(Dalla cruna dell’Ago rubrica
di Michele Poli – xxd n° 1 e 2 ottobre e novembre 2010)
Come reagisce di solito un uomo che ha poco riflettuto sulla differenza di genere, quando gli viene chiesto di esprimere un parere sulle relazioni tra i generi? Che succede se le conseguenze logiche, che scaturiscono dalle riflessioni sulla figura e il ruolo dell’uomo patriarcale, finiscono per relativizzare e frantumare la propria immagine di uomo, senza attivare nessun tipo di critica costruttiva? Mi capita spesso di percepire nell’uomo un senso di colpa che, ora lo fa irrigidire, ora spaventare, ora reagire irritato, a volte diventare violento, comunque, al di là di ogni possibile reazione, quell’uomo evita di occuparsi della causa vera che ha generato il suo senso di colpa, permettendo che la sensazione di disagio e di inadeguatezza che ne derivano alberghino in lui in modo latente. Quando qualcosa permane a lungo alla nostra attenzione, il cervello smette di segnalarlo con forza, perché non riesce più a focalizzarlo: l’oggetto c’è, ma di esso non si ha consapevolezza. Così, un problema, seppur esistente, perde momentaneamente la sua consistenza e sembra non essere più percepibile, ma, se in qualche modo evocato, riemerge con violenza, annunciato dal senso di colpa. Sappiamo tutti che il senso di colpa si può facilmente rimuovere, attribuendone la causa a qualcuno, ad esempio, alla donna: “È colpa tua se io sto male!”. Inoltre, se il senso di colpa è strettamente collegato alla relazione che si sta vivendo, è ancora più facile proiettarlo sull’‘oggetto’ immediatamente più ‘vicino’. L’uomo si trova negata la sua autenticità, paradossalmente, da quella stessa immagine patriarcale che, nel tempo, gli ha procurato un vantaggio sulle donne, ma che oggi rivela il suo anacronismo, la sua mancanza di efficacia intellettuale, la sua povertà di motivazioni valide, positive. Dunque, per liberare il vissuto ‘viziato’, imbrigliato dalle fallacie di ciascun uomo, una soluzione da adottare potrebbe essere quella di comprendere la vera natura di una colpa, ossia capire se, agendo in un certo modo, si è operato un tradimento nei confronti dei propri valori e, quindi, il senso di colpa può risultare legittimo, o se la colpa è solo immaginata, quindi, generata da un sentire comune, tramandato in quanto costruito culturalmente, ma che non ha riferimenti concreti nel proprio presente. La proposta di un’analisi del proprio percorso mentale, di primo acchito, può spaventare, ma, è necessario che l’uomo ne comprenda l’utilità, ovvero, che, distingua le ‘vere’ colpe da quelle ‘false’, per recuperare la veridicità del proprio sentire, anche in relazione all’altro genere. Uno sguardo introspettivo di questo tipo richiede coraggio, perché fa contattare il proprio senso del limite, ma in cambio di una fragilità disvelata si può ottenere chiarezza, oltre alla possibilità di avere una visione più realistica del sé da cui partire per migliorarsi. Alcune colpe non sono riparabili, altre, cambiando comportamento, possono ridimensionarsi o sparire del tutto. Ecco un altro vantaggio: disancorare le proprie energie, immobilizzate dalla percezione ‘dell’irreparabile’, per convogliarle con forza e usarle per modificare tutto ciò che è ancora modificabile!
Se da un lato è possibile e anche facile accogliere la nuova esperienza di consapevolezza, dall’altra può risultare facile smarrirsi e ripiegare su facili soluzioni, quali: optare per la politica dell’agire ad ogni costo e al di sopra di chiunque (tipica modalità patriarcale di risolvere le cose), oppure, cadere in un senso di inutilità del proprio esistere che spinge
a chiudersi in atteggiamenti quasi ‘autistici’ (tipica modalità maschile che non dà spiegazioni, ma eventualmente, esige comprensione). Invece, come già detto, occorre aprirsi ad altro, vedere e sentire, per lasciare che fluidamente le sensazioni dall’esterno ci tocchino e ci gratifichino con i loro disparati significati e innumerevoli manifestazioni.
Bisogna abbandonare gli sguardi concupiscenti e duri ‘da maschio’, i sensi irrigiditi da modalità stereotipate, indici di volontà di potere e di appropriazione, per guardare con occhi più ingenui, a volte anche timorosi, ma comunque ben disposti, coloro che ci vivono accanto, che condividono la nostra esistenza. Se l’uomo percepisce l’incontro con l’altro come una sospensione momentanea, con stupore, appunto, gli atti si possono spogliare della loro storia ed illuminare di una strana luce che deriva dal loro essere assolutamente sconosciuti, perché non rimandano ad altro se non ad un presente senza riferimenti. Se si riesce a sopportare l’intensità che si libera, e occorre essere pronti a questo ‘troppo’, si svela la sottile ma potente ‘voce del mondo’, che trascende e riempie la routine quotidiana di un senso di pienezza, motivandola. Nel momento in cui guardiamo negli occhi con questa nuova consapevolezza la propria compagna o il proprio compagno di vita o una qualsiasi
persona, anche non conosciuta, ci possiamo scoprire smarriti o abbandonati, ma comunque
protagonisti di uno spettacolo straordinario in cui lo sguardo di ognuno è speculare per l’altro. Dando valore all’ascolto, all’attenzione, alla cura di sé come dell’altro, e, dunque, della donna, diversamente da ciò che la consolidata cultura maschilista continua a proporre, si rinasce e si indossa una veste di autenticità che non saprà più cosa significhi controllare, manipolare gli altri, ma comprenderà che ogni essere è per sé e per l’altro da sé e, viceversa, assecondando una reciproca e naturale complementarietà.