Denatalità e decrescita

Si avvicina l’appuntamento con la Conferenza sulla Decrescita (19-22 settembre a Venezia).
Sono ora disponibili tutte le relazioni che daranno forma al dibattito, all’indirizzo web: workshop 33, giovedi 20 settembre (oppure clicca sull’immagine).

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NON PIU’ SERVI

(Dalla cruna dell’ago rubrica di Michele Poli – xxd n° 16 del giugno 2012)

Colpisce sempre sapere di un suicidio, soprattutto se si conosceva il defunto, magari anche
solamente attraverso le pagine dei giornali. Colpiscono anche i suicidi di queste ultime
settimane, portati all’attenzione pubblica in maniera strumentale, nel tentativo di dirottare le colpe del governo su un suo organo, Equitalia, che esegue solamente le direttive dello Stato. Ma non è di questo che voglio parlare, bensì della forte tendenza maschile al suicidio. I dati Istat testimoniano che il numero dei suicidi maschili in Italia è tre volte quello delle donne. Riporto solo un caso limite come spia della cultura mortifera maschile: si suicida, o tenta di farlo, circa la metà di quegli uomini che hanno ucciso le proprie compagne o ex compagne, mentre nessuna delle poche donne che uccidono uomini mette in atto il tragico atto. Sono tanti i distinguo da fare per cercare di comprendere un suicida, ma ora voglio porre l’attenzione solo su una componente che mi sembra fondamentale in certi tipi di suicidi prettamente maschili, agiti in seguito alla perdita del lavoro, siano essi imprenditori, operai o impiegati. Come scrive Emanuele Severino, abbiamo dato vita a una società dove tutto deve servire a qualcosa. O quello che facciamo, usiamo e pensiamo è utile per seguire uno scopo, oppure non ha senso e valore alcuno. Ovviamente quando parliamo di valore intendiamo solamente il prezzo, non  avendo purtroppo alcuna idea di cosa sia un valore intrinseco. La logica imperante impone che oggetti e mezzi servano per perseguire uno scopo e questa stessa logica si impone negli individui anche nel modo di pensare se stessi. Così un uomo, per sentirsi tale, deve avere un compito, meglio se in ambito extrafamiliare. I parenti dei suicidi raccontano di uomini disperati quando viene meno il compito di procacciatori di reddito, ma non si sentono solo comprensibilmente disperati e inutili, percepiscono anche la loro vita senza più senso, perché per loro ne ha ciò che serve, che è finalizzato a ottenere… Sempre Severino ci ricorda che una società in cui tutto deve servire, genera servi, perché, appunto, solo il servire dà senso. Perciò, superficialmente, si esalta l’autodeterminazione come uno dei valori costitutivi dell’uomo, ma nei fatti, i protagonisti autodeterminati della nostra società sono solo dei servi. Per questo, aggiungo io, risulta normale essere servi dello Stato, servirsi di prostitute o servire un ideale o le logiche del capitale, anche se ciò comporta fare violenza. Svegliatevi uomini prima che sia troppo tardi! In momenti drammatici, come quando si perde il lavoro, non è certo facile ribaltare il pensiero “non servo più a niente” in un pensiero positivo. Fin da subito, bisogna assaporarsi, esistere a prescindere dai progetti di vita che stiamo perseguendo, per lasciare spazio alla perduta contemplazione del presente. Viviamo senza servire (a) nulla! Il valore
siamo noi, ora, uomini e donne. Ogni tradimento di questo valore lo paghiamo in termini di vissuti depressivi.Prendiamoci cura di noi e delle/gli altre/i senza pretendere cambiamenti.
Ribelliamoci ai bastoni che ci sospingono oltre ciò che siamo e riconosciamo le carote dei progetti e desideri che ci strappano e allontanano dal significato racchiuso nel presente della nostra esistenza.

