Out of Gender! Teatri e suoni irriverenti di donne R/esistenti

di Lucia Leonardi

    Ha ripreso il via in Dicembre la rassegna teatrale e musicale Out of Gender. Teatri e suoni irriverenti di donne R/esistenti organizzata dalle associazioni culturali “Tramanti” e “Villa Pallavicini”. Cinque appuntamenti a cadenza mensile a partire dalle 21.00 nell’accogliente contesto di Villa Pallavicini che assieme alla proposta teatrale da cui nasce la rassegna si estendono quest’anno anche all’ambito musicale e a quello cinematografico.

     Una rassegna che mette in discussione a 360 gradi gli stereotipi di genere, sessisti e omofobi sia attraverso i contenuti dei singoli spettacoli che nel complesso della proposta. L’intento con cui nasce è infatti quello di dare voce e visibilità alle produzioni artistiche delle donne – performances, sceneggiature, video, testi e musiche pensati, prodotti e organizzati dalle donne. Una risposta concreta alla difficoltà di mantenere e coltivare uno spazio in un mondo ancora colonizzato dal potere maschile, in un contesto culturale subordinato alle logiche di mercato… Un luogo che resiste invece che desistere. E non lo fa trincerandosi in una sorta di chiusura statica: “esserci come r/esistenti significa agire da r/esistenti” sostiene infatti la direttrice artistica, Eleonora Dall’Ovo. “L’arte non nasce dal nulla, ci vogliono fatica, sacrifici e investimento: lavoro in poche parole” anche se fa più comodo pensare che non lo sia, allo stesso modo per cui si presume che l’arte sia una sorta di piacevole ornamento, un di più che eccede gli impegni quotidiani, un superfluo. “E tanto più se sei donna, fare cultura è molto complesso”: le scelte di queste artiste richiedono infatti posizionamenti consapevoli che implicano spesso di rinunciare ad altri percorsi… Così come queste artiste sono state scelte “non limitandosi a mettere una donna al posto di un uomo, a sostituire il genere mantenendo le stesse logiche sessiste e di scambio commerciale, ma perché propongono dei contenuti interessanti”.

    Nel primo spettacolo è stata la stessa Eleonora Dall’ovo a raccontarci la storia di Cristina Trivulzio di Belgioioso coinvolgendoci nel mondo di “Principessa Libertà”: patriota militante, giornalista illuminata, medico di guerra che non ha esitato a sfidare pubblicamente e ironicamente personaggi in vista dell’epoca, che ha messo in discussione l’istituzione del matrimonio (prima di tutto il suo), intuito nel lavoro di cura una professione –  e come tale da retribuire. Una ricerca che ha toccato con mano documenti storici per ridare vita e voce ad una donna dimenticata, volutamente, dai libri di storia. Una performance che ha ritrovato in una donna del passato discriminazioni ancora tristemente attuali, ma anche la forza di affrontarle.

    E poi in Gennaio abbiamo ascoltato e cantato Un Mondo Perfetto, primo album indipendente delle Shivadiva Plurale Femminile, un gruppo di tre donne – voce, chitarra e basso mescolati ad atmosfere elettroniche – che mostrano un impegno e una cura particolare anche nei testi: “E invece io non ho paura / credo di essere mia” cantano insieme, intense e orgogliose. Oltre ad averci sorpreso con “Cornflakes Girls” di Tori Amos e divertito con un’inaspettata rivisitazione degli Abba, le Shivadiva hanno riscaldato Villa Pallavicini con le loro musiche e le loro parole, parole ironiche, autentiche, d’amore e di conflitto.

     Il prossimo incontro sarà venerdì 22 Febbraio: le Goghi &Goghi porteranno il loro Magnificat, scritto e diretto da Ila Covolan con Mara Pieri. Uno spettacolo ora divertente, ora nero, a tratti sguaiato, a tratti tragico, una sorta di lenta discesa agli inferi di uomini e donne spinti/e alle estreme conseguenze della catalogazione etero – omo, in un tragico destino, che li accomuna a tutti i/le migranti, i/le rifugiati/e, le donne, che in questo paese non hanno nome, non hanno dignità, non hanno diritto di cittadinanza, ma solo un’etichetta pesante come un macigno di cui sembra impossibile disfarsi.

    Venerdì 22 marzo sarà la volta del cinema. Le Badhole, associazione culturale torinese, presenteranno l’anteprima della tanto attesa serie web Re(L)azioni a catena  che nasce dall’indignazione per un Paese a senso unico, quello eterosessuale  bianco e familista, e dal desiderio di raccontare gli affetti, il lavoro e la famiglia così come ci appaiono: una sequenza di reazioni e relazioni a volte sorprendenti.

    L’ultimo appuntamento si svolgerà venerdì 19 aprile dove teatro e arte pittorica si fonderanno con lo spettacolo Frida: euforia di una vita dell’Associazione torinese Donne di Sabbia. Un monologo intimo e gioioso liberamente tratto da “Frida Kahlo Viva la Vida” di Humberto Robles, che si colloca tra il ricordo, i sogni e la passionale realtà di un personaggio viscerale e controverso come era la famosa pittrice messicana.

    Allora, la risposta di questa rassegna è proprio di resistere alla banalità quotidiana proponendo qualcosa di nuovo. “Nuovo – come dice la direttrice artistica – non perché ciò che è già stato proposto non valga più, non per inseguire il feticcio della novità, ma perché ne esci un po’ diversa da come sei entrata”. Fare cultura nel senso di agire una trasformazione sia di chi propone un evento sia di chi vi partecipa. La proposta infatti è anche di offrire un incontro ad un pubblico che condivide il medesimo intento, promuovendo questo luogo di cultura… e facendosi muovere dall’arte! Ascoltare voci di donne impegnate, farsi trasportare da gesti in scena che fanno riflettere e divertire, che aprono a immaginari possibili… E perché no? Anche condividere le possibili delusioni che incontra inevitabilmente chi fa dell’impegno la propria vita e della propria vita un impegno. Far risuonare anche di sé un contesto già reale, presente, che si prende il suo spazio e lo riempie di bellezza, di forza, di vissuto e presenza. Perché, continua la direttrice artistica, “Essere donne che portano se stesse è sovversivo, è già fuori dagli stereotipi: sei donna, porti un contenuto di te, ti autoproduci e cerchi un pubblico non passivo e da zombizzare, ma partecipe e critico.”

    Un’ultima domanda: se è una rassegna “Out of Gender” perché la scelta di presentare e promuovere solo artiste donne? “Vorrei che i generi si mettessero in discussione. Gli uomini? Aspetto che vengano fuori… aspetto che qualche maschile mi stupisca” risponde Eleonora Dall’Ovo, abbassando la voce, quasi a mezze parole – perché, certo, non si può pretendere la spontaneità.

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SOMMERSI MA SALVI

(Dalla cruna dell’ago rubrica di Michele Poli – 5 febbraio 2013)

Quando vado al cinema purtroppo devo sopportare i trailer di film che non vedrei mai. In pochi minuti, sono bombardato da una rappresentazione concentrata di violenze maschili: spari, esplosioni, urla rabbiose, affermazioni della propria potenza, torture, omicidi, sfide, aggressioni, lotte furibonde, urla di terrore, esplosioni, il tutto presentato da una voce fuori campo che ha lo stesso tono di chi offre una serie di piatti prelibati, uno dopo l’altro, l’uno più appetibile dell’altro. Insomma, è la violenza venduta come bella e interessante, ma io, di fronte a quelle sequenze, provo solo fastidio, senso di vomito, sentimento di impotenza e infine rabbia, tutto, appunto, nel giro di pochi minuti.

Giungo a pensare che questo genere di film dovrebbe essere proibito in un mondo sano. Sicuramente, vorrei non essere costretto a vederli anche solo in forma di trailer e mi piacerebbe che tale diritto fosse riconosciuto e salvaguardato, ecco perché mi auspicherei una riflessione su questa forma di pubblicità che, peraltro, può risultare anche più dannosa rispetto a quella consueta, considerati i contenuti o i messaggi veicolati attraverso le immagini, soprattutto se vengono proposti senza alcun filtro anche ai minori. Il pensiero inquietante che in tali occasioni mi assale riguarda anche l’altro mio simile, perché penso che se un uomo riesce ad accettare la rappresentazioni di tali violenze in un film, forse, può sopportare anche di vederle agite nella realtà, su un essere concreto, purché ritenga ci sia una giusta causa. Gli uomini sono molto bravi a trovare cause a cui immolarsi e in nome delle quali far soffrire: da quelle rivendicate per avere più diritti, ottenere giustizia, ripristinare l’ordine, a quelle sbandierate per raggiungere il potere, la gloria, la notorietà, alle altre urlate, ancor più banali ma altrettanto comuni, per sostenere una squadra di calcio. C’è sempre una causa per cui vale la pena fare violenza a qualcun altr*. Fin troppo facile è interpretare le motivazioni degli altri come non valide, perché le proprie sono ritenute supportate da  giustificazioni così profonde, dunque, inattaccabili che non necessitano di alcuna verifica. Eppure, quando qualcuno cerca di approfondirne le ragioni, chi sa perché si cade in difficoltà, si prova imbarazzo e per sospendere ogni indagine ritenuta intrusiva, si grida alla violenza. Penso alle volte in cui le donne cercano di capire cosa sta accadendo e sono accusate di essere violente proprio dall’uomo che fa loro violenza!

Siamo immersi nella violenza: la agiamo, la subiamo, vi assistiamo, tanto che anche quando non ve n’è traccia, siamo comunque paralizzati dalla paura.

Da dove iniziare per abbandonare questo senso di paura e di precarietà che ci predispone a reazioni esagerate, come riuscire a fermare i poteri, più o meno occulti, che sfruttano e alimentano le fragilità e le incertezze a beneficio dei loro interessi, che destrutturano i veri significati e ruoli degli ambiti sociali, imponendo falsi ed inappropriati contenuti?

Ogni evento violento è in se contemporaneamente causa ed effetto di violenza: effetto, quando andiamo a rintracciare nel passato le ragioni della violenza manifesta, causa, quando sentiamo di muoverci in seguito ad essa. Molto raramente viene percepita come un problema in sé, ovvero, come qualcosa che non va bene e basta. Il fenomeno violento isolato e sganciato dal contesto. Pensate ad una scena cruenta che vi appare all’improvviso: un morto riverso sulla strada dopo un incidente. Allora una violenza ci appare indigeribile, orripilante. Provate a guardare una scena violenta nel flusso del film dall’inizio alla fine e poi il giorno dopo guardatela isolata. Guadare tagliando i nessi porta automaticamente al rifiuto della violenza, perché la violenza è in sé un valore negativo. Il che significa che se ci approcciamo in maniera intuitiva, mettendo tra parentesi le costruzioni culturali che tendono a giustificarla, la violenza risulta qualcosa da cui rifuggiamo istintivamente. Solo allora, ad una ad una, cadono le conclusioni che abbiamo tratto sulle situazioni, che ci apparivano come giustificazioni convincenti e restiamo senza niente a cui aggrapparci: o siamo violenti o nonviolenti. La ricerca di questa sospensione è, in essenza, il mio impegno con gli uomini che non permettono a se stessi di riconoscere ed accogliere questa verità. Il significato della violenza viene così utilizzato e assunto ribaltato per affermare la nostra radice nonviolenta. Da questa base sicura è possibile far partire una nuova cultura maschile e una identità che riconosce le proprie spinte fondanti, quindi meno artificialmente costruita ed ansiosa di affermarsi.

