In occasione delle mobilitazioni del mese di ottobre per la giornata per la depatologizzazione trans
VUOI ESSERE MIO AMICO?[1]
Atto 1
Rachele Borghi
“Are you happy?” “Yes, thank you, this is a beautiful question. My happiness is about life, not about gender”[2].
La rubrica potrebbe anche finire qui. In queste parole è già ben riassunto il lavoro e l’approccio di Lazlo Pearlman, ma siccome durante l’intervista che gli ho fatto in occasione della presentazione di “Fake Orgasm” a Agender (Roma, 8-11 dicembre 2011) e della sua performance al Weird festival[3] (Roma, 4-6 ottobre 2012) mi ha detto cose interessanti, preferisco andare avanti…
Lazlo Pearlman è un performer, attivista e insegnante che ha dedicato tutto il suo lavoro alla rottura di pregiudizi, luoghi comuni e dogmi su genere e sesso.
Il corpo di Lazlo è un corpo queer, che esprime la liberazione dai vincoli dettati dalle norme. L’incontro con lui è emozionante, per il suo corpo, impossibile da etichettare come eteronormatività obbliga ma soprattutto per la sua personalità, per il suo modo di entrare in relazione con te, di prenderti per mano e di farti entrare in un altro mondo.
Le sue performance fanno l’effetto di una bomba ma Lazlo innesca la miccia con delicatezza, col sorriso, con l’ironia e la tenerezza. Le bombe che Lazlo costruisce hanno l’odore dei fiori, il colore dell’arcobaleno, il peso delle piume. Lazlo ti entra nella testa : bussa, ti saluta e ti chiede se lo lasci entrare. Il suo lavoro, coinvolgente e toccante, fa cadere ogni riserva, ma soprattutto ogni tipo di preconcetto su ‘cosa’ e ‘come sia’ o ‘debba essere’ una ‘donna’ o un ‘uomo’.
Ciò che le sue performance[4] trasmettono è un senso di libertà, la libertà dell’abitare un corpo che esce dai binarismi e da ogni tentativo di classificazione dualistica. Il suo corpo muscoloso, i tatuaggi colorati, il sorriso affascinante, lo sguardo intenso, la testa rasata, la fica depilata, ti esortano a lasciare da parte tutte le tue convinzioni su sesso e genere e a lasciarti trasportare dai movimenti del suo corpo.
Se non conosci Lazlo, forse vederlo in scena ti lascerà inizialmente perpless*. La fine (o meglio a quella che tu credi sia la fine…) della sua performance, dopo che si è tolto tutti i vestiti a ritmo di danza, può sorprendere. Anzi, diciamo che a volte l’effetto è quello di un ‘terremoto’ nella testa. Senti dei rumori, non sono i detriti che cadono ma tutte le tue certezze sulle costruzioni di genere, del sesso e della sessualità. Non hai, però, voglia di piangere; al contrario, ciò che più desideri è respirare profondamente quella boccata di ossigeno, di aria fresca e nuova che senti liberarsi nell’aria…
Se ti autorizzi a lasciarti andare, se accetti di non farti spaventare dalla perdita dei tuoi punti di riferimento, allora, arrivat* lì, la sola domanda che vorresti fargli, non è “Sei un uomo o una donna?” “Sei etero o omo?” “Intendi operarti? Perché non l’hai fatto?”. No, l’unica cosa che vorresti chiedergli è “Scusa, vuoi essere mio amico?”.
COSI (MI) PARLO’ LAZLO PEARLMAN…
Qual è il tema centrale delle tue performance? C’è un filo conduttore che le lega?
Sì, c’è un nodo centrale intorno al quale costruisco le mie performance. Senza parlare di tutto il background culturale, posso dire che ciò che più mi interessa è il momento in cui l’esplosione si produce nella testa della gente che assiste al mio spettacolo.