 

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SENZA PAURA

(Dalla cruna dell’ago di Michele Poli – xxd n° 15 aprile maggio 2012)

Il solo fatto che moriremo rende stupido e vano il comportamento di chi cerca di accumulare beni e poteri: storicamente una preoccupazione prettamente maschile. Ancora oggi sono soprattutto le donne a prendersi cura degli ambiti fondamentali alla vita: educazione e sostentamento. Prendersi cura di ciò che si ama, ognun* può sperimentarlo, è proprio l’impulso che i nostri cuori manifestano se incalzati dalla morte, mentre il ricorso all’accumulo senza misura di cariche, titoli, fama e ricchezze viene irriso dalla grande livellatrice. Questa è una brutta notizia per chi si ostina a vivere secondo modalità maschili tradizionali e per chi cerca potere. Il potente si sente tale quando maschera il senso di impotenza provato nel pensare alla propria fine e fa di tutto perché nessuno senta lo stridore delle sue unghie afferrate al potere come antidoto alla morte. Perciò i poteri istituzionali danno in gestione il morente a degli specialisti autorizzati a prendersene cura, che interpretano e gestiscono il fine vita al posto di parenti e amici. Ad anestetizzare le
persone un tempo erano solo i preti ma ora si sono aggiunti anche i medici così, con promesse di paradisi, di lunga vita o d’immortalità, si mantengono i viventi mansueti
e fedeli alle logiche del potere. Il valore rivoluzionario della morte viene fatto sparire per poi assumerlo ribaltato, in funzione autoritaria. Così, non solo viene screditato l’atto del suicida, perché rivela il fallimento di chi ha cercato di controllare la sua vita, ma anche si impedisce di decidere lapropria morte, negando la possibilità del testamento biologico. Chi domina, promuove guerre, stragi e stabilisce pene di morte, come se non fossimo già tutti destinati a morire da sempre, crede di mostrare un proprio potere di morte, anziché riconoscere quello della morte su di sé. Il potere politico si disegna eterno, ricorrendo alla storiografia che trasforma la storia in storia del potere e si assicura la continuità, riproponendo ai propri figli la ripetizione di logiche paterne/patriarcali. Gli uomini vivono smarriti e impauriti a causa di questo fondarsi su una menzogna, piuttosto che accettare le regole e i limiti della vita. L’incontro improvviso con la morte può farci uscire dall’atmosfera di paura indotta dal potere e renderci portatori di scelte coraggiose e più soddisfacenti. Ciò è testimoniato dal protagonista del film di Peter Weir, Fearless – Senza paura, vittima di un incidente aereo in seguito al quale ribalta la sua vita, oppure, nella realtà, da un sopravvissuto della strage di Bologna che, con il corpo lacerato, ha camminato sulle macerie accompagnato dalle grida dei morenti. In seguito a quegli istanti esistenziali unici, ha narrato di avere compreso qualcosa che lo ha indotto a mettere al mondo dieci figli, senza paura. Solo una cultura che restituisce valore alla morte porta a un senso di pacificazione: penso a un altro film, quello di Yojiro Tacita Departure, premio Oscar del 2009, nel quale il protagonista mentre compie rituali funebri tradizionali, sfidando il senso comune nei confronti del morire, si accosta con rispetto e delicatezza a quei momenti, fino a essere ripagato con una vita relazionale più serena e libera dai conflitti, soprattutto con il padre.

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LA VERITA’ NON E’ NUDA

(Dalla cruna dell’ago rubrica di Michele Poli – xxd n° 14 del febbraio marzo 2012)