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Da un genere all’altro

Duboce Bikeway Mural di Mona Caron (particolare)

Pubblichiamo la seconda parte dell’intervista a un attivista transgender anarchic*, effettuata da Mafalda Stasi e Daniela Danna nell’ambito di una ricerca sul genere in Islanda nel marzo 2012 e trascritta da Anna Beltrami. Nell’originale parlato inglese non c’è stato bisogno di asterischi.

 

Domanda: Preferisci essere chiamat* al femminile o al maschile?

Risposta: È una domanda molto complessa; diciamo che mi piacerebbe essere chiamat* al femminile ma che raramente oso chiederlo alla gente; la maggior parte delle volte i miei amici più vicini mi chiamano al femminile e in tutti gli altri contesti mi accontento del genere con cui vengo percepit* dalla gente. In Islanda è ancora più difficile, perché la lingua islandese è una lingua che prevede molte distinzioni di genere ed è sempre necessario dichiarare il proprio genere in qualsiasi frase.

D: Potresti raccontarci del periodo che hai passato a Copenhagen prima di tornare a Reykjavik, quando è iniziato il tuo periodo di transizione?

R: La mia storia è questa; io mi sono sempre considerat* un maschio eterosessuale, poi, mentre vivevo a Copenhagen, mi è capitato di conoscere molte persone che frequentavano o avevano a che fare con la comunità queer. Queste persone mi hanno parlato per la prima volta dell’idea che la sessualità è una costruzione sociale, così come lo è il genere; così ho pensato “proviamo!” e ho cercato di decostruire la sessualità nella mia mente, ci ho messo qualche anno, ma posso dire che ha funzionato. Non è possibile stabilire un confine tra il punto in cui il mio orientamento sessuale comincia e il punto in cui finisce, così come non è possibile etichettarlo. A questo punto mi sono chiest* che cosa accade se sono attratt* dalle persone transessuali? In seguito ho fatto molto gender bending [traducibile come “sfidare il genere”], soprattutto da un punto di vista provocatorio e politico. Ad esempio dovrei poter indossare una gonna, e questo non dovrebbe costituire un problema.

Poi, ad un certo punto, è scattato qualcosa e ho cominciato a pensare… In quel periodo vivevo con alcuni miei amici e due di loro erano transgender, così ho cominciato a pensare che forse quello era qualcosa con cui desideravo identificarmi. Ha smesso di essere solo un impegno politico ed è diventato qualcosa a livello emozionale. Non sarei mai arrivat* a quel punto se non avessi avuto una buona rete di supporto che mi era data dal vivere con due persone transgender con cui potevo parlare, che avevano avuto la mia stessa esperienza, per cui potevano capire quello che intendevo. Detto questo, non sono mai stato il tipo di persona che si identifica con una donna sin da quando aveva tre anni o cose simili. I mesi seguenti, cominciai a sperimentare di più, cominciai a identificarmi come donna usando nomi differenti, e poi sono tornat* a Reykjavik. I miei piani qui erano di continuare con quello che stavo sperimentando, continuando a presentarmi come una donna, ma era tutto più difficile, perché non avevo il supporto di prima. Non mi sentivo incoraggiat* a entrare attivamente nella comunità trans qui, e neanche in quella LGBT, perché non era abbastanza radicale. Le organizzazioni dei trans in Islanda hanno un punto di vista molto mainstream (la sindrome alla Harry Benjamin…), quindi se sei M to F [transessuale da maschio a femmina] è perché hai un cervello femminile ma in un corpo maschile.

D: Certo, si tende spesso a medicalizzare il problema, seguendo l’idea dell’essere in un corpo sbagliato – anche se non può essere così, dal momento che non esiste una parte del mio corpo che è diversa dal resto. Nel mondo anglosassone inoltre, il paradigma delle neuroscienze si sta diffondendo in modo pervasivo, tanto che il dibattito è sempre più intorno alla chimica del cervello, focalizzato sull’ultima teoria del neuroscienziato del momento. Si tratta di un discorso che non vuole tanto affermare che le persone transessuali sono malate, ma sostenere che questi comportamenti sono determinati dalla biologia.

R: Certo, ed è anche comprensibile, perché in effetti la lotta per i diritti delle persone gay ha utilizzato molto l’idea del “non abbiamo scelta, siamo gay, è quello che siamo e non possiamo farci niente”, ma alla fine è diventato controproducente perché ha creato un’ulteriore norma invece di permettere un’analisi corretta della questione. Mentre prima l’eterosessualità era idealmente al vertice del sistema e l’omosessualità in basso, ora li hanno collocati allo stesso livello, senza capire che è il sistema nel suo insieme che deve essere distrutto. È un immaginario che compare anche nel movimento del gay pride. Per esempio, l’anno scorso, sulla copertina di un giornale c’era un’immagine che si riferiva a un articolo su quanto gli abitanti di Reykjiavik sono tolleranti. C’era una coppia eterosessuale e poi c’era una coppia gay, uno dei due aveva una maglietta attillata, eccessiva, e avevano ovviamente un chihuahua, poi c’era una coppia di lesbiche con un bambino. Credo che le norme siano in sé oppressive, così questo ha portato a molti problemi anche all’interno della stessa comunità gay, ad esempio la bi-fobia. All’interno della comunità transessuale, c’è anche il grande problema della categorizzazione della transessualità come malattia.

Il dibattito interno alla comunità trans è se continuare a considerare la transessualità come un disturbo o no, quindi la comunità è polarizzata tra coloro che portano avanti il pensiero del “corpo sbagliato” e quelli che invece si affidano a un’interpretazione di tipo sociale.

D: Ti riferisci alla scena transessuale in Islanda?

R: No, intendo in generale. Penso che questo tipo di pensiero sia negativo perché mantiene la dualità del genere, mentre penso che il ruolo della comunità transessuale sia di decostruire questo binomio. Il sesso biologico è stato discusso e problematizzato a lungo, anche l’orientamento sessuale ha subito lo stesso processo e ora c’è il genere, un nuovo tipo di frontiera, ed è molto negativo che proprio le persone che hanno sperimentato che cosa sia il genere, o per lo meno una gran parte di esse, vogliano mantenere la dualità e quindi i ruoli stereotipati connessi al maschile e al femminile.

Ho avuto al riguardo una discussione a un incontro di transessuali riguardo a un sito internet islandese che si chiama Bleikur (rosa), un sito internet “per donne” molto sessista, nel senso che stigmatizza altri modi di essere femminile in nome di un unico modello, un po’ un ritorno al ruolo della madre casalinga. Il sito è molto letto, uno dei dieci siti più letti in Islanda. Ovviamente c’è anche la controparte al maschile, un sito che si chiama Manns che invece parla molto di cose come il football, ci sono battute sullo stupro di donne e cose simili.

Bleikur è un sito molto populista, con molte fotografie e molti video; è anche molto caotico, insomma in generale dicono un sacco di cazzate e le femministe lo odiano. Ci sono moltissimi messaggi femministi di protesta su internet.

Stavo parlando di questi siti internet a un incontro di transessuali e ho avuto una discussione molto frustrante con una transessuale donna che parlava molto bene di questi siti e questa è un’ottima dimostrazione di come anche alle trans donne vengono insegnati dei ruoli femminili molto stereotipati e viceversa. Per questo non penso che ci sia veramente posto per me in quell’ambiente e non vado agli incontri ma solo a qualche evento dove non mi sento come se dovessi giustificare la mia esistenza. Uno dei problemi che ho nell’identificarmi come trans è che mi sento sempre come se non fossi abbastanza trans, anche quando mi presento come trans, anche se non sono mai “passato” e non ho mai fatto nessun grande sforzo per passare; quando arrivavo agli incontri dei trans, persino a Copenhagen, avevo paura che le persone avrebbero messo in discussione il mio essere trans, anche in ambienti dove i transessuali erano i benvenuti.

D: È successo che ti mettessero in discussione?

R: Non apertamente, ma ho sempre questa paranoia, e penso che sia qualcosa che viene necessariamente nel momento in cui diventi trans, perché a volte mentre vado in giro per la città con addosso una gonna la gente mi indica e ride, ma a volte mi indicano e ridono anche se non sto indossando una gonna. Certo, il fatto che sia una paranoia non significa che non sia vero, io so che la gente indica e ride perché mi vede con un gonna e con la barba, ma si tratta di un’esperienza che molte persone trans hanno.

D: Quale, la paranoia?

R: Si, di non sentirsi abbastanza trans anche all’interno della comunità trans e penso che questo mostri un serio fallimento nella comunità, perché non è in grado di far sentire la sua stessa gente a proprio agio e al sicuro, e quindi è oppressiva.

D: Sarò molto franca, perché personalmente identifico le persone transessuali come quelle che prendono gli ormoni o vogliono essere operate… e non sto mettendo in discussione le persone che lo fanno, però vorrei capire quando ti riferisci a persone transessuali, è giusto assumere come premessa che queste persone prendono ormoni?

R: C’è un’importante distinzione tra l’essere transessuale e l’essere transgender, anche se ovviamente hanno molto in comune e frequentano gli stessi ambienti. La differenza fondamentale è che la persona transessuale si concentra soprattutto sul sesso, mentre la persona transgender di più sul genere, il modo in cui sei percepito, il modo in cui sei identificato e il modo in cui presenti te stesso. Queste tre cose, cioè identificarsi, presentarsi ed essere percepiti possono spesso non andare per niente di pari passo. Io utilizzo il termine trans people o trans folk per indicare le persone che si identificano come trans. Il modo in cui intendo la parola trans è legato al termine trasgressione, perché se sei trans significa che sei trasgressivo, stai trasgredendo i confini di genere. È una parola un po’ problematica perché ad esempio se un giocatore di football piange perché è emotivo, certamente sta trasgredendo gli stereotipi di genere, ma questo non significa che sia trans.

C’è poi l’aspetto del “passare”. Non ho mai pensato di sottopormi ad alcun tipo di operazione chirurgica, anche se sono stat* tentat*. C’è stata una fase della mia vita in cui ho iniziato un periodo di transizione tramite delle erbe, ma l’ho fatto quasi senza pensarci e senza realizzare quali potevano essere le implicazioni, pensavo che le erbe potessero avere la stessa potenza dei medicinali, il che è vero. Con queste erbe c’era però il rischio che diventassi impotente.

Il momento che per me è stato più importante è stato quando ho chiesto a un mio amico: “Pensi che posso essere una donna e avere la barba?” e lui ha risposto: “Certo!” e questo è un messaggio importantissimo, perché molte persone transessuali che conosco, che hanno preso ormoni per anni e anni, dicono che non lo avrebbero mai fatto se avessero potuto sentirsi a proprio agio con il proprio corpo senza essere identificati come genere. Queste persone hanno iniziato a prendere ormoni per il modo in cui la gente li percepiva, non necessariamente perché lo desiderassero ardentemente, probabilmente in parte lo desideravano, ma non era in sé questa la ragione principale. La lotta trans è vinta quando non è necessario un intervento chirurgico per identificarsi come un uomo, o per essere percepito come uomo. Ammiro molto le persone che si presentano con un altro genere rispetto a quello che gli è stato assegnato ma allo stesso tempo non si sono sottoposte a interventi chirurgici; queste persone di solito sono discriminate ovunque, anche all’interno della comunità trans, perché una tipica domanda all’interno della comunità trans è “sei pre-op o post-op?” [prima o dopo l’operazione chirurgica, n.d.t.], ma nessuno ti guarda come un “non-op”. E poi c’è questa bellissima idea che puoi avere il tuo pene, ma che è un pene femminile, e penso che sia un messaggio molto potente.

