Duboce Bikeway Mural di Mona Caron (particolare)
Pubblichiamo la seconda parte dell’intervista a un attivista transgender anarchic*, effettuata da Mafalda Stasi e Daniela Danna nell’ambito di una ricerca sul genere in Islanda nel marzo 2012 e trascritta da Anna Beltrami. Nell’originale parlato inglese non c’è stato bisogno di asterischi.
Domanda: Preferisci essere chiamat* al femminile o al maschile?
Risposta: È una domanda molto complessa; diciamo che mi piacerebbe essere chiamat* al femminile ma che raramente oso chiederlo alla gente; la maggior parte delle volte i miei amici più vicini mi chiamano al femminile e in tutti gli altri contesti mi accontento del genere con cui vengo percepit* dalla gente. In Islanda è ancora più difficile, perché la lingua islandese è una lingua che prevede molte distinzioni di genere ed è sempre necessario dichiarare il proprio genere in qualsiasi frase.
D: Potresti raccontarci del periodo che hai passato a Copenhagen prima di tornare a Reykjavik, quando è iniziato il tuo periodo di transizione?
R: La mia storia è questa; io mi sono sempre considerat* un maschio eterosessuale, poi, mentre vivevo a Copenhagen, mi è capitato di conoscere molte persone che frequentavano o avevano a che fare con la comunità queer. Queste persone mi hanno parlato per la prima volta dell’idea che la sessualità è una costruzione sociale, così come lo è il genere; così ho pensato “proviamo!” e ho cercato di decostruire la sessualità nella mia mente, ci ho messo qualche anno, ma posso dire che ha funzionato. Non è possibile stabilire un confine tra il punto in cui il mio orientamento sessuale comincia e il punto in cui finisce, così come non è possibile etichettarlo. A questo punto mi sono chiest* che cosa accade se sono attratt* dalle persone transessuali? In seguito ho fatto molto gender bending [traducibile come “sfidare il genere”], soprattutto da un punto di vista provocatorio e politico. Ad esempio dovrei poter indossare una gonna, e questo non dovrebbe costituire un problema.
Poi, ad un certo punto, è scattato qualcosa e ho cominciato a pensare… In quel periodo vivevo con alcuni miei amici e due di loro erano transgender, così ho cominciato a pensare che forse quello era qualcosa con cui desideravo identificarmi. Ha smesso di essere solo un impegno politico ed è diventato qualcosa a livello emozionale. Non sarei mai arrivat* a quel punto se non avessi avuto una buona rete di supporto che mi era data dal vivere con due persone transgender con cui potevo parlare, che avevano avuto la mia stessa esperienza, per cui potevano capire quello che intendevo. Detto questo, non sono mai stato il tipo di persona che si identifica con una donna sin da quando aveva tre anni o cose simili. I mesi seguenti, cominciai a sperimentare di più, cominciai a identificarmi come donna usando nomi differenti, e poi sono tornat* a Reykjavik. I miei piani qui erano di continuare con quello che stavo sperimentando, continuando a presentarmi come una donna, ma era tutto più difficile, perché non avevo il supporto di prima. Non mi sentivo incoraggiat* a entrare attivamente nella comunità trans qui, e neanche in quella LGBT, perché non era abbastanza radicale. Le organizzazioni dei trans in Islanda hanno un punto di vista molto mainstream (la sindrome alla Harry Benjamin…), quindi se sei M to F [transessuale da maschio a femmina] è perché hai un cervello femminile ma in un corpo maschile.
D: Certo, si tende spesso a medicalizzare il problema, seguendo l’idea dell’essere in un corpo sbagliato – anche se non può essere così, dal momento che non esiste una parte del mio corpo che è diversa dal resto. Nel mondo anglosassone inoltre, il paradigma delle neuroscienze si sta diffondendo in modo pervasivo, tanto che il dibattito è sempre più intorno alla chimica del cervello, focalizzato sull’ultima teoria del neuroscienziato del momento. Si tratta di un discorso che non vuole tanto affermare che le persone transessuali sono malate, ma sostenere che questi comportamenti sono determinati dalla biologia.