Gli uomini desiderano mettere a nudo le donne. Il denudarle ci illude possa portarci un non ben precisato ottenimento aggiuntivo oltre al piacere. Una sorta di isola che non c’è verso cui tendiamo come fossimo vittime di un incantesimo. Abbiamo sviluppato l’ossessione della forma come voce dell’essenza. Abbiamo deciso, senza alcuna prova, che la pelle sia il confine che definisce l’umano, senza tenere conto che, a seconda di dove concepiamo il confine, modifichiamo il senso e il contenuto della relazione. Scardinare il pudore è diventato eccitante, perché sembra di superare un limite, non lecito, posto tra noi e la verità del mondo. Questo è un pensiero che viene da lontano. La cultura dei greci che ci parla attraverso statue di corpi nudi, il mostrarsi di una verità nella improvvisa consapevolezza della nudità di Adamo ed Eva, la nudità definitiva nel Giudizio universale di Michelangelo, la nudità velata di Cristo che mostra il divino. Fino ad arrivare, tagliando
corto con una lunga tradizione, alle veline, alle prostitute e alla pornografia di oggi, che sono esposizione del piacere, ultimo mito a cui si affidano i maschi per dare un senso alla loro vita, nel deserto nichilista contemporaneo. Nella relazione ognuno è soggetto, ma per sentirsi tale ha bisogno di un oggetto, l’altr*. Questa interconnessione reciproca è ignorata dagli uomini, che pensano con la messa a nudo dell’oggetto, di possedere l’altr* e di fissare e fondare il proprio potere esclusivamente come soggetti. Affinché possa reggere tale illusione, gli uomini devono ignorare lo spazio dell’intimità: un ambito che tiene assieme me e l’altr* come due calamite. Dove ciascuno ha in sé due forze che agiscono a seconda della disposizione dei soggetti: ora si attraggono cercando l’approdo nell’indistinto, ora si respingono o, per meglio dire, con l’avvicinarsi accrescono il differire. Entrambe le disposizioni sono sempre compresenti, generando una sospensione che ci regala lo spazio relazionale in cui ci muoviamo. Alla donna, imprigionata dall’immaginario maschile nella staticità del nudo come oggetto da esposizione, non si riconosce uno spirito cangiante, desideri e intenzioni. Quello che è vivo viene stabilito come una cosa morta, che riluce nella sua nudità, senza più alcun rimando a valori altri. La condivisione di una siffatta rappresentazione del femminile, da parte degli uomini come della società comune, in parte giustifica il pensare che plasmare il proprio corpo per adeguarsi al bello condiviso sia
un modo per sentirsi compiut* nel mostrarsi. Il maschile è costretto a sparire da questa rappresentazione per non diventare lui stesso oggetto, preferisce non pensarsi e, così, rinuncia all’intimità e non entra in relazione, almeno non completamente, per timore di sentirsi smarrito. Intimità bene espressa dal termine francese connaître, ovvero conoscere come essere con, ma che suona anche come nascere assieme. Come a voler dire che non c’è conoscenza senza un legame d’amore. Costringendo noi stessi a scegliere di essere o solo soggetto o solo oggetto, ci autolimitiamo, negandoci cambi di prospettiva. Il nudo così pensato de-umanizza, ignorando sia la realtà della donna, che vuole viversi soggetto libero, sia il bisogno dell’uomo che vuole sentire una maggiore densità vitale e una più concreta presenza.

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IL MILITARE NUOCE GRAVEMENTE ALLA SALUTE

(Dalla cruna dell’ago rubrica di Michele Poli – xxd n° 13 del dicembre 2011 gennaio 2012)