D: Conosco una persona che ha chiesto di essere di genere neutro; che cosa ne pensi dell’idea della neutralità di genere e conosci qualcuno che si definisce così?

A: Si, conosco alcune persone che si considerano androgine

I: Qui in Islanda?

R: No, non penso che qui in Islanda ci sia spazio per questo tipo di discussione

D: Se dichiari di essere neutro, come utilizzi i pronomi?

R: Certamente il linguaggio è in questo senso l’ostacolo maggiore; stavo pensando che ho un amico che si considera plurale e questo linguisticamente è molto difficile perché dovresti dire “come state?”, quindi utilizzare il loro oppure il lui/lei, rivolgendoti a queste persone utilizzando entrambi i nomi. In inglese questo in realtà non è un’invenzione dei queers ma è una forma grammaticale legittima della lingua inglese.

D: Sì, è la soluzione che ho potuto osservare negli ultimi 10, 20 anni. Non ricordo quando è cominciata ma era un modo per liberarsi dall’uso del “lui” che si usa in senso generale quando si scrive, quindi come forma di linguaggio antisessista. La mia università ha una guida sul linguaggio antisessista e dicono che quando scrivi puoi usare “lui” o “lei” o “loro”. Non sono regole, ma ci si confronta con il problema. In inglese è più facile.

R: In Islanda gli aggettivi hanno il genere, quando descrivo qualcosa che mi riguarda devo dichiarare il genere; quando sono ritornat* in Islanda parlavo al femminile e molte persone pensavano che mi stavo semplicemente sbagliando, che non conoscevo bene la lingua, perché anche il mio nome non è islandese, è un nome svedese, perché mia madre è svedese, così accadeva che la gente mi correggesse.

D: E che cosa dicevi quando le persone ti correggevano?

R: Beh, il mio atteggiamento è cambiato molto da allora, a quel tempo ero molto arrabbiat* perché la gente non stava al gioco, ma ora capisco che la gente non sta al gioco perché non sanno che cosa sia il gioco. Vorrei solo che la gente lo faccia senza dover spiegare tutto il tempo, perché è molto faticoso. Ora, se voglio parlare in quel modo o, in generale, se so che starò vicin* a quella persona per molto tempo, spiego tutta la storia, così che sappia che cos’è, e questo rende tutto molto più facile.

D: E che cosa succede con gli incontri occasionali?

R: La mia gender queerness non viene coinvolta; ad esempio ieri stavo indossando un vestito, ma ovviamente molte persone pensavano che stessi scherzando, perché quella è l’esperienza della gente nei confronti di uomini che indossano abiti femminili, è qualcosa di divertente, qualcosa che farebbero i Monty Python o i bambini a scuola per una festa. Quindi è comprensibile che il dibattito qui non ci sia stato, come ci si potrebbe aspettare una cosa diversa?

D: E… ci stai ancora lavorando oppure hai raggiunto una qualche stabilità?

R: Direi che pratico quotidianamente una forma di autoespressione, non riesco veramente a percepire me stess* come vorrei, e riesco a sentirmi momentaneamente liber* solo quando vado in giro con i miei amici più cari. Per esempio in questo periodo vivo in una casa dove vive anche un bambino di 9 anni che fa un sacco di discussioni sul fatto che io porto le gonne. Ora ha quasi accettato la cosa ma a volte fa delle battute e mi provoca perché è un bambino che ama molto la provocazione. Quindi quello non è un luogo sicuro per me, perché in ogni momento devo stare attent* a quello che indosso, non posso semplicemente indossare un vestito, perché c’è questo simbolismo urtante di una persona con un corpo maschile e un tipo femminile di abito. Quando decido che cosa mi metterò durante la giornata devo pensare: “Mi darà così tanta noia l’essere consci* del fatto che sto indossando dei vestiti femminili oggi?”. Ci sono dei rari momenti in cui me lo dimentico, ma poi me lo ricordo. Ad esempio l’altro giorno stavo passeggiando con il mio cane e mi fissavano così ho pensato: “Oh, è probabilmente perché ho il cane” e poi, quando sono tornat* a casa, mi sono ricordat* che stavo indossando una gonna.

D: E come ti sei sentit* quando hai realizzato: “Ops, sto indossando una gonna?”

R: È stato difficile e ho provato molta vergogna. Questa è la parte difficile: che noi proviamo molta transfobia così come chiunque altro, e l’uomo che vuole essere femminile prova molta vergogna. Così è molto difficile parlarne a volte, è qualcosa per cui ci si deve allenare e io ne parlo con una certa distanza proprio a causa di questa vergogna, sostanzialmente.

D: Tu hai parlato della differenza tra la percezione, la tua personale percezione, quello che vuoi proiettare all’esterno e quello che la gente percepisce a partire da ciò che fai. Quale sarebbe la tua situazione ideale in questi tre aspetti?

R: È una domanda molto interessante. Penso che, idealmente, mi piacerebbe identificarmi ed essere identificat* e presentat* al femminile, ma non penso che sia qualcosa che riuscirò mai a ottenere. È un modo semplicistico di vedere le cose perché non esiste solo una cosa. A volte per esempio mi identifico come lesbica, intendo la relazione con un corpo femminile o con una persona che si identifica come femminile; è quasi divertente perché siamo, ovviamente, un corpo femminile e un corpo maschile che sono in una relazione ma in nessun modo ci sentiamo in una relazione eterosessuale. Così in un certo senso mi sento come se ci fosse qualcosa di giusto nell’essere identificat* come lesbica ma allo stesso tempo molta gente pensa che io sia gay. Vivevo in una comunità in campagna lo scorso anno, in Francia; tutti pensavano che fossi gay…

D: La tua maglietta dice: “Not gay as in happy but queer as in fuck you” [Non gay nel senso di felice, ma strano nel senso di “vaffanculo”]

R: Già… tutti pensavano che fossi gay e questo andava bene. Ci sono queste identità con cui mi sento molto a mio agio che sono anche opposte e si escludono a vicenda. Non puoi essere sia un uomo gay che una donna lesbica allo stesso tempo…

D: Davvero?

R: Ah ah… Non so, forse non posso, è complicato… Diciamo che la mia situazione ideale sarebbe non doverci pensare così tanto. Sarebbe bello se il genere avesse la stessa importanza del colore dei capelli o di qualsiasi altra azione, perché questo è il genere, qualcosa che fai, non qualcosa che sei. Perciò parlare così tanto di ciò con cui mi identifico non è forse il punto più importante, perché la questione non è tanto quello che voglio essere ma quello che voglio fare. Ho detto che sono anarchic*, ma quella è solo un’altra identità, come essere vegetariani. È problematico ad esempio identificarsi con quello che non mangi. Per questo a volte penso che l’identità sia un problema.

D: Mi ricorda il buddismo, il discorso intorno alla dissoluzione del sé….

D: Ci hai detto che ti identifichi come lesbica, ci puoi parlare di quello che accade in termini di orientamento sessuale?

R: Ho fatto un percorso in cui sono passato dall’essere eterosessuale all’essere bisessuale. Ho detto di essere lesbica, e questo è in parte vero, ma non è ciò con cui realmente mi identifico, non è qualcosa che direi di me, piuttosto direi che sono sessuale. Sono attratt* da tutti i corpi e da tutte le persone e vorrei arrivare a essere attratt* dalle persone indipendentemente dal loro corpo. Così ho cercato di diventare più apert* per essere attratt* anche dalle persone con un corpo maschile, tramite degli esercizi come fantasticare e immaginare situazioni differenti in cui bacio dei ragazzi e faccio sesso con i ragazzi; inoltre sono stat* molto fortunat* perché nel mio gruppo di amici tutti si sono sempre abbracciati a vicenda, così sono abituat* a essere vicino ad ogni tipo di corpo. È divertente perché anche un mio amico di Copenhagen stava portando avanti un processo simile, è sempre stato eterosessuale e ora vuole credere di essere attratto anche dai ragazzi e quindi facevamo i confronti dei nostri progressi per vedere a che punto eravamo. Per lui uno dei maggiori ostacoli era abbracciare i ragazzi, perché era qualcosa di molto nuovo per lui, ma è stato molto più veloce rispetto a me nell’arrivare a baciarli e a essere sensuale con loro. Io stavo con un uomo gay che dormiva con me e ogni notte ci coccolavamo come amici, ma quello è qualcosa che il mio amico gay non è mai riuscito a fare. Io non ho mai fatto sesso con un ragazzo, quello è il mio unico ostacolo. Sento di avere bisogno di arrivare a quel punto perché sarebbe probabilmente una situazione in cui mi sentirei al sicuro e a mio agio, una situazione in cui non mi sentirei sotto pressione ma avrei solo voglia di sperimentare, qualcosa di simile a quello che ho fatto la prima volta in cui ho fatto sesso con una ragazza, a 15 anni. Non c’era nulla in sé che mi eccitasse e mi “accendesse” ma era un momento in cui potevi imparare qualcosa, penso che essere eccitati sia proprio qualcosa che si impara a fare. Robert Johnson, l’autore del libro Getting off. Pornography and the end of masculinity, scrisse che da giovane guardava films porno, poi smise e divenne femminista e decise di scrivere sulla pornografia. Così guardò ore di film porno e nel libro scrisse che una delle cose più spaventose era guardare tutta quella violenza e sentirsi eccitati. Quindi era chiaro che c’era qualcosa che si apprendeva nell’essere sessuale. L’orientamento sessuale è soprattutto qualcosa che si apprende e tutti possono aprire la propria sessualità per essere attratti da corpi differenti. Per me, ad esempio, un problema riguarda anche il fatto che ho sempre fatto sesso con ragazze abbastanza magre e quando ho fatto sesso per la prima volta con una ragazza che non lo era, anche quello era un processo di apprendimento, era un nuovo tipo di corpo con cui all’inizio non sapevo come entrare in relazione ma, nel momento in cui è accaduto, mi ha permesso di essere attratto da più persone rispetto a prima.

D: C’è qualcos’altro che vuoi dire?

R: Si, ne volevo parlare già prima. Stavo pensando allo slogan del movimento glbt islandese che si può tradurre con “modelli di ruolo, non stereotipi”. So che è un po’ di cattivo gusto parlare di modelli di ruolo, ma penso che sia un aspetto molto importante della rappresentazione culturale, e penso che questo motto in fondo si giustifichi da sé. Dentro la comunità trans ci sono sempre più persone transessuali che escono allo scoperto. Per me ad esempio “Antony and the Johnson” rappresenta un modello di ruolo, per me è più semplice ora, grazie a lui, identificarmi in modo ambiguo e sentirmi anche un* musicista. È anche una fonte di ispirazione per essere più presente sia come musicista che come persona trans e gender queer nella scena musicale islandese. È divertente anche che Antony abbia preso come modello Boy George. Tutto è cominciato con Boy George, che ha potuto uscire allo scoperto perché era più facile nel periodo in cui fioriva il glam-rock. Il passo successivo è stato che Antony si è potuto identificare come trans. Andando avanti ci sarà una persona trans proveniente da un gruppo ancora più marginale, come una persona non bianca, che uscirà allo scoperto come trans e come musicista. È un processo passo dopo passo.

