Serata Metafemminile

Giovedì, 21 Giugno, 2012 – ore 21.30, ingresso con tessera Arci (http://www.lascighera.org/serata-metafemminile
Sesso, genere, differenza, autodeterminazione, riproduzione: che significato assumono oggi queste parole?
La She-ghera ne discuterà con tre autrici che descrivono la femminilità non convenzionale:
Laura Schettini, storica, esporrà la sua ricerca sul travestitismo di genere “Il gioco delle parti. Travestimenti e paure sociali tra Otto e Novecento” (Le Monnier), Barbara Mapelli ci parlerà delle questioni su cui si interrogano le femministe di oggi a partire dal dizionario ragionato “Femministe a parole. Grovigli da districare” (a cura di Sabrina Marchetti, Jamila M.H. Mascat e Vincenza Perilli, Ediesse) e Daniela Danna, direttora editoriale di XXD, presenterà il suo lavoro “Il genere spiegato a un paramecio” (BFSedizioni), dove condensa in meno di cento pagine tutto ciò che avreste voluto sapere sul genere e non avete mai osato chiedere.
Introduce e coordina il dibattito Chiara Martucci.

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UNA DONNA AL MESE – XXD 4

Mi chiamo Rita, ormai ho più di quarant’anni, un sacco di denti devitalizzati e occhiaie permanenti. La mezza età è quando ti svegli già mezza distrutta e pensi sempre che domani ti sentirai meglio. Però una volta ogni tanto ce la faccio ancora a svegliarmi e a pensare: ah, oggi sto proprio bene. Questo, credo, a prescindere se sei maschio o se sei femmina. Mi sono accorta presto di esser femmina, i miei ricordi risalgono all’asilo, ma con tutto l’ambaradan dei fiocchi rosa e dei vestitini e dei capelli semilunghi credo che questa consapevolezza mi sia stata comunicata già dalle prime parole che ho ascoltato cominciando a comprenderle, con le desinenze che cambiano e tutti ti correggono se le sbagli. Perché è una cosa importantissima, è il tuo posto nel mondo. E così devo aver afferrato subito che se ti declini con una “a” vieni al secondo posto rispetto a quelli che si declinano con una “o”. Altre possibilità non ce ne sono, anche se poi al liceo in un’altra classe c’era qualcuno di cui non si sapeva per certo se fosse maschio o femmina. Ma allora pensavo: vivi e lascia vivere, e non mi interessava poi in modo così pressante sapere il come e il perché di quell’ambiguità. E dunque ancora adesso non so proprio chi fosse, chissà, uno dei famosi intersessuati magari, senza chirurgia “correttiva” che allora probabilmente non usava, o ancora non stava nei protocolli medici. Invece mi interessavano un sacco le lesbiche, le donne mascoline come me. Me ne innamoravo, le desideravo, mostravo anche io la mia diversità con giacche da uomo, capelli corti e gilet. Ma torniamo all’asilo, perché la domanda che mi avete fatto era su quando mi sono accorta di essere femmina, e che cosa ha significato per me. C’è un sottile filo conduttore tra le due cose, tra quei vestitini imposti – che non mi piacevano – e i capelli a spazzola della mia adolescenza. Perché scoprire di essere femmina per me ha significato scoprire l’inferiorità iscritta nel mio destino. Significava non poter essere esploratore, marinaio, comandante, cowboy, nemmeno pirata. Significava che dovevo essere la fidanzata di, la moglie di, meglio di tutto la mamma di. Tutto questo me lo ricordo molto chiaramente, ambientato all’asilo, quindi verso i miei quattro anni. Allora ho deciso l’unica cosa sensata da fare per non dovermi considerare una perdente fin dall’inizio della mia vita: anche se tutti mi trattavano da femmina, io ero in realtà un maschio. Non me n’è mai importato nulla degli attributi fisici della mascolinità, non ho mai fatto, come qualche mia amica che me lo ha confessato da grande, pipì attraverso il tubo della carta igienica o allucinato un pene dentro le mie mutande. Ma facevo le cose che facevano i maschi: giocare a calcio, arrampicarmi sugli alberi, sputare, dire parolacce, ma solo se non c’erano adulti vicino che se ne sarebbero scandalizzati. Mai saltare alla corda o parlare di vestiti e scarpe – o di qualunque altra cosa le femmine parlassero tra loro: io non c’ero. E, naturalmente, ammirare le belle ragazze e innamorarmene. All’asilo ricordo di aver voluto fidanzarmi con una bimba (non ne ricordo nemmeno il nome), conosciuta lì. E alle elementari me ne piaceva un’altra, con un nome esotico come Luana. Pensavo moltissimo a lei e mi emozionava. Ci pensavo soprattutto impersonando un altro ragazzino della scuola, che ammiravo per la sua mascolinità – decisamente più sviluppata della mia, persino nel nome spagnoleggiante, che evocava baffi, avventure e identità segrete: Diego. Ma non mi dispiaceva più di tanto quando mi sentivo chiamare maschiaccio. La gente non lo faceva con un’intenzione buona, credo che volessero più che altro intimidirmi, rimettermi al mio posto con il potere di un insulto. E invece l’insulto mi suonava come una conferma, la parolaccia risultava gradita. Era il segno della riuscita del mio atto di volontà di non volere essere una femmina, di non dovere rimanere nell’ombra, di potere andare per il mondo scegliendo il mio destino da protagonista. La parola della mia libertà.