Quando veniamo a sapere di efferate violenze, capita di domandarci da dove nascano. Propongo di iniziare a rivolgere l’attenzione ai luoghi dove, lo Stato stesso, considera normale esercitarla. In particolare, voglio occuparmi di quella violenza che subiscono gli uomini e, da pochi anni a questa parte anche le donne, durante il servizio militare. Fare il soldato, anche in tempo di pace, comporta perdere il normale stato di diritto, significa dover obbedire agli ordini dei superiori, vuol dire sospendere l’esercizio della propria libertà, quella stessa che nella vita quotidiana riteniamo imprescindibile. La riduzione ad oggetto della persona non è un evento occasionale, bensì un sistematico progetto. Infatti, per formare un buon soldato occorre che l’uomo sia frustrato nella sua dignità, abituato a lasciarla calpestare, così da non frapporre alcuna domanda, ossia una coscienza, fra l’ordine e l’esecuzione dell’ordine. La caserma è luogo che mira a formare uno spirito di corpo che ignora, calpesta e contraddice elementari e basilari valori, quali, ad esempio, la libertà, l’uguaglianza e la fraternità. Formare gli uomini secondo questa prospettiva risponde all’obiettivo di essere anche pronti ad attaccare persone innocenti, annichilendole, come di fatto oggi avviene con la scusa delle missioni di pace. Se si pensasse ad un esercito a scopo difensivo, sarebbe utile invece potenziare la capacita di pensiero e di reazione all’ingiustizia di un attacco subito, quindi addestrare i soldati alla dignità, come avveniva fra i partigiani. Quando un soldato torna alla vita civile è un uomo disadattato, perché ha imparato nel peggiore dei casi ad uccidere e, nel migliore dei casi, a sopportare su di sé la violenza fisica e psicologica della vita militare. Per questo motivo mi chiedo se egli sia ancora in grado di vivere quei sentimenti che possono trattenerlo dal riproporre su altr* cittadin* quelle privazioni vissute, da lui ormai introiettate come normali, e che sono dettate, paradossalmente, dalla società stessa. Questa drammatica deumanizzazione appare a molti maschi il compimento del destino del proprio sesso. Diventa facile e comodo camuffare un’aberrazione, inventando l’orgoglio del soldato: la vittima è orgogliosa di essere tale!
Non stupisce se certi uomini cercano relazioni solo con donne o uomini obbedienti e felici di esserlo, senza accorgersi che ripropongono in tal modo una modalità repressiva subita sulla propria pelle. Mi sono sempre sorpreso nel riflettere su come la rabbia provata per quella
stupida e atroce formazione, terminato il servizio militare, svanisse senza mai essere manifestata, anzi, al contrario, velocemente ingoiata e trasformata in acquiescente soddisfazione per il duro periodo di formazione. Penso che il movimento pacifista dovrebbe
porre maggiore attenzione alla violenza insita nel concetto stesso di rispetto della gerarchia e degli ordini, perché viene ancor prima della violenza esercitata in guerra. Ho  paura e, al contempo provo ribrezzo, per quelle persone, padri e madri, che permettono o addirittura incitano alla vita militare, accettando che i giovani, quindi anche i loro figli, siano plasmati secondo regole e principi feroci. Spesso sono proprio loro che poi lamentano un alto tasso di violenza nella società!

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L’EPICA DEL FUORILEGGE

(Dalla cruna dell’ago rubrica di Michele Poli – xxd n° 12 del novembre 2011)