D: Styrmir [la squadra di calcio gay di Reykjavik] ha adottato quel motto. Quale pensi che sia l’impatto che Styrmir sta avendo?

R: In realtà non lo so, perché non sono parte di quella scena. L’unica discussione che ho sentito a riguardo è la discussione sulla presenza di gay nella squadra di football, sul fatto che sono in una squadra a parte non certo perché non sono abbastanza bravi per entrare nelle altre squadre, un po’ lo stesso dibattito per quel che riguarda le donne, l’esistenza di categorie olimpiche per le donne eccetera. Fortunatamente questo è uno dei modi in cui le cose si stanno normalizzando, nel senso positivo del termine. È una delle modalità con cui le persone gay possono essere rappresentate ed essere visibili nella società. Ma ad esempio non c’è una sola persona all’interno della polizia che si sia dichiarato gay. Qualcuno ha scritto sulla mascolinità all’interno della polizia. Ha intervistato alcuni poliziotti riguardo al loro atteggiamento verso il genere maschile. Un ragazzo a cui era stato chiesto: “Che cos’è la mascolinità”, ha risposto: “Io sono la mascolinità”. Poi gli ha chiesto: “Che cosa pensi di una persona gay che vuole entrare nella polizia?”. Lui ha risposto: “Beh, due donne che si baciano sono carine, ma due uomini sono disgustosi”.

Quando l’unico gruppo all’interno della società che può usare legalmente la violenza ha questo tipo di opinioni, la situazione è davvero pericolosa. Quindi forse l’unico modo per queste persone di cambiare è fare in modo che ci siano forze di polizia transgender. Ma qui nasce un altro dibattito se gli omosessuali devono o no entrare nell’esercito, si dice “al diavolo, non ci vogliamo andare”, ma d’altra parte c’è molta omofobia nell’esercito.

Forse ci sarebbe bisogno di una polizia queer…

D: Pensi che la prima ministra [Jóhanna Sigurðardóttir, lesbica dichiarata] sia una figura efficace come modello?

R: Questa è davvero una bella domanda. Diciamo che il fatto è che quando è stata eletta nessuno ha realmente notato che era lesbica. Lei è una lesbica dichiarata, ma alla gente non interessava tanto il fatto che fosse lesbica. La cosa ha suscitato una forte eccitazione solo all’estero. È stata anche una delle prime lesbiche a sposarsi qui in Islanda. Quindi, sotto molti punti di vista, questo posto è stato visto come il paradiso e certamente è una cosa positiva; tuttavia il fatto che molte cose siano migliorate non significa che siano migliorate abbastanza. È molto frustrante che il popolo islandese continui a pensare che va bene così. Solo perché da qualche altra parte la situazione è peggiore, non significa che dobbiamo fare festa. C’è ancora molta omofobia e violenza, bullismo nelle scuole e la lingua è ancora molto omofoba e sessista. Quindi è molto facile, se non sei direttamente coinvolto nel problema, che dall’esterno la percezione sia che si è raggiunta una certa uguaglianza. Siamo vicini, ma c’è ancora molto lavoro da fare, basti pensare che la percentuale di abusi sessuali in Islanda non è minore rispetto a molti altri paesi europei e il modo in cui opera il sistema giudiziario qui è disastroso come altrove.

 

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Mille sfumature di femminicidio

di Federica Panizzo

I termini “femminicidio” o “femicidio” stanno ad indicare un insieme più o meno ampio di comportamenti discriminatori o violenti posti in essere nei confronti delle donne “in quanto donne”, ovvero come forma di esercizio di potere maschile sulla psiche e/o sul corpo di donne e lesbiche, potere volto ad annientare la vita, la libertà, la personalità, qualora non si adeguino al modello sociale proposto”.1

Va osservato, come le nuove categorie concettuali del femicide, elaborata e del femminicidio, abbiano consentito di approfondire la concreta dimensione del fenomeno dei crimini contro le donne attraverso un uso sessuato degli strumenti scientifici, e dunque anche giuridici, di interpretazione del dato di realtà.2

Notiamo come, da un punto di vista puramente terminologico, come siano state avanzate critiche all’utilizzo del termine “Femminicidio”.

In particolare, ci si è concentrati, in tale critica prospettiva, sull’etimologia del termine che ci porta ad essere individuate come esseri “femminili” e non come “donne”. Tale ragionamento parte dalla considerazione che l’utilizzo del termine “femminicidio” porrebbe l’accento sulla vittima e non sugli assassini. In tale prospettiva si preferirebbe porre l’accento sulla violenza subita dal genere femminile, così evitando che l’attenzione sia attenuata rispetto agli autori del reato.

Ciò determinerebbe una rappresentazione delle donne quali protagoniste di un fastidioso atteggiamento “vittimistico”

Secondo tale posizione critica dell’utilizzo del termine “femminicidio”, il cd vittimismo delle donne” non è mai proficuo; anche quando le stesse lo siano davvero: è meglio parlare di “persone che si trovano in un momento transitorio di difficoltà, ma pienamente in grado di risollevarsi e dotate di una propria intrinseca forza che non ha necessità di essere dimostrata o spiegata3. Tale critica terminologica all’utilizzo del termine “femminicidio”sostiene, in breve, la sua messa in discussione, sull’UOMO, definendo e nominando esplicitamente, una cultura, la loro, che determina la violenza. I “deboli”, per non dire le “vittime”,anche quando percuotono, uccidono, sono sotto scacco sono loro: non noi. E’vero, si continua in questo argomentare, che la violenza sulle donne riguarda anche noi, la nostra cultura, la nostra normalità, ma è altrettanto vero che innanzi a questo allarmante fenomeno che nel 2012 ha mietuto in Italia più di 100 donne morte per mano del loro uomo.

Dinnanzi a questo tragico fenomeno le istituzioni appaiono incapaci di dare adeguate risposte preventive.

Osservo a tale riguardo come tale disquisizione terminologica assuma i contorni della contrapposizione sterile. Concordo con quella parte di esponenti del movimento femminista che sottolineano la gravità della qualificazione delle donne come “vittime”, ma non penso che sia questo il punto rilevante del dibattito. Ciò che rileva è che l’intero fenomeno innanzi descritto e definito da Russell e Lagarde come “Femicidio” sia, per poter essere correttamente affrontato, considerato attraverso l’impiego di strumenti scientifici utilizzati in maniera “sessuata”. Anche il “nostro” diritto e la scienza giuridica debbono, quindi, porsi in tale prospettiva. L’esatta definizione consente, infatti, di sviluppare e comprendere in maniera quanto più possibile esaustiva, i rapporti e le dinamiche sociali sottese al femminicidio.

La risposta a tali quesiti richiede il riconoscimento di una stretta relazione tra potere e regolazione sociale attraverso le norme culturali e giuridiche.

La nozione giuridicamente rilevante di potere appare regolata con una pluralità di connotazioni negative, quando attiene al genere sessuale.

Solitamente, in tema di genere, le accezioni marcatamente negative riflettono l’utilizzo di vocaboli quali: “limitazione, proibizione, regolazione, controllo e protezione” delle donne.4

Ciò che è necessario premettere è muovere dalla distinzione del termine di matrice anglosassone sex:sessualità intesa non come comportamento sessuale di chi si rapporta ad un altro, ma come condizione individuale sessuata: come si nasce, come si è5e quando si parla di gender invecesi fa riferimento invece ad una condizione metabiologica dell’essere uomo/donna: (la mascolinità, la femminilità, il come si diviene, mi sia consentito l’accostamento come direbbe nel suo “Secondo Sesso” Simon De Beauvoir a come si ridiventa donne, quando ci rammenta chedonne non si nasce ma si diventa”6.

Il termine “identità di genere: è una espressione che può essere utilizzata in sensi diversi: a livello grammaticale, indica la distinzionetra maschile/femminile” (ma in alcune lingue, anche il neutro); a livello concettuale è una categoria che raggruppa cose/persone con caratteristiche rilevanti simili e irrilevanti dissimili (si può usare anche per indicare l’umano, senza distinguere uomini e donne); nel dibattito di oggi, come traduzione dal termine gender, si riferisce, in modo specifico, ad una dimensione che si contrappone a sex.”.7

La discriminazione di genere è paragonabile, per gli effetti che produce, ad un crimine contro l’umanità. In tale prospettiva serve interrogarsi su quali siano i modi e i luoghi in cui essa si manifesta.

Al primo quesito si può rispondere con una elencazione di delitti consumati all’interno delle mura domestiche o con autori di reato conosciuti: gli atti persecutori, le mutilazioni genitali, le violenze sessuali, anche di gruppo, le minacce, le ingiurie, il cosiddetto cyberstalking, il cyberbullismo (si noti come sia agevole incappare in siti che inneggiano al disvalore delle donne che si pongono in difesa della differenza di genere, sotto croci uncinate appaiono espressioni del tipoChi professa la diversità del genere odia solo un genere: quello maschile”) o altri reati consumati possono giungere alle estreme conseguenze nella forma dell’omicidio nella accezione dell’uxoricidio e, ancora, l’istigazione al suicidio, posti in essere per motivi essenzialmente misogini o sessisti.

Oltre che privati gli spazi delle discriminazioni di genere possono essere tanto oltre che privati (vedi la violenza endofamiliare prima rapidamente tratteggiata: artt. 572, 575, 577, 581, 582, 594, 609 bis, 612, 612 bis, 660 cp) gli spazi delle discriminazioni di genere possono essere pubblici: il luogo di lavoro, anche le strutture come quelle pubbliche ospedaliere, la strada, in generale LA SOCIETA’ e che pare lontana dal considerare che il fenomeno è strutturale al sistema e che per essere adeguatamente fronteggiato presuppone una profonda trasformazione culturale che involga i ruoli e i generi.

L’Italia spesso appare come una nazione dove i “padri” divorano i figli e non si può permettere il mutamento dei costumi: un futuro che avanza, nella integrale diversità di modi di vivere anche le relazioni tra generi.

Se il fenomeno di cui stiamo trattando venisse considerato per come esso si presenta a livello mondiale potremo osservare come esso possa manifestarsi in maniera strisciante, persino glamour in alcune parti del mondo, plateale e brutale in altre. Appare come ha osservato “violenza..così quotidiana da sembrare ineluttabile. E’ la violenza contro le donne. E’ la guerra alla dignità femminile. Tentacolare e multiforme. Donne vittime di stipri politici, rapite e picchiate perché pedine deboli sullo scacchiere dei conflitti tribali. Mogli che subiscono in silenzio tra le mure di casa. Figlie che vedano le madri tacere per anni di fronte ad assurde imposizioni religiose..”8.

Per quanto riguarda i luoghi ove questa massa variegata di violenza si consuma possiamo osservare come essa si possa consumare nel luogo di lavoro.

A tale riguardo faccio riferimento a quella fumosa, per quanto attiene il diritto penale, figura delittuosa del cd mobbing” in tutte le sue forme (orizzontale, verticale, strategico, da capo). Le norme di riferimento per sanzionare tale fenomeno sono svariate, dall’art.572 cp, all’art. 323 cp-se il lavoro si svolge nell’ambito del pubblico impiego- ma di fatto si assiste ancora ad un vuoto normativo. La giurisprudenza non pare univoca nel considerare utilizzabile, per sanzionare penalmente il cd mobbing, il riferimento all’art. 572 cp appare, peraltro, connotato da insufficienza.