Faccio performance da quando avevo 10 anni, ben prima di capire quale fosse il mio genere e roba simile [ride]. Prima della mia transizione, performavo sempre ruoli maschili e mi ponevo in rottura con la norma. Allora c’erano drag king e gli spettacoli queer erano popolati da cross cast, ovvero uomini che performavano ruoli femminili e viceversa. Anch’io l’ho fatto. Ma dopo la mia transizione non era più possibile perché non provocavo più nessuna rottura della norma. Non sapevo più bene cosa fare…
Ho passato 6 anni lontano dal palco, a dirigere gli spettacoli, perché non avevo ancora ben chiaro quale fosse il ruolo del mio corpo sulla scena. All’inizio non avevo molta voglia di parlare di transessualità, non è il centro del mio lavoro. Ma allo stesso tempo pensavo che la gente non potesse comprendere fino in fondo il senso di quello che facevo senza sapere che sono trans. E’ allora che ho cominciato a spogliarmi sul palco. Pensavo che avesse senso farlo, ma più lo facevo più mi sentivo insoddisfatto… Sì, va bene che sappiano che sono trans, è una buona cosa per la visibilità trans, ecc. Ma allo stesso tempo, pensavo che se fossi stato costretto a parlare di visibilità trans per tutta la vita, mi sarei sparato! [ride]. Piano piano ho cominciato a capire che ciò che cercavo nei miei spettacoli era quell’istante in cui gli/le spettatori/trici mi guardavano e vedono un uomo assolutamente coerente con le norme di genere. Fino al momento in cui mi spogliavo… In quel momento le persone sono così sconvolte da far sì che si crei un momento di rottura in cui hai l’impressione che qualsiasi cosa possa essere rimessa in questione. Gli/le spettator/trici non capiscono fino in fondo cosa succede e non riescono subito a rimettere le idee in ordine, a sostituire lo sconvolgimento [trouble] con qualcosa di chiaro e definito. Ho capito che era quel momento preciso che mi interessava. A quel punto, il mio lavoro è stato di individuare e capire quell’istante…
Dopo ogni choc, gli esseri umani – e la natura in generale – tentano di riorganizzarsi, di sostituire l’ordine al caos. Cerchiamo tutt* di riempire questo spazio indefinito che si forma nella nostra testa quando siamo sollecitat* da domande che non hanno per forza delle risposte. E allora le domande che mi fanno sono del tipo “Sì, va bene, ma… perché porti gli occhiali? E gli orecchini?” “Dimmi una cosa, ma sei etero? Sei gay?” “Qual è il soggetto della tua ricerca? Riguarda te, riguarda me?” e così via. Credo che ciò che le persone cercano di fare in quel momento sia ridarsi delle sicurezze razionalizzando ciò che è appena arrivato loro; lo fanno partendo da me, come per dire “Se riesco a capire te, allora è chiaro cosa succede a me, nel mio mondo”. Il mio scopo è portare le persone ad ammettere che non capiscono, e che va bene così! Perché forse fa pure bene non capire e può essere perfino importante. E’ proprio lì che voglio condurre la gente. Ecco quello che cerco di fare.
Cerco di trovare un modo di farlo non solo attraverso la nudità. Ho cominciato una tesi di dottorato, studio quel momento allo scopo di esplorarlo meglio. Cerco di trovare altre modalità di provocare quell’effetto durante le mie performance, non solo con lo choc dato dal mio corpo nudo. Il mio lavoro ruota intorno a quel momento. Per esempio, si può arrivare a quel risultato anche con l’humour e la costruzione dello spettacolo. Non cerco solo l’effetto ‘pugno nello stomaco’ perché non voglio dire loro “Vai a farti fottere” ma piuttosto, “fottiamo!” [ride].
Ti è già capitato di suscitare reazioni violente?
No, non ho mai avuto episodi di violenza fisica, direi piuttosto di tipi diversi di aggressività, ma forse neanche… Le reazioni aggressive sono del tipo… Ecco sì, hai visto le reazioni dopo la proiezione del film? C’era quel tipo che è intervenuto, era provocazione gratuita[5]…
Non è stato proprio aggressivo, ho avuto la sensazione che volesse piuttosto sfidarmi. Durante le proiezioni, questo tipo di persone rappresentano la più grande sfida; sono persone che non riescono a reagire in nessun modo, non trovano il modo di dire ciò che succede loro, ma sentono dentro qualcosa di forte. Non sanno come fare per esprimere ciò che sentono, anche se ci tentano. […]
A volte succede anche che la gente se ne vada, o che non mi rivolga la parola. Nel film alcune scene sono state girate a Barcellona. Ci sono stati dei momenti molti intensi perché la gente che assisteva alle riprese si rendeva conto che c’era qualcosa di inusuale. A volte percepivo una certa diffidenza […]. Molte persone si avvicinavano a me per avere il loro momento di gloria… Ma c’è stata anche una donna che mi ha detto che la disgustavo […].