Quanti sono i protagonisti di avventure letterarie, di fumetti, di film o fiction che sono dei ladri? Oltre agli Arsenio Lupin, ai Diabolik e ai Padrini, possiamo aggiungere disonesti pirati del mare o
navigatori dello spazio, insomma, possiamo scoprire che sono una marea i personaggi inventati che delinquono e che, ciò nonostante,
vengono consacrati dalla letteratura e annoverati,
tra gli altri, quali simpatici e accattivanti protagonisti di storie. Inoltre, abbondano poliziotti o ex poliziotti, agenti dei servizi segreti,
militari d’ogni schieramento, sempre desiderosi  i farsi giustizia a modo proprio e che si sentono autorizzati ad andare oltre la legge per il proprio beneficio o per una immancabilmente giusta
vendetta: in poche parole criminali e assassini. Persino il Montalbano televisivo esce a volte dai confini della legge, proprio lui così mite e umano. Sono pochissime le storie in cui i protagonisti
agiscono sempre con modalità legalmente consentite, spesso addirittura gli eroi compiono azioni aberranti grazie ad un pensierino che suona così: “Lo so, non si dovrebbe, ma lo faccio
per un buon fine”. Siamo stati educati a tifare per malviventi e disonesti letteralmente trasformati in eroi e
santi, pronti a stigmatizzare chi è rispettoso dei vincoli sociali,
definendolo noioso e bacchettone. Questo nella letteratura, ma nella
realtà? Ancora di più! Nella realtà, dai ricattatori del gossip ai presidenti del consiglio, i disonesti sfilano al suono
delle fanfare impuniti e ammirati. Tutti danno per scontato che più il
reato è grave, minore sarà la punizione. Sembra che solo il
passaggio nelle terre al di là delle convenzioni sociali e della legge sia
la chiave di volta per sentirsi finalmente uomo. Distruggere un treno con gli amici dello stadio è il massimo della virilità e del divertimento. Tutta l’intelligenza e il fascino da sempre stanno dalla
parte degli uomini mascalzoni e menefreghisti. Perché allora non chiamare una barca che gareggia nell’America’s cup Mascalzone Latino? I giornali più diffusi sono sempre dalla parte dei
criminali: ecco il mafioso arrestato che sorride beffardo alla luce del sole, mentre i poliziotti hanno il cappuccio in testa o l’aria preoccupata. La stampa non vede l’ora di dare visibilità e
un’aura eroica al criminale. Certo anche al poliziotto, ma solo se è di quelli disonesti! I furbetti del quartiere sono considerati tali e i
politici corrotti vengono eletti, da sempre. A perseguire lo sfruttamento di uomini e donne in maniera sistematica si può essere nominati cavalieri del lavoro! A questo medioevo culturale, non guardo con distacco o ironia, perché tutti abbiamo sostenuto
questa logica con qualche nostro comportamento passato o presente. Resta il fatto che è degli uomini che ho paura quando mi aggiro per
strada la sera o quando come adesso si pilota una crisi per impoverirci e schiavizzarci sempre di più. Sono solo due righe su inquietanti connessioni tra pensiero criminale e comportamenti
maschili ricorrenti. Forse è venuto il momento di guardarci in faccia e
riconoscere fin nel nostro immaginario  quanto siamo disonesti e scellerati, per ammettere che la nostra collusione con chi ruba la vita degli altri è sempre dannosa, non solo quando ad essere colpiti sono i nostri cari o noi stessi.

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RAPTUS

(Dalla cruna dell’ago rubrica di Michele Poli – xxd n° 11 di ottobre 2011)

Molti giornalisti o titolisti nel riportare la notizia di un uomo che ha ucciso una donna utilizzano il termine raptus per spiegare cosa ha mosso quella persona. Nei vocabolari il raptus è definito: “Impulso improvviso e incontrollabile per lo più violento”.

Innanzitutto non è chiamato atto, per non far pensare alla presenza di un attore, ma impulso, termine che tende a escludere la presenza di volontà. Poiché manifestarsi all’improvviso è necessariamente la caratteristica di tutto ciò che accade, probabilmente con l’aggettivo improvviso si vuole sottolineare la non premeditazione da parte dell’assassino. Ma, chiunque si occupi di questi casi sa bene che l’uomo, in genere, lancia una grande quantità di segnali di avvertimento, tanto che spesso si possono individuare responsabilità da parte dell’apparato giudiziario, delle forze dell’ordine o di altri operatori e conoscenti che hanno sottovalutato o negato il problema. Quindi, considerare quel drammatico atto come un flash, un repentino e inspiegabile episodio che si manifesta nella vita di un soggetto, è già sintomo di disinformazione o di narrazione volutamente parziale di
quanto è avvenuto prima, durante e dopo l’assassinio.

D’altro canto, l’uso della parola raptus accoppiata all’aggettivo incontrollabile serve a
velare la cultura spesso violenta degli uomini. Per capirci, chi crede nella versione del “raptus incontrollabile”, immagini di ricevere un pugno in faccia e si chieda se sia disposto a esonerare da ogni responsabilità chi lo ha sferrato sentendolo dire: “mi ha preso un raptus”! Credo questo sia un efficace anche se semplicistico invito a una onesta riflessione.

Apparirà chiaro con l’esempio successivo che, in assenza di criteri chiari ed evidenti su cui operare dei distinguo tra atti controllabili e incontrollabili, il termine raptus potrà sempre essere usato in maniera strumentale. Infatti, raptus è impiegato anche per definire
un’ispirazione improvvisa: seguendo la logica precedente, il fatto che l’artista abbia agito
inconsapevolmente dovrebbe escludere la sua responsabilità verso l’opera, non dovrebbe
andare a suo merito, invece l’opera che consegue grazie al raptus è spesso definita espressione del genio!