R: Certo, ed è anche comprensibile, perché in effetti la lotta per i diritti delle persone gay ha utilizzato molto l’idea del “non abbiamo scelta, siamo gay, è quello che siamo e non possiamo farci niente”, ma alla fine è diventato controproducente perché ha creato un’ulteriore norma invece di permettere un’analisi corretta della questione. Mentre prima l’eterosessualità era idealmente al vertice del sistema e l’omosessualità in basso, ora li hanno collocati allo stesso livello, senza capire che è il sistema nel suo insieme che deve essere distrutto. È un immaginario che compare anche nel movimento del gay pride. Per esempio, l’anno scorso, sulla copertina di un giornale c’era un’immagine che si riferiva a un articolo su quanto gli abitanti di Reykjiavik sono tolleranti. C’era una coppia eterosessuale e poi c’era una coppia gay, uno dei due aveva una maglietta attillata, eccessiva, e avevano ovviamente un chihuahua, poi c’era una coppia di lesbiche con un bambino. Credo che le norme siano in sé oppressive, così questo ha portato a molti problemi anche all’interno della stessa comunità gay, ad esempio la bi-fobia. All’interno della comunità transessuale, c’è anche il grande problema della categorizzazione della transessualità come malattia.
Il dibattito interno alla comunità trans è se continuare a considerare la transessualità come un disturbo o no, quindi la comunità è polarizzata tra coloro che portano avanti il pensiero del “corpo sbagliato” e quelli che invece si affidano a un’interpretazione di tipo sociale.
D: Ti riferisci alla scena transessuale in Islanda?
R: No, intendo in generale. Penso che questo tipo di pensiero sia negativo perché mantiene la dualità del genere, mentre penso che il ruolo della comunità transessuale sia di decostruire questo binomio. Il sesso biologico è stato discusso e problematizzato a lungo, anche l’orientamento sessuale ha subito lo stesso processo e ora c’è il genere, un nuovo tipo di frontiera, ed è molto negativo che proprio le persone che hanno sperimentato che cosa sia il genere, o per lo meno una gran parte di esse, vogliano mantenere la dualità e quindi i ruoli stereotipati connessi al maschile e al femminile.
Ho avuto al riguardo una discussione a un incontro di transessuali riguardo a un sito internet islandese che si chiama Bleikur (rosa), un sito internet “per donne” molto sessista, nel senso che stigmatizza altri modi di essere femminile in nome di un unico modello, un po’ un ritorno al ruolo della madre casalinga. Il sito è molto letto, uno dei dieci siti più letti in Islanda. Ovviamente c’è anche la controparte al maschile, un sito che si chiama Manns che invece parla molto di cose come il football, ci sono battute sullo stupro di donne e cose simili.
Bleikur è un sito molto populista, con molte fotografie e molti video; è anche molto caotico, insomma in generale dicono un sacco di cazzate e le femministe lo odiano. Ci sono moltissimi messaggi femministi di protesta su internet.
Stavo parlando di questi siti internet a un incontro di transessuali e ho avuto una discussione molto frustrante con una transessuale donna che parlava molto bene di questi siti e questa è un’ottima dimostrazione di come anche alle trans donne vengono insegnati dei ruoli femminili molto stereotipati e viceversa. Per questo non penso che ci sia veramente posto per me in quell’ambiente e non vado agli incontri ma solo a qualche evento dove non mi sento come se dovessi giustificare la mia esistenza. Uno dei problemi che ho nell’identificarmi come trans è che mi sento sempre come se non fossi abbastanza trans, anche quando mi presento come trans, anche se non sono mai “passato” e non ho mai fatto nessun grande sforzo per passare; quando arrivavo agli incontri dei trans, persino a Copenhagen, avevo paura che le persone avrebbero messo in discussione il mio essere trans, anche in ambienti dove i transessuali erano i benvenuti.
D: È successo che ti mettessero in discussione?
R: Non apertamente, ma ho sempre questa paranoia, e penso che sia qualcosa che viene necessariamente nel momento in cui diventi trans, perché a volte mentre vado in giro per la città con addosso una gonna la gente mi indica e ride, ma a volte mi indicano e ridono anche se non sto indossando una gonna. Certo, il fatto che sia una paranoia non significa che non sia vero, io so che la gente indica e ride perché mi vede con un gonna e con la barba, ma si tratta di un’esperienza che molte persone trans hanno.
D: Quale, la paranoia?
R: Si, di non sentirsi abbastanza trans anche all’interno della comunità trans e penso che questo mostri un serio fallimento nella comunità, perché non è in grado di far sentire la sua stessa gente a proprio agio e al sicuro, e quindi è oppressiva.