Per me il contatto con la gente è sempre un momento molto forte. Durante le riprese nelle strade di Barcellona, guardavo la gente negli occhi, ma era troppo forte per me, non sapevo cosa fare di ciò che vedevo nel loro sguardo e non mi sentivo in grado di continuare in questo modo. L’equipe del film è etero, sono anarchic* etero, molto aperti ma, in un certo senso, normativ*. Ho cercato di spiegare al regista che avevo bisogno di uno spazio ‘safe’ […]. Lui mi ha detto di non preoccuparmi “Siamo a Barcellona, siamo in Spagna, alla gente non gliene frega niente, è tutto legale”. Ci ho messo 45 minuti per spigargli la differenza tra ciò che succede con un corpo queer e un corpo maschile etero… Mi ha detto ok ma non aveva ancora capito, fino al giorno dopo.
Facevamo di nuovo le riprese ed ero solo, nessuno si curava veramente di ciò che succedeva intorno a me quando un tipo mi si è avvicinato ridendo, mi ha toccato il sedere e se ne è andato. Ho detto al regista “Hai visto cos’è successo?”. Lui mi ha risposto di no, che era concentrato sulle questioni tecniche. Poi ha riguardato le registrazioni ed è rimasto sconvolto. A me non ha fatto lo stesso effetto; dico solo che avrebbe anche potuto darmi una coltellata, se avesse voluto. Era solo uno stupido, non era abbastanza fuori di testa per accoltellarmi, ma si tratta di un’eventualità che devi tener conto in questo tipo di situazioni…
Vabbé, quando le persone hanno una reazione aggressiva, penso sempre che nella maggior parte dei casi è la conseguenza dello sconvolgimento, della bomba che gli scoppia in faccia, e non è sempre divertente […].
A volte però ci possono anche essere delle reazioni euforiche, un’euforia verso il sentimento i libertà dato dall’intravedere la possibilità di uscire dalle norme di genere…
Sì, è quello che mi dicono in molti. Nel mio ultimo spettacolo con Nadège[6] faccio cose molto ‘romantiche’, tipo ballare con i fiori. C’è un appendiabiti, faccio il mio strip e vi appendo i vestiti, poi ballo con lui e diventa il mii partner. Poi esco di scena e la gente pensa che sia finito […]. Invece scendo tra il pubblico e comincio a guardare le persone, cerco di creare una connessione, un’interazione con loro. L’atmosfera cambia di nuovo. Allora comincio a spingere le persone una verso l’altra per farle ballare, io stesso ballo ora con l’una ora con l’altra e alla fine tutti ballano! […] La maggior parte della gente mi dice “Ah, mi sento in un altro mondo…”. L’euforia si vede sulle loro facce e nessuno mi fa più nessuna domanda sul mio genere! […].
Io lo faccio per rompere con lo spazio convenzionale tra me e il pubblico, con quella sorta di ‘voyeurismo’ tra performer e spettatori/trici. Li/e invito a partecipare con me allo spettacolo, perché si sentano coinvolt*. Li convinco a dirmi sì! [ride]. In questo modo, spesso si crea un’atmosfera romantica […] E ottengo almeno che la gente dica “wow!”. E capita pure che qualcuno si spogli pure…
To be continued…
[1] La versione originale e integrale dell’articolo è pubblicata sul sito dell’Observatoire des Transidentités http://www.observatoire-des-transidentites.com/article-queer-arts-109808877.html
[2] Dal film “Fake Orgasm” (AKA “Faking It,” “FO”) 2010, Dir. Jo Sol, Producer, Zip Films, Starring Lazlo Pearlman
[3] http://weirdfestival.noblogs.org/
[4] http://www.lazlopearlman.com/video.cfm
[5] Lazlo fa riferimento ad un intervento durante il dibattito che ha seguito la proiezione di Fake Orgasm durante Agender. Lo spettatore aveva cercato di sminuire e ridicolizzare il suo lavoro e la sua posizione.
[6] Nadège Piton è performer, artista e attrice. E’ la partner di Lazlo in diverse performance. Con Beatriz Preciado e Erik Noulette porta avanti il progetto “Bodyhacking” http://bodyhacking.fr. Fa parte del gruppo “Kiss cause trouble”.