Spesso situazioni mobizzanti si verificano proprio in occasione del ritorno dalle gravidanze. Una maternità osteggiata è, a mio modo di vedere, la cartina di tornasole di una radicata assenza di futuro per le donne nello spazio pubblico delle società, ove si manifesta chiaramente una forte discriminazione quale strumento per disinnescarne l’autorevolezza e la competenza che queste spesso, con enorme fatica, dimostrano.

Sul punto riporto le parole della saggista Chiara Valentini “O i figli o il lavoro”: ”la guerra silenziosa della maternità delle donne che lavorano è uno dei più drammatici paradossi del nostro paese. “O i figli o il lavoro” è la scelta che le donne di oggi vogliono respingere, perché rischia di riportarle ad una condizione premoderna”.

Si scopre amaramente sempre più, se si volge lo sguardo al mercato del lavoro, nelle madri “cacciate”, magari attraverso il subdolo meccanismo della firma delle dimissioni in bianco o quello della vera e propria discriminazione, si alimenta, un’idea di colpa per come cambiano le condizioni di lavoro dopo la maternità ci dice quanto ancora sia interiorizzata l’idea che le donne siano “cittadine un po’ meno”, più adatte alla casa che agli spazi pubblici. Forse spiega perché, nonostante le evidenze numeriche, il movimento delle donne non si trasformi in un’onda generale di protesta e riaffermazione di sé … questo mi porta a pensare che nell’arretramento ci sia quasi una invidia per l’impossibilità maschile di generare, forse la convinzione che essere madri occupa così intensamente i nostri pensieri che null’altro possiamo fare. Una negazione del collettivo, il senso del tradimento perché non dedichi tutta te stessa al lavoro, ma anche l’idea di cosa è il lavoro nella stagione in cui troppi vogliono dimenticare il Novecento e pensano che la modernità sia affermare che il lavoro non determina identità, ma nello stesso tempo deve essere totalizzante…tante spie diverse, insomma, del privatizzarsi del tema della maternità da un lato, ma anche del desiderio di lavoro come realizzazione di sé, non alternativa all’essere madri”.

La discriminazione in tale contesto si manifesta in una maggiore difficoltà di contrattazione che porta inevitabilmente a una corresponsione di salari più bassi per le donne e al dovere di impegnarsi in una doppia giornata lavorativa. Anche nel mondo del lavoro entra la componente della sessualità. Va precisato a tale proposito come non si tratti di una questione di “puritanesimo”, né di esagerazione, ma di vera e propria limitazione dei comportamenti alle quali le donna e sottoposta.

Vediamone alcuni: evitare di incontrarsi sola con il cd “capo”, vigilare su ciò che si dice, rinunziare a riunioni, tutto questo determina nella donna un turbamento psicologico, il timore che le “sensazioni” vengano rese pubbliche ed un eventuale conseguente pregiudizio che permettono di qualificare tutto ciò come un vero e proprio problema sociale.

Diversa declinazione della discriminazione delle donne nel mondo del lavoro è quello della difficoltà di occupare “lo spazio pubblico”.

Gli ostacoli posti alla possibilità di partecipare a riunioni parlamentari, la maggiore possibilità di essere vittime di aggressioni a sfondo sessuale (art. 609 bis cp). Difficoltà a far conciliare la condizione di madre con quella di lavoratrice.

Altra frequente modalità di aggredire la donna nel suo ambito lavorativo attiene alla lesione della sua reputazione quale strumento per impedire che la donna possa accedere a posti ove viene esercitato il potere. Il dato più curioso in tale caso attiene al fatto che coloro che “sovrintendono” alla reputazione delle donne sono proprio gli uomini che mantenendo il controllo sulla loro stima contestualmente mantengono una forma di controllo sociale dei comportamenti. L’esempio classico è quello di denigrare la donna in ragione del suo orientamento sessuale e questo è un modo efficace per frenare la donna, mantenendola in una sorta di regime di eterosessualità istituzionalizzata.Questi attinenti alla reputazione paiono aspetti superati, di mera apparenza, ma sono produttivi di effetti reali. La donna, a differenza dell’uomo, viene spesso considerata, anche sul luogo di lavoro, in relazione all’aspetto fisico, all’aspetto in salute della stessa, aldilà della sua competenza.

Non va poi dimenticato il linguaggio che nei luoghi di lavoro viene riservato alle donne. La donna sul luogo di lavoro si predilige silenziosa, invisibile, quando è presente spesso ci si riferisce a lei con termini sessisti e triviali.

Rileviamo come nel raffrontare il maschile e il femminile esista una doppia moralità una per la donna e una più accondiscendente per l’uomo; e chiediamoci perché la donna dedica molto più tempo al suo aspetto? Perché la donna sia associata al mondo degli affetti e definita come intuitiva e raramente aggressiva.

Su queste naturali differenze si costruisce l’ideale della donna: una moglie sempre perfetta sia come donna che come sposa. Da questa precisazione meglio comprendiamo come l’assegnazione della donna all’ambito domestico consenta un facile abbinamento alla dimensione biologica della stessa (identità sessuale), mentre se la donna viene considerata nel contesto social-lavorativo rileva con maggiore rilievo l’accezione metabiologica del genere consentendo spesso ripartizioni foriere di disuguaglianze.

In dottrina S. Barkley ha osservato: perché il corpo biologico sia femmineo- incorporando la costruzione sociale della femminilità- deve determinarsi un dato volume, una data andatura, una postura adeguata e deve abbellirsi. Quale è altrimenti il rischio? Quello di trasformarsi in un uomo o quello di potersi dedicare solo di cose “frivole” che attengano all’abbellimento della persona.”

Quali conclusioni rispetto alla questione se si possa legiferare al fine di eliminare il sessismo, al fine di espellerlo dall’idioma? A mio parere serve il passo di un riconoscimento esplicito della fatica quotidiana e individuale che le donne compiono per combattere il sessismo presente nel linguaggio, anche nel mondo del lavoro.

È qui tuttavia che la difficoltà diviene enorme, ad esempio si formano vere e proprie coalizioni contrarie a tale riconoscimento, malgrado numerosi articoli e contenuti di riviste popolari e non, che descrivono le differenze fondate sul sesso anche suggerendo forme per rompere le discussioni dominate da un linguaggio maschile. Ma è o sarà sufficiente sradicare il sessismo linguistico per contrastare, partendo da esso, altre forme di sessismo presenti in altre aree della società?

Consideriamo, ad esempio, quella che si realizza nelle strutture ospedaliere pubbliche in cui troppo spesso, in nome di una poco chiara e talvolta abusata“obiezione di coscienza”, si giunge a commettere delitti quali il rifiuto d’atti d’ufficio” (art.328 cp). A tale riguardo serve ricordare che l’obiezione di coscienza, ad esempio, può essere invocata, secondo la legge, solo rispetto alle interruzioni di gravidanza e non ad esempio rispetto alla somministrazione della pillola del giorno dopo, non essendo quest’ultima un metodo abortivo, ma un metodo contraccettivo. Vi sono stati casi in cui un rifiuto, essendo privo di un aggancio normativo, risulta illecito e va quindi contrastato, e se se ne ha, la forza denunciato ai sensi del comma 1 dell’art.328 cp.

Volendo scendere nello specifico della realtà, si pensi a quando in una pubblica struttura ospedaliera una donna, spesso giovane e sola, magari anche immigrata, chieda la pillola del giorno dopo e si veda respinta dal medico, che si appella alla “obiezione di coscienza” spesso adducendo una grave pericolosità nella sua assunzione. In quei casi mi chiedo, da avvocata e da cittadina, se debba essere garantita la copertura attraverso la presenza di più medici, che non si sentano di invocare, rispetto a tale tipo di richiesta la obiezione di coscienza; così rispetto ad altri episodi legati alla mancata somministrazione della pillola RU 486. Ma anche questo non è forse un tentativo per esporre le donne ad un sacrificio alla maternità libera e consapevole? Qui non è la mano di un compagno scelto a sopprimere, è la struttura pubblica alla quale si chiede, senza giudizio alcuno, soccorso e aiuto che limita l’esercizio di un legittimo diritto. E allora non è anche questo un modo per “ucciderla” emotivamente, per ragioni misogine o sessiste, solo perché non si è adeguata ad un modello sociale predisposto, dal quale si è discostata? E ancora per la legge Italiana non è ammessa la fecondazione assistita eterologa, non è possibile scegliere di essere madri anche se single, non parliamo poi della pratica dell’affitto dell’utero tutti aspetti questi che evidenziano un controllo sociale formale, attraverso la previsione di una norma giuridica, e informale, attraverso il controllo sociale (norma sociale) che, ancora una volta restringono il diritto di una donna ad essere cio che è, realizzando una scalfittura evidente al principio della libertà di autodeterminazione.

1 B. Spinelli in Studi sulla questione della politica criminale, n.4/2008.

2 D. Russel, Femicide, the politic of woman hating, NY, Routledge, ; M. Lagarde, Por la vida y la libertad des la mujeres.

3 Va comunque sottolineato come la persona offesa da comportamenti violenti e/o discriminatori siano effettivamente patiti da noi tutte. L’appello alla intrinseca forza delle donne non deve portare a diminuire una situazione, seppur temporanea, di enorme sofferenza.

4 Cfr. J. Butler, Gender Trouble, femminism and the subersionof tity, 1990, Routledge, NY.

5 In tale prospettiva si fa riferimento ad una condizione biologica e fisica dell’essere.

6 S. De Beauvoir, Il secondo sesso.

7 cfr. B. Spinelli, in Studi sulla questione criminale n.4/2008.

8 E. Ensler, Se non ora quando?, ed Piemme, 2012.

3 Va comunque sottolineato come la persona offesa da comportamenti violenti e/o discriminatori siano effettivamente patiti da noi tutte. L’appello alla intrinseca forza delle donne non deve portare a diminuire una situazione, seppur temporanea, di enorme sofferenza.

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L’accountability process (procedimento di responsabilità): reagire alla violenza di genere nella comunità

Pubblichiamo una parte dell’intervista a un attivista transgender anarchic* islandese (la seconda parte racconterà della sua esperienza transgender), in cui descrive una modalità comunitaria di affrontare episodi di violenza, un tentativo di autodifesa e presa di coscienza di gruppo che .potrebbe avere applicazioni anche altrove. L’intervista è stata effettuata da Mafalda Stasi e Daniela Danna nell’ambito di una ricerca sul genere in Islanda nel marzo 2012 e trascritta da Anna Beltrami.

 

Domanda: Tu fai parte, come transgender, del movimento anarchico in Islanda. Incontri del maschilismo in questo movimento?

Risposta: Sicuramente la scena anarchica in Islanda è molto diversa rispetto a quanto accade all’estero. Io mi considero un* anarchic* e le attività che svolgo seguono il pensiero anarchico, anche se, in questo caso, ci troviamo [per l’intervista] in uno spazio che è pagato con i soldi dei partiti politici.

Si tratta di una scena unica, a cominciare dal fatto che è molto piccola e anche molto recente. La prima organizzazione “anarchica” qui in Islanda risale a quando avevo 5 anni e si chiamava Saving Iceland, un’organizzazione che si batte principalmente contro le industrie pesanti.