D: Sarò molto franca, perché personalmente identifico le persone transessuali come quelle che prendono gli ormoni o vogliono essere operate… e non sto mettendo in discussione le persone che lo fanno, però vorrei capire quando ti riferisci a persone transessuali, è giusto assumere come premessa che queste persone prendono ormoni?
R: C’è un’importante distinzione tra l’essere transessuale e l’essere transgender, anche se ovviamente hanno molto in comune e frequentano gli stessi ambienti. La differenza fondamentale è che la persona transessuale si concentra soprattutto sul sesso, mentre la persona transgender di più sul genere, il modo in cui sei percepito, il modo in cui sei identificato e il modo in cui presenti te stesso. Queste tre cose, cioè identificarsi, presentarsi ed essere percepiti possono spesso non andare per niente di pari passo. Io utilizzo il termine trans people o trans folk per indicare le persone che si identificano come trans. Il modo in cui intendo la parola trans è legato al termine trasgressione, perché se sei trans significa che sei trasgressivo, stai trasgredendo i confini di genere. È una parola un po’ problematica perché ad esempio se un giocatore di football piange perché è emotivo, certamente sta trasgredendo gli stereotipi di genere, ma questo non significa che sia trans.
C’è poi l’aspetto del “passare”. Non ho mai pensato di sottopormi ad alcun tipo di operazione chirurgica, anche se sono stat* tentat*. C’è stata una fase della mia vita in cui ho iniziato un periodo di transizione tramite delle erbe, ma l’ho fatto quasi senza pensarci e senza realizzare quali potevano essere le implicazioni, pensavo che le erbe potessero avere la stessa potenza dei medicinali, il che è vero. Con queste erbe c’era però il rischio che diventassi impotente.
Il momento che per me è stato più importante è stato quando ho chiesto a un mio amico: “Pensi che posso essere una donna e avere la barba?” e lui ha risposto: “Certo!” e questo è un messaggio importantissimo, perché molte persone transessuali che conosco, che hanno preso ormoni per anni e anni, dicono che non lo avrebbero mai fatto se avessero potuto sentirsi a proprio agio con il proprio corpo senza essere identificati come genere. Queste persone hanno iniziato a prendere ormoni per il modo in cui la gente li percepiva, non necessariamente perché lo desiderassero ardentemente, probabilmente in parte lo desideravano, ma non era in sé questa la ragione principale. La lotta trans è vinta quando non è necessario un intervento chirurgico per identificarsi come un uomo, o per essere percepito come uomo. Ammiro molto le persone che si presentano con un altro genere rispetto a quello che gli è stato assegnato ma allo stesso tempo non si sono sottoposte a interventi chirurgici; queste persone di solito sono discriminate ovunque, anche all’interno della comunità trans, perché una tipica domanda all’interno della comunità trans è “sei pre-op o post-op?” [prima o dopo l’operazione chirurgica, n.d.t.], ma nessuno ti guarda come un “non-op”. E poi c’è questa bellissima idea che puoi avere il tuo pene, ma che è un pene femminile, e penso che sia un messaggio molto potente.
D: Conosco una persona che ha chiesto di essere di genere neutro; che cosa ne pensi dell’idea della neutralità di genere e conosci qualcuno che si definisce così?
A: Si, conosco alcune persone che si considerano androgine
I: Qui in Islanda?
R: No, non penso che qui in Islanda ci sia spazio per questo tipo di discussione
D: Se dichiari di essere neutro, come utilizzi i pronomi?
R: Certamente il linguaggio è in questo senso l’ostacolo maggiore; stavo pensando che ho un amico che si considera plurale e questo linguisticamente è molto difficile perché dovresti dire “come state?”, quindi utilizzare il loro oppure il lui/lei, rivolgendoti a queste persone utilizzando entrambi i nomi. In inglese questo in realtà non è un’invenzione dei queers ma è una forma grammaticale legittima della lingua inglese.
D: Sì, è la soluzione che ho potuto osservare negli ultimi 10, 20 anni. Non ricordo quando è cominciata ma era un modo per liberarsi dall’uso del “lui” che si usa in senso generale quando si scrive, quindi come forma di linguaggio antisessista. La mia università ha una guida sul linguaggio antisessista e dicono che quando scrivi puoi usare “lui” o “lei” o “loro”. Non sono regole, ma ci si confronta con il problema. In inglese è più facile.
