, automobili, cibo già pronto e tantissimo altro viene sempre accompagnato da una donna, spogliata della sua individualità e resa pura merce.

In tv, e più nel dettaglio nelle pubblicità, si annega nel sessismo e machismo; ne è un esempio la pubblicità della birra Guinness, dove una donna viene presa da dietro, da sotto, da sopra, e che nel frattempo fa un pompino a qualcuno. I fruitori del corpo della fanciulla la usano anche come base per la birretta che, tra un orgasmo e una penetrazione, sorseggiano allegramente. La scritta dice: “Share one with a friend”, cioè “dividine una con gli amici”. Si riferisce alla birra?

La tv trasmette e fissa messaggi sessisti, e non ci è data neanche la facoltà di critica, perché, come la tecnologia, essa corre e noi dobbiamo correre con lei, senza nemmeno avere il tempo di pensare. Questo è uno degli ingredienti vincenti : non fermarti! Consuma e basta!

Per consumare, e farlo sempre di più, ci deve essere qualcosa di attraente, e nella cultura più sessista questo qualcosa è un corpo di donna, un pezzo di carne, un sedere, seni e cosce.

Così capita anche per gli animali, che sono solo carne, merce da consumo. Donne e animali: cosce, seni, fianchi, labbra, petti, fese, cordon bleu, hamburger.

Nelle pubblicità ci ingannano e ci trasformano: si passa da madri premurose a donne cariche di potere (ma solo sessuale), da mucche felici e saltellanti in distese di prati verdi (ma quando mai li hanno visti questi prati?) alla fetta di manzo al sangue, da portare in tavola a figli e mariti affamati. Carne servita a uomini machi che la mangiano perchè culturalmente simbolo di forza; per le donne la carne rimane un’ambita golosità. Ne è un esempio la pubblicità della Burger King di Singapore: un hamburger sta finendo dritto in bocca ad una donna che lo guarda quasi terrorizzata. Il messaggio di Burger King è: “Soddisfa il desiderio per qualcosa di lungo, succulento e cotto alla griglia con il NUOVO SUPER SETTE POLLICI DI BURGER KING”.

 

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Senza anima

di Marta Meloni

La tv porta avanti le oppressioni che esistono da millenni, esercitate sulle donne e sugli animali, collegandole e legittimandone l’esistenza come corpi sfruttabili. La donna è inferiore all’uomo tanto quanto l’animale è inferiore all’essere umano; mi sembra di vedere una grande piramide che viene continuamente scalata dagli oppressi per ritrovarsi in cima e diventare gli oppressori.

Ogni volta che vedo queste pubblicità, o la tv più in generale, mi chiedo se l’essere umano si è evoluto o involuto, dato che continuiamo a portare avanti culture sessiste e speciste, dove gli animali, come le donne, sono e restano senz’anima, così è più giustificabile sfruttarli, torturarli, ucciderli.

Secondo un filosofo dell’Ottocento, Auguste Comte: “La donna è per natura destinata ad un’esistenza domestica, all’uomo sono riservate le posizioni sociali”; così è per la “natura dell’animale”, destinato a servire l’uomo e a fornirgli cibo. Cibo servito dalle donne… ecco tutti ai loro posti, come ci vuole la pubblicità della carne Charal: una coppia dorme nel suo letto, poi un urlo. La donna accende la luce e chiede al marito: “Che cosa mi hai fatto? Mi hai morso! Perché mi hai morso??!”, poi appare la scritta finale: “Da quanto tempo non cucini carne a tuo marito?”

Dunque ricapitoliamo: messaggi eterosessisti, specisti e misogini; l’uomo è all’apice della piramide del dominio, lui mangia carne come dimostrazione di forza e potenza; la donna, alla base di questa piramide del potere, al massimo la può cucinare, oppure desiderarla alla stregua di un pene (nelle pubblicità c’è spesso questo doppio senso carne-pene). L’animale è solo un prodotto, nemmeno esiste come essere senziente.

La tv esaudisce i desideri dell’uomo, “l’uomo è cacciatore” come dice la pubblicità del salame cacciatore dop: un uomo gusta fette di salame davanti alla tv, durante un incontro della nazionale di calcio, mentre una donna si propone in posizioni sensuali per attirare la sua attenzione; la videocamera cattura seno, sedere e il suo bellissimo viso che non trattiene più la voglia di possedere quell’uomo (o quel salame?) . Prede (il maiale e la donna) soggiogati dal potere del predatore.

La tv sta continuando lo stesso lavoro che per millenni preti, scienziati, medici e illuminati hanno perpetrato sulla donna e sugli animali: eliminavano l’anima, decostruivano gli esseri viventi conservandone solo il corpo e la pelle (pelle di seta per le donne, pellicce per gli animali) e gettando senza alcun rispetto il resto, il vivente.

Coloro che sono narcotizzati dalla tv nemmeno si accorgono di questo procedimento di svuotamento, anzi partecipare alla tv è diventato il sogno di chiunque, perché trasmette il suo messaggio che puoi farcela sempre, basta poco, basta il tuo corpo (fosse poco!). Una donna in tv oggi è vista come emancipata, e l’emancipazione della donna passa attraverso un agognato provino per Miss Italia, per uno show televisivo o per una pubblicità. La tv priva la donna di tutto, lasciandone solo il corpo da sezionare, consumare e poi gettare, lo stesso procedimento che viene riservato ai corpi degli animali.

O restiamo indifferenti o gettiamo anche noi qualcosa: cominciamo con la tv!

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