In sostanza gli uomini si deresponsabilizzano ritenendo non consapevolmente finalizzati, gli atti violenti verso le donne, mentre si pensano coscienti quando fanno qualcosa di cui si vogliono prendere i meriti.
La doppiezza di valore del significato di raptus trascina l’opinione pubblica nella illecita e
voluta ambiguità di giudizio del giornalista. Questa ambiguità non fa emergere la violenza
per quello che è, ma anzi, la coltiva e la difende. Puntando l’attenzione sulle cause che scatenano la violenza maschile nelle relazioni, emergono invece precise logiche, volte per lo più a limitare la libertà di donne e bambini. Protetti da una terminologia mistificatrice,
dormono sonni tranquilli – si fa per dire – i cittadini scandalizzati, i politici, i giornalisti, gli psichiatri, gli avvocati e tutti quelli che non vogliono conoscere la verità. Razzolare nei particolari marginali delle violenze, come cani randagi nella spazzatura, senza mai approfondirne le cause, è lo spettacolo quotidiano che offre il giornalismo.

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VIOLENZA E PSICOLOGIA

(Dalla cruna dell’ago rubrica di Michele Poli – xxd n° 10 del settembre 2011)

Finalmente sta maturando anche in Italia, seppure in ritardo rispetto a gran parte dei paesi europei, l’idea che sia necessario occuparsi degli uomini che agiscono violenza nelle relazioni d’intimità. Solamente grazie al movimento femminista e ai saperi maturati all’interno dei centri antiviolenza si è evidenziato un problema maschile. Ancora oggi si pensa che l’essere violento sia per alcuni uomini un destino. Invece, oltre ai provvedimenti giudiziari – al momento necessari, ma non sufficienti a fermare la violenza – c’è la possibilità di delineare
percorsi riabilitativi per gli uomini, che hanno la finalità di impedire che il violento reiteri il comportamento socialmente pericoloso.
Il pensiero e le pratiche di donne intelligenti e convinte paladine della propria dignità, hanno reso possibile guardare con distacco critico i comportamenti maschili, per smascherare l’aspetto antidemocratico e funzionale delle violenze insito nella gestione del potere in ogni ambito, compreso quello famigliare.

Noi uomini iniziamo a riconoscere la stretta connessione esistente tra il vissuto interiore e personale di ciascuno con il clima culturale della società nel suo complesso, il mix che ne deriva è capace di trasformarci in un pericolo per la donna e per i figli che ci vivono accanto.

Oggi si propongono programmi atti a liberare gli uomini dai comportamenti violenti, ma occorre fare attenzione a non occuparsi solo della violenza nel suo risvolto psichico, per non ignorare gli eventi che a volte ne sono il fondamento. Si tratterebbe di un’omissione, favorita anche dall’essenza stessa della psicologia. Come ogni scienza essa cerca di allontanarsi dal vasto mondo per essere signora nel suo ambito, ma finisce per incistare il
problema violenza trattenendone l’effetto dirompente in ambito intrapersonale.

Infatti, ricondurre la violenza solo ad origini familiari o a proiezioni della psiche impedisce il riconoscimento che qualcosa di reale avviene all’interno del rapporto tra due esseri umani. Pur di dimostrare che l’uomo è malato nella psiche e, dunque, è lì che va curato, si disconosce la partecipazione attiva e volontaria del violento.

Il femminismo svela che la violenza non è solo un problema del singolo, ma di una società intera che nega la libertà alle donne; da questo punto di vista, la violenza di un maschio potrebbe rispondere ad un cliché tacitamente convalidato come normale.
Questo è fare un servizio all’umanità! Squarciare il velo che copre la violenza, riallacciare le connessioni vitali che attraversano gli uomini, anche a costo di colpevolizzarli, tormentarli e logorarli nella loro (nostra) colpa.