R: In Islanda gli aggettivi hanno il genere, quando descrivo qualcosa che mi riguarda devo dichiarare il genere; quando sono ritornat* in Islanda parlavo al femminile e molte persone pensavano che mi stavo semplicemente sbagliando, che non conoscevo bene la lingua, perché anche il mio nome non è islandese, è un nome svedese, perché mia madre è svedese, così accadeva che la gente mi correggesse.
D: E che cosa dicevi quando le persone ti correggevano?
R: Beh, il mio atteggiamento è cambiato molto da allora, a quel tempo ero molto arrabbiat* perché la gente non stava al gioco, ma ora capisco che la gente non sta al gioco perché non sanno che cosa sia il gioco. Vorrei solo che la gente lo faccia senza dover spiegare tutto il tempo, perché è molto faticoso. Ora, se voglio parlare in quel modo o, in generale, se so che starò vicin* a quella persona per molto tempo, spiego tutta la storia, così che sappia che cos’è, e questo rende tutto molto più facile.
D: E che cosa succede con gli incontri occasionali?
R: La mia gender queerness non viene coinvolta; ad esempio ieri stavo indossando un vestito, ma ovviamente molte persone pensavano che stessi scherzando, perché quella è l’esperienza della gente nei confronti di uomini che indossano abiti femminili, è qualcosa di divertente, qualcosa che farebbero i Monty Python o i bambini a scuola per una festa. Quindi è comprensibile che il dibattito qui non ci sia stato, come ci si potrebbe aspettare una cosa diversa?
D: E… ci stai ancora lavorando oppure hai raggiunto una qualche stabilità?
R: Direi che pratico quotidianamente una forma di autoespressione, non riesco veramente a percepire me stess* come vorrei, e riesco a sentirmi momentaneamente liber* solo quando vado in giro con i miei amici più cari. Per esempio in questo periodo vivo in una casa dove vive anche un bambino di 9 anni che fa un sacco di discussioni sul fatto che io porto le gonne. Ora ha quasi accettato la cosa ma a volte fa delle battute e mi provoca perché è un bambino che ama molto la provocazione. Quindi quello non è un luogo sicuro per me, perché in ogni momento devo stare attent* a quello che indosso, non posso semplicemente indossare un vestito, perché c’è questo simbolismo urtante di una persona con un corpo maschile e un tipo femminile di abito. Quando decido che cosa mi metterò durante la giornata devo pensare: “Mi darà così tanta noia l’essere consci* del fatto che sto indossando dei vestiti femminili oggi?”. Ci sono dei rari momenti in cui me lo dimentico, ma poi me lo ricordo. Ad esempio l’altro giorno stavo passeggiando con il mio cane e mi fissavano così ho pensato: “Oh, è probabilmente perché ho il cane” e poi, quando sono tornat* a casa, mi sono ricordat* che stavo indossando una gonna.
D: E come ti sei sentit* quando hai realizzato: “Ops, sto indossando una gonna?”
R: È stato difficile e ho provato molta vergogna. Questa è la parte difficile: che noi proviamo molta transfobia così come chiunque altro, e l’uomo che vuole essere femminile prova molta vergogna. Così è molto difficile parlarne a volte, è qualcosa per cui ci si deve allenare e io ne parlo con una certa distanza proprio a causa di questa vergogna, sostanzialmente.
D: Tu hai parlato della differenza tra la percezione, la tua personale percezione, quello che vuoi proiettare all’esterno e quello che la gente percepisce a partire da ciò che fai. Quale sarebbe la tua situazione ideale in questi tre aspetti?
R: È una domanda molto interessante. Penso che, idealmente, mi piacerebbe identificarmi ed essere identificat* e presentat* al femminile, ma non penso che sia qualcosa che riuscirò mai a ottenere. È un modo semplicistico di vedere le cose perché non esiste solo una cosa. A volte per esempio mi identifico come lesbica, intendo la relazione con un corpo femminile o con una persona che si identifica come femminile; è quasi divertente perché siamo, ovviamente, un corpo femminile e un corpo maschile che sono in una relazione ma in nessun modo ci sentiamo in una relazione eterosessuale. Così in un certo senso mi sento come se ci fosse qualcosa di giusto nell’essere identificat* come lesbica ma allo stesso tempo molta gente pensa che io sia gay. Vivevo in una comunità in campagna lo scorso anno, in Francia; tutti pensavano che fossi gay…
D: La tua maglietta dice: “Not gay as in happy but queer as in fuck you” [Non gay nel senso di felice, ma strano nel senso di “vaffanculo”]
R: Già… tutti pensavano che fossi gay e questo andava bene. Ci sono queste identità con cui mi sento molto a mio agio che sono anche opposte e si escludono a vicenda. Non puoi essere sia un uomo gay che una donna lesbica allo stesso tempo…
D: Davvero?