Ho viaggiato molto e posso dire con certezza che la scena anarchica islandese non ha i tratti maschilisti che ho potuto osservare all’estero. Questo ha a che fare, ad esempio, con il fatto che l’Islanda non ha la stessa storia di lotta di classe, nel senso che non c’è mai stata una vera lotta di classe; quindi non c’è stata una connessione tra quest’ultima e il movimento anarchico. Allo stesso modo, in Islanda non c’è mai stata nessuna vera rivolta, quindi non esistono precedenti che possono giustificare quell’attitudine aggressiva che invece esiste altrove. Certamente, il machismo esiste anche qui in Islanda, come in qualunque altra parte del mondo, e ci prenderemmo in giro se pensassimo che essere anarchico significa automaticamente non essere un macho, oppure che non stupri o altro.

La ragione più importante per cui stiamo facendo questo tentativo di “autogestione” per così dire è proprio la lunga storia di violenze sessuali all’interno del movimento anarchico. Abbiamo cercato di confrontarci con la violenza sessuale all’interno della comunità anarchica, tramite un procedimento chiamato accountability process (procedimento di responsabilità). Si tratta di un procedimento in cui non ci si rivolge a forze esterne, come la polizia o il sistema giudiziario, perché è un’operazione che si basa sulla premessa che la comunità è in parte responsabile per la violenza che accade all’interno della comunità stessa e deve quindi cercare di confrontarsi con essa. Esiste un modello da seguire in questo senso e in Islanda abbiamo avuto due procedimenti di questo tipo per violenza sessuale che sono completamente esplosi. Il secondo procedimento è stato particolarmente negativo, soprattutto per la sopravvissuta che ha deciso di lasciare il paese. La prima volta che abbiamo provato abbiamo ricevuto molte, molte critiche.

 D: Il colpevole non ha ammesso le sue colpe?

 R: Nel corso del primo procedimento era presente il colpevole e due donne che si sono confrontate con lui. Andando avanti c’erano sempre più donne che raccontavano di aver avuto esperienze simili con quella persona. Il confronto è stato un procedimento in cui hanno raccontato tutto quello che è accaduto, come l’hanno vissuto e come questo le ha colpite. Sia il colpevole che le vittime avevano una squadra di supporto e l’incontro è andato benissimo, è stata una delle esperienze più belle della mia vita. Il colpevole era davvero dispiaciuto, non si ricordava molto dell’accaduto perché era ubriaco e sotto l’effetto di droghe, ma ha confessato subito; poi è tutto andato a rotoli, principalmente perché la squadra di supporto non si è dimostrata molto affidabile e molti non sapevano veramente che cosa stavano facendo. Ma il secondo procedimento è stato un totale disastro: il colpevole non ha voluto confessare la violenza. E non si è trattato solo di violenza sessuale, ma anche di stalking.

Lui ha ammesso per la maggior parte tutto quello che aveva a che fare con lo stalking, anche se era assolutamente contrario a utilizzare parole come “stalking” e “stupro”; continuava a ripetere di non essere uno stupratore. Questo è un aspetto molto interessante: ovviamente le immagini di stalker e di stupratore sono estremamente negative e succede che la gente pensi a questo tipo di persone come a mostri e non come a esseri umani o addirittura come ad amici, o comunque qualcuno di cui ti sei fidato. Quindi è fondamentale fare molta attenzione per evitare di demonizzare i colpevoli, perché se non si possono identificare come stupratori non andranno mai al cuore del problema. Gli è stato insegnato che la violenza sessuale è qualcosa che accade, come una parte dell’essere umano o meglio dell’essere uomo.

D: Quindi il colpevole dovrebbe ammettere e confrontarsi con quello che ha fatto senza l’utilizzo di sanzioni legali?

R: Sì. Ciò che sta alla base del processo di responsabilità è che nulla accade senza il consenso della sopravvissuta (traduciamo così survivor, anche se il femminile è una generalizzazione non enunciata in inglese: per evitare la stigmatizzazione del termine “vittima di violenza” molt* usano la parola “sopravvissuta alla violenza”, vedi supra l’articolo di Federica Panizzo ndr), che è responsabile e al comando di tutto il processo e questo è anche un modo per responsabilizzare le sopravvissute, per i quali uno dei più grandi problemi è proprio la mancanza di responsabilità. Un modo per ottenere questo effetto è ad esempio far sì che la sopravvissuta faccia richieste al colpevole. Ad esempio, un altro dei principali problemi delle sopravvissute è che sentono di aver perso il proprio spazio, non solo per le conseguenze di una sindrome post traumatica da stress, ma anche perché hanno paura di incontrare in giro il proprio persecutore. Questo tipo di reazione è ancora più probabile se accade all’interno della comunità. Il problema, nel nostro caso, diventa ancora maggiore se pensiamo che non ci sono moltissimi eventi anarchici e quindi le possibilità di incontro sono molte. La sopravvissuta in questo caso può chiedere all’autore della violenza di andarsene immediatamente se per caso si trovano nello stesso spazio, senza che il sopravvissuto subisca ulteriori oppressioni. Ci sono poi molte altre cose che può fare, come farsi sostenere da professionisti, frequentare gruppi di ascolto…

D: Ci sono in Islanda gruppi per uomini violenti?

R: No, ma alcune persone che hanno scelto di confrontarsi con la violenza sono andate al “Sex addicts anonymous”. Non conosco molto quella realtà, ma i risultati sembrano essere stati molto positivi, perché scoraggia molti comportamenti negativi, ad esempio la tendenza ad isolarsi nei comportamenti sessuali, come guardare le pornografia ad esempio…

 D: In che senso “isolarsi”?

 R: Nel senso di qualcosa che ti isola sessualmente dalle altre persone.

 D: È il caso che ha avuto successo è quello in cui il colpevole si è recato da “sex addicts anonymous”?

R: No, il primo procedimento ha avuto successo, perché le richieste delle sopravvissute sono state soddisfatte, i loro spazi sono stati rispettati totalmente, hanno avuto molto sostegno da parte della comunità, aspetto molto importante per il processo di guarigione.

In seguito ci sono stati altri due procedimenti molto interessanti al di fuori della comunità anarchica. Questo procedimento ha fallito sotto molti punti di vista, ma molti al di fuori hanno potuto imparare dagli sbagli.

 D: È la prima volta che sento parlare di questo procedimento, quello che mi viene in mente è la giustizia di riparazione in Sudafrica, ci sono delle somiglianze?

R: No, non molto. Si tratta di qualcosa che è arrivato dalla scena anarchica degli Stati Uniti, che proviene dalla filosofia dell’empowerment e della responsabilità della comunità, un’esperienza in cui non si vuole avere a che fare con il sistema giudiziario e con la polizia perché essere anarchico significa non avere fiducia in nessuno dei due. Non si tratta solo di non condividerne la visione politica ma di averne paura in sé.

D: Del resto, andare in tribunale a volte per la vittima diventa spesso un incubo peggiore dello stupro, per lo meno in Italia.

R: È vero; una mia amica è andata in tribunale quando aveva 17 anni e tutto è passato attraverso la “children house”, che avrebbe dovuto essere un buon centro per bambini abusati, ma mi ha detto che in realtà è stato peggio dello stupro. Quest’affermazione già da sola fa capire che il sistema non funziona. È molto bello perché si sta creando una connessione tra coloro che si occupano di sostegno alle vittime a le persone che portano avanti questo tipo di approccio basato sulla responsabilità comunitaria. Ne abbiamo parlato ai centri per le donne maltrattate che si sono entusiasmate nel sentirne parlare.

Anche perché la comunità anarchica è piccola, ma anche Reykjavik è piccola, quindi si ha bisogno di fare qualcosa di diverso che mettere qualcuno in prigione per un po’ di tempo. La serata allo spazio anarchico dopo l’intervista prevedeva una cena comunitaria costituita da cibo recuperato dagli scarti (perfettamente commestibili) dei supermercati, e la proiezione di un film a tematica transgender: a tutti coloro che sono entrati sono stati offerti volantini che parlano di come quello spazio voglia essere libero da violenza, e le misure attive di protezione delle sopravvissute, come la loro facoltà di chiedere a coloro che le hanno ferite di allontanarsi, e l’attenzione a non banalizzare la violenza di genere, facendone oggetto di scherzo, e così via – fino alla norma di etichetta di chiedere alle persone come vogliono essere chiamate;: al maschile o al femminile, senza darlo per scontato dall’apparenza.

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InVidiA 2 di donasonica

Anno nuovo, lista nuova. Come va la vostra invidia? La mia sale, il che può voler solo dire che c’è roba da guardare in giro. Per segnalazioni, suggerimenti, correzioni, basta commentare o contattarmi. donasonica

– Video più tamarro dell’anno Chairlift/I belong in your arms

Il chairlift sono un duo che a me piace molto, e che metto spesso in giro.

Detto questo, la versione di I belong in your arms in giapponese è veramente ridicola, in senso buono: mette buon umore.

E’ ci spiega anche qualcosa di più su quello che siamo noi, cresciut* tra gli ’80 e i ’90 quando, ve lo ricordo, la nostra televisione per bambin* era colonizzata dall’animazione giapponese.

Caroline Polachek la cantante, tastierista e altro del duo, è una appassionata di cultura anni ’80, in un’intervista a chi le chiede quale sarebbe l’artista con cui le piacerebbe fare un duetto, risponde: Jem and the holograms. Ecco.

[per chi non se le ricordasse, bonus video: http://youtu.be/c0iEScFn8M4]

– Video più chiaro possibile

Pussy Riot/Putin lights up the fires of revolution

decisamente per molti versi, questo è stato l’anno delle pussy riot, anche a causa della politica di Putin, che ha pensato bene di farne una dopo l’altra e irrigidire ancora di più una politica scellerata e fascista, che non dimentichiamolo, non è così dissimile da molti paesi cosidetti “europei” come se poi questo aggettivo significasse qualcosa o implicasse un essere migliori rispetto a chi non ne fa parte. La cosa interessante è che sono riuscite a scatenare un casino pure qui da noi, in Italia, dove alcune geniali menti hanno scritto cose che di femminista non hanno niente, di maschilista assai.

Le pussy riot, per chi non se ne fosse accort*, sono pure una band, questo che vi linko è l’ultimo singolo, che non è niente male per chi ama il genere, e che nel video fa da colonna sonora ad alcune delle loro azioni di protesta, in particolare quella che è valsa loro una bella condanna.

– Video meno comprensibile Beach House/Wild

Una delle migliori band, uno dei migliori album, uno dei migliori video.

qualcuno userebbe, a ragione, il termine weird, per descriverlo. Un collage di momenti catturati in quelle che sembrano tutte relazioni violente, intense e fisiche.

Questa la traduzione dell’inciso:

Spietati a nostro modo

Cosa stiamo facendo?

Difficile da dire

Continuiamo a fingere

– Migliore performance live di una band che era morta, e invece no. Bush Tetras/You Taste Like The Tropics

Bush Tetras erano una band meravigliosa degli anni ’80, se non la conoscete, il che è difficile se mi seguite, ora avete l’occasione di recuperare con facilità. Vi dico questo perché è piuttosto complicato trovare in rete qualcosa di uscito in quegli anni. A novembre del 2012 è stato “riesumato” un loro album registrato nel 1998, che però non era mai uscito.