Qualcosa di più grande di un problema psichico,
seppure presente, è ciò che deriva dal riconoscimento che l’atto violento comunque modifica la condizione iniziale di partenza sia di chi perpetra sia di chi subisce. La presa d’atto che qualcosa è stato infranto per sempre può provocare un collasso su se stessi, effetto che la psicologia tende a leggere come malattia, ma che invece può rappresentare la guarigione. Solo percependo la distanza da se stesso, l’uomo può assumere le bassezze della sua coscienza e attivare una dedizione per il più vasto ordine da lui violato, fino a scoprire le forze vitali di cui egli, come tutta l’umanità, è portatore.

 

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ISTITUZIONI BARBARICHE

(Dalla cruna dell’ago rubrica di Michele Poli – xxd n° 9 del luglio agosto 2011)

La famiglia italiana stordita dai rapidi mutamenti sociali, non sa più quali valori trasmettere ai figli, perciò o ripropone formule patriarcali desuete per dissimulare le incertezze o rinuncia alla funzione educativa, delegandola all’istituzione scuola, peraltro anch’essa in affanno, e ai media, che soprattutto diseducano.

Intanto, al di fuori di poche branche avanzate, come la fisica quantistica, la scienza studia i fenomeni escludendo lo sguardo di chi indaga. Colui che conosce diviene elemento inquinante anziché fondante; l’individuo appare sminuito e per giunta spossessato delle proprie capacità perché cedute alle stesse protesi tecnologiche che ha ideato.

Il sentimento religioso, profonda espressione di ogni essere umano, risulta espropriato dalla chiesa cattolica, organizzazione maschile, che da sempre perseguita, definendolo eretico o strega, chi cerca Dio partendo dal proprio vissuto.

Le istituzioni sanitarie imperano al punto che ci si può definire sani o malati solo se c’è un medico che lo certifica. I medici sono decisivi nelle scelte di vita e del modo di morire delle persone. L’uso della violenza è canalizzato: sono trasformati in eroi solo coloro che usano la violenza a vantaggio del potere, per poi criminalizzare chi la usa per contrastarlo.

Questi pochi esempi, raccontano della difficoltà degli uomini, principali fautori delle macro strutture che organizzano la società, nel pensare un’etica con coerenti strumenti applicativi, a partire dalla propria esperienza interiore. Che ciò abbia a che fare con una formazione del maschio che gli impedisce la conoscenza della molteplicità e complessità dei propri sentimenti, mattoni costituitivi della personalità? Che dipenda da un’educazione sostanzialmente separatista tra uomini e donne foriera per i primi di grosse difficoltà relazionali e di pericolosa immaturità sociale? Comunque sia, diversi fattori inibiscono il partire da sé nell’affrontare i problemi e, quindi, gli uomini per agire si riducono sovente ad accettare l’assenso o il dissenso delle istituzioni. Questo è il destino che il potere riserva soprattutto ai maschi, per poterli adeguare al ruolo di solerti funzionari e dirigenti, senza dimenticare di manipolare le donne per integrarle nelle strutture gerarchizzate
nella misura del necessario.

Gli uomini al potere, attraverso rigide istituzioni, forniscono desideri, identità e obiettivi preconfezionati, atti a generare risposte comportamentali in accordo col sistema, dopo aver interdetto ad arte quelle spontanee.

Il patriarcato è si morente nell’interiorità di molti uomini, ma si ripresenta minacciosamente nelle istituzioni statali. Ciascuno infatti conferma con la propria pratica professionale al servizio dell’istituzione quello che altrove nega e combatte: ad esempio, non sono scrupoloso sul lavoro, ma mi arrabbio se in posta l’impiegato è lento. Le istituzioni non sono mai veramente al servizio dei cittadini, sono prima di tutto utili a chi ci lavora: ogni operatore ha un forte e pericoloso potere di manipolazione sull’utente.

Occorre individuare con estrema precisione i processi attraverso cui uomini e donne, seppur rinnovando le ideologie, continuano a riprodurre, soprattutto in Italia, nelle pratiche quotidiane istituzionalizzate, l’abbraccio mortifero del patriarcato.

 

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