R: Ah ah… Non so, forse non posso, è complicato… Diciamo che la mia situazione ideale sarebbe non doverci pensare così tanto. Sarebbe bello se il genere avesse la stessa importanza del colore dei capelli o di qualsiasi altra azione, perché questo è il genere, qualcosa che fai, non qualcosa che sei. Perciò parlare così tanto di ciò con cui mi identifico non è forse il punto più importante, perché la questione non è tanto quello che voglio essere ma quello che voglio fare. Ho detto che sono anarchic*, ma quella è solo un’altra identità, come essere vegetariani. È problematico ad esempio identificarsi con quello che non mangi. Per questo a volte penso che l’identità sia un problema.
D: Mi ricorda il buddismo, il discorso intorno alla dissoluzione del sé….
D: Ci hai detto che ti identifichi come lesbica, ci puoi parlare di quello che accade in termini di orientamento sessuale?
R: Ho fatto un percorso in cui sono passato dall’essere eterosessuale all’essere bisessuale. Ho detto di essere lesbica, e questo è in parte vero, ma non è ciò con cui realmente mi identifico, non è qualcosa che direi di me, piuttosto direi che sono sessuale. Sono attratt* da tutti i corpi e da tutte le persone e vorrei arrivare a essere attratt* dalle persone indipendentemente dal loro corpo. Così ho cercato di diventare più apert* per essere attratt* anche dalle persone con un corpo maschile, tramite degli esercizi come fantasticare e immaginare situazioni differenti in cui bacio dei ragazzi e faccio sesso con i ragazzi; inoltre sono stat* molto fortunat* perché nel mio gruppo di amici tutti si sono sempre abbracciati a vicenda, così sono abituat* a essere vicino ad ogni tipo di corpo. È divertente perché anche un mio amico di Copenhagen stava portando avanti un processo simile, è sempre stato eterosessuale e ora vuole credere di essere attratto anche dai ragazzi e quindi facevamo i confronti dei nostri progressi per vedere a che punto eravamo. Per lui uno dei maggiori ostacoli era abbracciare i ragazzi, perché era qualcosa di molto nuovo per lui, ma è stato molto più veloce rispetto a me nell’arrivare a baciarli e a essere sensuale con loro. Io stavo con un uomo gay che dormiva con me e ogni notte ci coccolavamo come amici, ma quello è qualcosa che il mio amico gay non è mai riuscito a fare. Io non ho mai fatto sesso con un ragazzo, quello è il mio unico ostacolo. Sento di avere bisogno di arrivare a quel punto perché sarebbe probabilmente una situazione in cui mi sentirei al sicuro e a mio agio, una situazione in cui non mi sentirei sotto pressione ma avrei solo voglia di sperimentare, qualcosa di simile a quello che ho fatto la prima volta in cui ho fatto sesso con una ragazza, a 15 anni. Non c’era nulla in sé che mi eccitasse e mi “accendesse” ma era un momento in cui potevi imparare qualcosa, penso che essere eccitati sia proprio qualcosa che si impara a fare. Robert Johnson, l’autore del libro Getting off. Pornography and the end of masculinity, scrisse che da giovane guardava films porno, poi smise e divenne femminista e decise di scrivere sulla pornografia. Così guardò ore di film porno e nel libro scrisse che una delle cose più spaventose era guardare tutta quella violenza e sentirsi eccitati. Quindi era chiaro che c’era qualcosa che si apprendeva nell’essere sessuale. L’orientamento sessuale è soprattutto qualcosa che si apprende e tutti possono aprire la propria sessualità per essere attratti da corpi differenti. Per me, ad esempio, un problema riguarda anche il fatto che ho sempre fatto sesso con ragazze abbastanza magre e quando ho fatto sesso per la prima volta con una ragazza che non lo era, anche quello era un processo di apprendimento, era un nuovo tipo di corpo con cui all’inizio non sapevo come entrare in relazione ma, nel momento in cui è accaduto, mi ha permesso di essere attratto da più persone rispetto a prima.
D: C’è qualcos’altro che vuoi dire?