Si intitola “Happy” e questa mitica band ha girato gli States negli ultimi mesi del 2012 per presentarlo. C’è una flebile speranza che arrivino in Europa in qualche sperduto festival estivo e io (e chi di voi condivide la mia passione) possa finalmente vederle dal vivo!?

– Migliore video masochista St. Vincent/Cheerleader

Perché questo video? Beh intanto per premiare una delle artiste migliori di quest’anno, anche live. Poi perché poverina in quasi tutti i video tratti dall’album lei non fa una bella fine. E pure quando l’abbiamo vista live, povera, ci sembrava un po’ smunta e stanchissima. Su, Annie, nel prossimo video devi rimanere in piedi solo tu!

– Peggiore video dell’anno Florence and the machine/Spectrum

Video più brutto dell’anno, ma molto coerente con l’album.

Devo dire che Florence mi era piaciuta, al suo debutto, ma a mio giudizio questo album, che avrebbe dovuto in qualche modo rappresentare una conferma del suo talento, è decisamente brutto. Manco a dirlo, in molte classifiche questo video viene indicato come uno dei migliori dell’anno.

– Video più controverso Skip&Die/Jungle riots

La front woman di questa band, che ha riscosso un grande successo quest’anno, è Catarina Aimée Dahms (aka Cata.Pirata), artista visuale e voce. Il video che vi sto segnalando in effetti ha scatenato diverse polemiche. la questione riguarda l’impegno politico del video e dei pezzi della band, che però sarebbe messo in discussione dalla “bianchezza” della cantante (nata in sud africa). Non è un tema nuovo, soprattutto per le nostre battaglie femministe, e resta un tema assai controverso: si può parlare e raccontare delle donne arabe, se non si è araba, delle nere, se non si è nere, delle lesbiche se non si è lesbica?

– Migliore indie video Petern Kernel/Anthem of hearts

e anche migliore concerto dell’anno assieme a tuneyards. loro sono peter kernel, svizzeri cantone italiano, francese e una infiltrata dal canada. L’unica interessante band che abbia riscosso la giusta attenzione quest’anno. se vi capitata di trovarvi dalle loro parti quando suonano, fatevi un regalo: andateci.

– Migliore video ironico Cat Power/Kids song per Funny or Die

Funny or die è un sito che raccoglie contenuti creati da utenti o da persone famose o dallo staff, che come preannuncia il titolo deve essere divertente, oppure muore.

Sono tante le clip carine e divertenti che potete trovarci, ma tra queste la migliore di quest’anno secondo me resta Cat Power invitata a suonare per dei bambini, che diciamo così, impersona Cat Power al peggio di sè, e molte sue fan forse avranno avuto occasione di verificare che dal vivo, almeno finché ci dava dentro con l’alcool, era proprio così insopportabile. La cosa bella e che fa ben sperare è che sia lei a prendersi in giro.

– Migliore esordio e le più queer dell’anno Female Trouble/Nadine

Female Trouble – Nadine- from Sofia Karaka on Vimeo.

E lasciatemelo fare ogni tanto: premiare amiche che fanno tanto per la musica, la politica e la cultura femminista in generale. E che non hanno alcun paura di reinventarsi e giocare ogni volta. Che siano d’ esempio per tutte noi per questo nuovo splendente anno.

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Il Carico dei Suoni Sospesi – Mimes of Wine – Shivadiva

di Lucy Van Pelt

 

Il Carico dei Suoni Sospesi – Non pratico vandalismo (2012)
(rock, funk, nu metal)
Ad un anno di distanza dal primo Condizione alienata, la band fiorentina ci presenta il secondo album Non pratico vandalismo che, come il precedente, è completamente autoprodotto ed indipendente, con licenza Creative Commons. Un disco fondamentalmente rock, ma con influenze diverse. Sara Matteini, voce e anche autrice dei testi, si focalizza, come già nel primo album, sull’essere umano, con riflessioni sulla vita, sul lavoro che facciamo, sul mondo in cui viviamo, che ci riempie di ansie inutili, e sui modelli e gli stili di vita che ci vengono imposti. La critica alla società contemporanea è infatti il tema centrale dell’intera opera, non a caso troviamo citazioni di libri quali “L’ozio come stile di vita” di T. Hodgkinson e di film come Fight Club e Trainspotting, nell’intento di raccontare la realtà secondo una prospettiva alternativa rispetto a quella abituale. Musicalmente, invece, si tenta di esplorare quanti più territori musicali possibili, spaziando dall’elettronica, al grunge, alla new wave, con influenze nu metal, sfumature funk anni ’80 e drum’n’ bass. Un invito alla libertà di pensiero, alla responsabilità individuale e alla presa di coscienza nel rendersi completamente incondizionati. Potete scaricare direttamente l’album dal loro sito, una volta registrati.

 

Mimes of Wine – Memories for the unseen (2012)
(song-writer, alt-rock)
Dopo tre anni dall’uscita del precedente Apocalypse sets in, il quartetto dei Mimes of Wine si ripresenta con un secondo lavoro composto tra Los Angeles e Bologna. Memories for the unseen è un disco magico, stregato e sicuramente ispirato, dove Laura Loriga (voce, piano e anche autrice oltre che interprete), si ritrova a navigare tra flutti di suggestioni e moti d’animo, alla ricerca di quella quiete da cui è attratta e allo stesso tempo rifugge. Infatti il tema del disco sembra essere proprio quello della fuga e del ritorno da parte di un umanità piena di debolezze e imperfezioni, che però ha anche la possibilità di risorgere. La voce di Laura ha la personalità della grandi interpreti, con un’emotività continuamente tesa tra l’equilibrio e la caduta. I suoni sono quasi sempre minimali, ed è tendenzialmente un piano con forti influenze classiche a farla da padrone. A questo si aggiungono, poi, dei deliziosi innesti di tromba che conferiscono un’atmosfera diretta e allo stesso tempo trasognata. E’ certamente un disco etereo, affascinante quanto difficile, di una bellezza rara, e sono sicura che se il gruppo riuscirà a rendere queste atmosfere anche dal vivo, saremo veramente di fronte a qualcosa di nuovo e unico. Per ascoltarlo in streaming andate pure qui.

 

Shivadiva – Mondo Perfetto (2012)
(pop, elettro-acustico)
Il progetto Shivadiva nasce dall’unione di Laura Smiraglia (voce e chitarra elettrica), Rosella Cazzaniga (chitarra acustica) e Valentina Guidugli (basso ) nel 2007. Shiva è una delle maggiori divinità indiane, è piena di buoni auspici ed integra sia il maschile che il femminile, sia ascetismo che sensualità.
Mondo Perfetto è il primo album del gruppo, ed il brano omonimo ha vinto il concorso nazionale contro la violenza sulle donne promosso dall’associazione Cerchi d’Acqua. Il mondo perfetto è composto da storie che esplorano il femminile, visioni che diventano canzoni, energie positive e negative raccolte in brani che possono essere interpretati in maniera differente. Il disco appare estremamente variegato, trae ispirazione da diversi generi, e fonde un pop ammiccante con ritmi di bossanova, accenni di trip-hop e innesti di elettronica. Il cantato così squisitamente anni ’90 di Laura Smiraglia può riportare alla mente la Meg degli anni migliori, i testi sono ironici e sarcastici e talvolta sembrano fare il verso a certi classici della canzone italiana. Inoltre le copertine dei cd sono confezionate in esemplari unici attraverso il riutilizzo di jeans e altri materiali di riciclo, come impegno verso uno stile di vita ecosostenibile. Ecco il loro sito per saperne di più.

 

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Rassegna teatrale a Milano

Out of Gender Seconda edizione 2013
Teatri e suoni irriverenti di donne R/esistenti

jjj
Organizzata dalle Associazioni Culturali  Tramanti e Villa Pallavicini
Una rassegna teatrale e musicale out dai soliti stereotipi di genere per vedere ascoltare e chiacchierare out dal mediologico quotidiano.
A Milano, in via Meucci 3, per una città che vuol cambiare.

Venerdì 18 gennaio 2013 ore 21.00 Via Meucci 3 – Villa Pallavicini
MUSICA
Mondo Perfetto
– Shivadiva Live – Plurale femminile: Laura Smiraglia (voce e chitarra elettrica),
Rosella Cazzaniga (chitarra classica) e Valentina Guidugli (basso elettrico)

 

Un concerto live che miscela sound pop e rock acustico con il trip hop, su tre elementi quali il basso, la voce e la chitarra in aggiunta ad atmosfere elettroniche ottenute con un lavoro certosino in studio di registrazione per musicare un Mondo Perfetto.


Venerdì 22 febbraio 2013 ore 21.00 Via Meucci 3 – Villa Pallavicini
TEATRO
Magnificat
– Goghi&Goghi
scritto e diretto da Ila Covolan con Mara Pieri

 

Un’attrice in scena, sei personaggi che da diversi luoghi d’Italia intraprendono il viaggio per Lampedusa, e, allo stesso tempo, un viaggio nella loro identità sessuale, di genere e nel ruolo che la società loro impone. Uno spettacolo ora divertente, ora nero, a tratti sguaiato, a tratti tragico; una sorta di lenta discesa agli inferi di uomini e donne spinti/e alle estreme conseguenze della catalogazione, in un tragico destino, che li accomuna a tutti i/le migranti, i/le rifugiati/e, le donne, che in questo paese non hanno nome, non hanno dignità, non hanno diritto di cittadinanza, ma solo un’etichetta, pesante come un macigno, di cui sembra impossibile disfarsi.


Venerdì 22 marzo 2013 ore 21.00 Via Meucci 3 – Villa Pallavicini
CINEMA
Anteprima della tanto attesa serie web Re(L)azioni a catena e proiezione del video – fiction
La Capretta di Chagall
Associazione Culturale BADhOLE

 

Una serie web che nasce dall’indignazione per un Paese a senso unico e dal desiderio di raccontare gli affetti, il lavoro e la famiglia così come ci appaiono: una sequenza di reazioni e relazioni a volte sorprendenti e a seguire la fiction ironica La Capretta di Chagall in cui Emma è innamorata di Lei. Lei è come se non la vedesse. Silvia da consigli come fosse un guru pop. Emma prova ad ascoltarli ma poi finisce sempre che si fa i film e vola con la testa dove non te l’aspetti, come le caprette nei cieli di Chagall.


Venerdì 19 aprlie 2013 ore 21.00 Via Meucci 3 – Villa Pallavicini
TEATRO
Frida: euforia di una vita
– Associazione Donne di Sabbia adattamento di e con Monica Livoni
Suoni: Gianfranco Mulas

 

Un monologo intimo e gioioso liberamente tratto dal monologo “Viva la Vida di Humberto Robles”, che si colloca tra il ricordo, i sogni e la passionale realtà di un personaggio viscerale e controverso come era la famosa pittrice messicana.


Direzione artistica: Eleonora Dall’Ovo Associazione Tramanti
340-3783848

 

Tutti gli spettacoli si terranno alle ore 21.00 presso l’Associazione Culturale Villa Pallavicini Via Meucci 3, in Zona 2 in fondo Via Padova. Ingresso con tessera 10 euro.


Per chi volesse cenare o sorseggiare in compagnia Villa Pallavicini soddisferà i vostri palati


Prenotate il tavolo allo 02 2565752


un progetto culturale con il sostegno di:

Out of Gender per un teatro che tr\ama reti di autrici\attrici\registe che r\esistono
Out of Gender per spettatori che scelgono di definirsi perchè responsabile e necessario
Out of Gender per spettatori senza fissa dimora e con orientamenti precisi
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Si può abortire alla periferia del Vaticano?

di Mara Brunori

National Library of Medicine

Molto interessante (ma non egualmente incoraggiante) il seminario tenuto lo scorso 10 dicembre presso la clinica Mangiagalli di Milano,  dal titolo “La riproduzione e l’IVG in Italia, tra etica e scienza: uno sguardo socio-antropologico”.

L’incontro, organizzato con il patrocinio del Corso di laurea in Ostetricia dell’Università degli Studi di Milano e dell’associazione Blimunde, ha visto la partecipazione di cinque relatrici che oltre a offrire una visione dell’argomento in chiave socio-antropologica e filosofica hanno esposto i risultati delle loro ricerche. Naturalmente grande spazio è stato dato anche l’aspetto medico, soprattutto grazie all’intervento della dottoressa Uglietti che proprio in Mangiagalli ricopre il ruolo di responsabile del reparto per l’applicazione della L.194/78.

 

Scopo dell’incontro era fare il punto della situazione riguardo la situazione dell’interruzione volontaria di gravidanza in Italia, con particolare attenzione alla posizione e al ruolo del personale medico e paramedico obiettore di coscienza.

Premessa del seminario è stata l’anomalia dell’Italia rispetto ad altri stati europei (soprattutto Francia e Inghilterra) consistente nella scarsissima ricerca socio-antropologica in tema di contraccezione, sessualità e IVG. La ricerca qualitativa è pressoché inesistente, più consistente è quella qualitativa, che però da sola non basta poiché i dati raccolti non hanno modo di essere contestualizzati. Tutto questo fa si che non venga indagato il contesto in cui si muove la donna: poco si sa delle motivazioni che la possono condurre alla decisione di interrompere una gravidanza, delle difficoltà di accesso alla IVG, dei problemi che una ragazzina o un’immigrata possono avere con la contraccezione. Allo stesso modo poco spazio viene dedicato al ruolo degli operatori sanitari, alle difficoltà che incontrano durante lo svolgimento del loro lavoro, alla scelta tra essere o non essere obiettore.

 

Il dibattito si è aperto con l’introduzione di Lia Lombardi, sociologa della salute e della medicina e presidente di Blimunde, associazione socio-culturale senza scopo di lucro che promuove la salute secondo un approccio olistico e multidisciplinare.

Forte accento è stato posto sull’atteggiamento della società nei confronti dell’aborto, che è caratterizzato da un’ambivalenza di fondo: laddove questa pratica non è ammessa viene comunque praticata (con conseguenti speculazioni e pericoli connessi agli aborti clandestini), mentre dove è legale ci si relaziona con una sorta di tolleranza mischiata a indifferenza: l’IVG viene effettuata ma non si dice.

Le donne che vi ricorrono tendono a tenere nascosto questo atto, a non raccontarlo, a non condividerlo, proprio perché consapevoli di questa non-accettazione e della stigmatizzazione che le investirebbe. Stigmatizzazione che porta a vedere la donna che abortisce come “deviante”, come “snaturata” poiché si oppone “al naturale destino femminile di essere madre”.

Questa sorta di ipocrisia di approccio affiora ogni qualvolta si affronti un tema connesso con la corporeità femminile: non solo aborto quindi, ma anche sessualità, sterilità, mutilazioni genitali femminili, vita riproduttiva. È chiaro come la società tenda a non affrontare questi discorsi e a reagire con un atteggiamento fintamente distaccato ed ambivalente, che si presta facilmente a strumentalizzazioni.

Grande spazio è stato dedicato alla situazione delle donne straniere, che oltre ad essere vittime di questa stigmatizzazione ancor più delle italiane, sono anche oggetto del pregiudizio che le vuole figlie di una cultura dell’aborto… come se esistessero donne per cui abortire fosse facile e privo di sofferenza, conseguenze e cambiamenti.

 

Dopo questa iniziale panoramica ci si è addentrati nel mondo ospedaliero, grazie a Silvia De Zordo – che ha condotto una ricerca qualitativa sull’esperienza e le opinioni dei medici su IVG e obiezione di coscienza in Italia e UK.- e di Anna Uglietti che ha riportato la sua quotidiana esperienza ospedaliera.

 

La ricerca condotta in una clinica romana da De Zordo ha evidenziato la doppia contraddizione del personale medico che sceglie la strada dell’obiezione di coscienza: da un lato la presenza di persone atee nelle loro fila, dall’altra il riconoscere come giusta la possibilità di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza anche da parte degli obiettori credenti.

E allora perché queste persone obiettano? È palese che le motivazioni non risiedano nella sfera personale etica e religiosa, ma nell’aspetto professionale. Vantaggi per la carriera e il sottrarsi dallo svolgimento di una procedura definita “poco gradevole e poco qualificante” sono le spiegazioni più gettonate.

Molto interessante sottolineare la presenza di credenti e praticanti nel personale non obiettore, che sceglie di applicare la 194 anteponendo l’etica professionale al proprio credo religioso.

Un altro aspetto che è emerso, a mio avviso piuttosto inquietante, è la scarsa conoscenza della L.194 e delle tecniche abortive da parte degli operatori. Poco sanno sui limiti entro cui aborto volontario e aborto terapeutico possono essere effettuati (cosa che comporta un’arbitrarietà di applicazione tra le varie strutture) e oltre a questo appaiono scarse le conoscenze tecniche. Un esempio per tutti: in Italia – a differenza di altri paesi – nel secondo trimestre le interruzioni di gravidanza vengono effettuate solo tramite travaglio abortivo, evitando quindi il ricorso a procedure chirurgiche per cui i ginecologi non sono adeguatamente formati.

 

“La 194 è una legge che va quotidianamente difesa… questo lavoro va continuamente difeso, ogni giorno. Bisogna restituire a questo tema sia dignità scientifica che etica”. Così inizia l’intervento della Dr.ssa Uglietti, che con forza e convinzione ha raccontato il suo non facile ruolo di ginecologa responsabile dell’applicazione della L.194 in Mangiagalli.

Punto chiave del suo discorso è proprio ridare dignità scientifica a questo lavoro, dignità che troppo spesso viene offuscata da argomentazioni ideologiche e politiche che interferiscono con l’applicazione di questa legge.

“Creare interesse su questo lavoro, a livello di studio e specializzazione”: questo può essere un punto di partenza per far uscire l’IVG dal ghetto dei lavori poco qualificati, di routine e professionalmente privi di attrattive.   Negli altri stati viene destinata più attenzione alle tecniche di intervento, c’è una formazione continua degli operatori al fine di migliorarle, e puntare su questo potrebbe rivelarsi un modo vincente per ridurre il numero degli obiettori (oltre che per garantire la migliore assistenza medica possibile alle donne che vi ricorrono).

Altro aspetto sottolineato è la necessità di creare un contorno, una rete di assistenza per la donna che ricorre all’IVG. Il personale non obiettore è in continua diminuzione e proprio per questo oberato di lavoro, con la conseguenza che ritagliare del tempo per dedicare attenzione e sostegno alla paziente in un momento così delicato diventa sempre più difficile. Non ci sono spazi per l’ascolto, il confronto, l’accoglienza psicologica e “umana”, e purtroppo non esiste nemmeno una rete tra consultori e ospedali che possa far da supporto in questo.

 

Claudia Mattalucci ha contribuito al seminario portando la sua esperienza di ricercatrice nel mondo pro-life, costituito da una serie di associazioni e movimenti (tra cui il Movimento per la vita) che riconoscendo il feto come persona fin dal momento del concepimento si oppongono alla pratica dell’aborto in quanto sovrapponibile all’omicidio.

Grande spazio è stato dedicato alla Sindrome Post Aborto (PAS), che è un disturbo post traumatico da stress di cui si parla sempre più spesso e sulla cui esistenza il mondo scientifico non ha ancora trovato un accordo. In ogni caso pare che le donne che ricorrono all’aborto siano maggiormente predisposte a depressione, stress, ansia, abuso di sostanze stupefacenti e suicidi. Secondo questa teoria  l’IVG  risulta quindi essere un fattore di rischio per la salute mentale della donna.

Certo è che questo è un argomento su cui sarebbe meglio non fare generalizzazioni: ogni donna ha una storia a sé, ogni aborto ha una storia a sé. E come possiamo sapere a priori cosa potrebbe essere più traumatico tra un aborto e una  gravidanza non desiderata? In questi studi manca poi un aspetto da cui non si può prescindere: la motivazione che spinge una donna verso questa scelta, che potrebbe rivelarsi parte determinante nello sviluppo di questa sindrome. Pensiamo ad esempio al caso di uno stupro: come stabilire se la depressione è dovuta all’aborto conseguente o alla violenza subita?

 

Le conclusioni sono state affidate a Roberta Sala, docente di Filosofia Politica, che ha mostrato come l’obiettore tenda a sovrapporre i concetti di obiezione di coscienza e disobbedienza civle.

L’obiezione di coscienza è la richiesta di essere esentato dall’obbedire a una legge dello stato. In altre parole l’obiettore chiede di  poter disobbedire sulla base della sua coscienza (che si palesa nelle proprie credenze religiose ed etiche). Sono quindi ragioni che riguardano la sua sfera privata, che troppo spesso però egli stesso manipola trasformandole in ragioni di giustizia: l’obiettore quindi chiede di non obbedire alla legge non (solo) perché abbia motivazioni personali che lo spingano a farlo, ma (anche) perché crede che sia la legge ad essere ingiusta. È quindi una forma di protesta, una disobbedienza civile appunto, che però come abbiamo visto prima serve solo a coprire le motivazioni reali che lo spingono a non effettuare IVG.

Questo cambia totalmente la prospettiva, perché è facile comprendere che se la legge viene disobbedita perché considerata ingiusta, significa che l’obiettore si pone in una posizione di superiorità rispetto alla legge stessa e alla scelta della donna, che considera immorale. Il senso (e l’applicazione) della L.194 vengono quindi compromessi.

Ritorna quindi la domanda che anch’io avevo posto nel mio articolo precedente: dato che fare il ginecologo non è un obbligo, perché chi non vuole praticare la IVG sceglie proprio questo ramo della medicina?

Molti i quesiti rimasti aperti alla fine del seminario. Quello che è evidente è che la L.194 continua a suscitare reazioni, a essere al centro di dibattiti politici e ideologici, e ad essere poco conosciuta e soggetta a strumentalizzazioni che nei fatti ne limitano l’applicazione. Come se non bastasse aumenta tra le donne la spiacevole sensazione di sentirsi “scippate” di un diritto raggiunto sulla carta ormai trentaquattro anni fa.

“Dobbiamo ricominciare ad occupare le piazze un giorno si e un giorno no, come negli anni ’70!” , questa la conclusione di tutte le donne presenti in sala.

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Mandateci le vostre storie

di Val

Continua anche sul blog la nostra serie “Una donna al mese”, in cui le intervistate ci hanno parlato del loro rapporto con la femminilità.

Chiediamo anche alle lettrici di scriverci la loro storia prendendo spunto da queste domande:

“Quando ti sei accorta di essere femmina?”

“Che cosa ha significato per te?”

Stiamo preparando un e-book che raccoglie le vecchie e le nuove storie, illustrato da Dalia Del Bue e dalla nostra Val.

Mandate il vostro contributo a daniela chiocciola xxdonne.net

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