R: Si, ne volevo parlare già prima. Stavo pensando allo slogan del movimento glbt islandese che si può tradurre con “modelli di ruolo, non stereotipi”. So che è un po’ di cattivo gusto parlare di modelli di ruolo, ma penso che sia un aspetto molto importante della rappresentazione culturale, e penso che questo motto in fondo si giustifichi da sé. Dentro la comunità trans ci sono sempre più persone transessuali che escono allo scoperto. Per me ad esempio “Antony and the Johnson” rappresenta un modello di ruolo, per me è più semplice ora, grazie a lui, identificarmi in modo ambiguo e sentirmi anche un* musicista. È anche una fonte di ispirazione per essere più presente sia come musicista che come persona trans e gender queer nella scena musicale islandese. È divertente anche che Antony abbia preso come modello Boy George. Tutto è cominciato con Boy George, che ha potuto uscire allo scoperto perché era più facile nel periodo in cui fioriva il glam-rock. Il passo successivo è stato che Antony si è potuto identificare come trans. Andando avanti ci sarà una persona trans proveniente da un gruppo ancora più marginale, come una persona non bianca, che uscirà allo scoperto come trans e come musicista. È un processo passo dopo passo.
D: Styrmir [la squadra di calcio gay di Reykjavik] ha adottato quel motto. Quale pensi che sia l’impatto che Styrmir sta avendo?
R: In realtà non lo so, perché non sono parte di quella scena. L’unica discussione che ho sentito a riguardo è la discussione sulla presenza di gay nella squadra di football, sul fatto che sono in una squadra a parte non certo perché non sono abbastanza bravi per entrare nelle altre squadre, un po’ lo stesso dibattito per quel che riguarda le donne, l’esistenza di categorie olimpiche per le donne eccetera. Fortunatamente questo è uno dei modi in cui le cose si stanno normalizzando, nel senso positivo del termine. È una delle modalità con cui le persone gay possono essere rappresentate ed essere visibili nella società. Ma ad esempio non c’è una sola persona all’interno della polizia che si sia dichiarato gay. Qualcuno ha scritto sulla mascolinità all’interno della polizia. Ha intervistato alcuni poliziotti riguardo al loro atteggiamento verso il genere maschile. Un ragazzo a cui era stato chiesto: “Che cos’è la mascolinità”, ha risposto: “Io sono la mascolinità”. Poi gli ha chiesto: “Che cosa pensi di una persona gay che vuole entrare nella polizia?”. Lui ha risposto: “Beh, due donne che si baciano sono carine, ma due uomini sono disgustosi”.
Quando l’unico gruppo all’interno della società che può usare legalmente la violenza ha questo tipo di opinioni, la situazione è davvero pericolosa. Quindi forse l’unico modo per queste persone di cambiare è fare in modo che ci siano forze di polizia transgender. Ma qui nasce un altro dibattito se gli omosessuali devono o no entrare nell’esercito, si dice “al diavolo, non ci vogliamo andare”, ma d’altra parte c’è molta omofobia nell’esercito.
Forse ci sarebbe bisogno di una polizia queer…
D: Pensi che la prima ministra [Jóhanna Sigurðardóttir, lesbica dichiarata] sia una figura efficace come modello?
R: Questa è davvero una bella domanda. Diciamo che il fatto è che quando è stata eletta nessuno ha realmente notato che era lesbica. Lei è una lesbica dichiarata, ma alla gente non interessava tanto il fatto che fosse lesbica. La cosa ha suscitato una forte eccitazione solo all’estero. È stata anche una delle prime lesbiche a sposarsi qui in Islanda. Quindi, sotto molti punti di vista, questo posto è stato visto come il paradiso e certamente è una cosa positiva; tuttavia il fatto che molte cose siano migliorate non significa che siano migliorate abbastanza. È molto frustrante che il popolo islandese continui a pensare che va bene così. Solo perché da qualche altra parte la situazione è peggiore, non significa che dobbiamo fare festa. C’è ancora molta omofobia e violenza, bullismo nelle scuole e la lingua è ancora molto omofoba e sessista. Quindi è molto facile, se non sei direttamente coinvolto nel problema, che dall’esterno la percezione sia che si è raggiunta una certa uguaglianza. Siamo vicini, ma c’è ancora molto lavoro da fare, basti pensare che la percentuale di abusi sessuali in Islanda non è minore rispetto a molti altri paesi europei e il modo in cui opera il sistema giudiziario qui è disastroso come altrove.