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UNA DONNA AL MESE – XXD 5

Non ho mai pensato a me stessa come nient’altro che femmina. Sono l’ultima di quattro sorelle, la casa era piena di ragazze, persino i cani erano due femmine. Gli uomini erano esotici, ce n’era uno solo nella mia famiglia, mio padre. Forse ero femminile per osmosi, non c’è stato questo momento in cui ho pensato di essere diversa, perché non avevo fratelli, e nella strada c’erano un sacco di ragazze, e giocavamo tra di noi, facevamo sport e saltavamo la corda. Sono cresciuta negli anni cinquanta/sessanta negli Stati Uniti in una specie di tribù di ragazze, nel mio gruppo di età eravamo solo femmine. Dunque erano loro ad essere strani, erano creature esotiche. Che cosa significa essere femmina è davvero una domanda grossa. Per me essere femmina significa essere capace di compassione, credo che le donne siano incoraggiate ad essere gentili, e i valori classici femminili sono molto sentimentali, emotivi, intuitivi, e io lo sono molto. Sono una ragazza femminile, una girlie girl, adoro le sciarpe, vestirmi bene. Ora non più di tanto, ma quando ero più giovane mi piaceva tantissimo. Essere femmina significa essere fertile, poter avere figli, non importa che poi ce li abbiamo o meno. Penso che questo influisca sul modo in cui pensiamo al sesso, anche se ora queste emozioni per me sono un po’ lontane. Noi donne sappiamo che il sesso è una roba importante. Penso che nel nostro cervello rettile noi lo sappiamo: fare sesso è fare bambini! Significa avere responsabilità, questa è l’esperienza legata al rapporto sessuale. Noi a un certo livello lo sappiamo che è importante, mentre gli uomini sono molto più casual. Noi scegliamo molto di più con chi andare a letto perché abbiamo questo potenziale di avere bambini. Non lo so, ma penso che si applichi in qualche modo anche alle relazioni lesbiche, perché abbiamo questa particolarità del cervello femminile di non voler andare semplicemente con la prima forma carina che entra nel tuo mondo, abbiamo bisogno di avere una connessione importante. Il nostro corpo calloso, il tessuto connettivo tra la parte destra e quella sinistra del cervello, è tre volte più grande che il loro. Essere una donna vuol dire esser una pensatrice globale ed avere una prospettiva che abbraccia tutto, in contrasto con l’essere particolare e focalizzato e piccolo e limitato. Gli uomini fanno cose specifiche, hanno un’erezione e sanno quello che vogliono, ma noi creiamo un mondo intero dentro di noi. Loro vogliono solo andare a divertirsi, e proseguire con l’attività successiva. Essere una donna perciò significa avere la capacità di mettere le cose nel contesto generale. Per quello che ne so, è una parte naturale del cervello femminile e della mentalità femminile, una parte della quale è espressa nel nostro cervello. Nel 1971 lavoravo in una stazione di servizio, la benzina costava poco, 26 centesimi al gallone, ed ero lì da sola e dovevo indossare una minigonna, non una supermini, ma comunque era una gonna, e poi avevo scarpe da tennis e una camicetta e una giacchetta. Prendevo i soldi dai clienti e dovevo pulire la stazione di notte dopo la chiusura, con solventi industriali. Un fine settimana ero lì di giorno, in questo ufficio a triangolo, di vetro. Non c’era nessuno, e ho visto questo ragazzino, 15-16enne in bici. Io ho continuato a fare il mio lavoro, e quando ho guardato fuori di nuovo lui era lì, la bici per terra, si è aperto la cerniera dei pantaloni, mi fissava come se mi dicesse “guardami”. Io avevo 19 anni, lui era un teenager, ed ero in questo strano acquario triangolare, c’era solo un telefono a gettoni ed era rotto. Non potevo fare nulla, ho pensato che l’unica cosa che potessi fare era ignorarlo, e così ho fatto. Ogni tanto guardavo di sottecchi, in pochi minuti se n’era andato, ma mi sono veramente sentita una donna. Ho percepito questo strano potere sessuale, quasi astratto, io ero lì, come se fossi in una teca di un museo, e lui mi guardava, e non so che altro avesse fatto oltre ad essere eccitato, e questo mi ha fatto sentire una donna. Ho sentito questo strano potere, inquietante, e mi sono sentita che quello era parte della mia consapevolezza della sessualità, che c’era gente in questo mondo che non sarebbe sempre stata gentile e amabile con me. È stato abbastanza scioccante, ero piuttosto giovane, e non avevo esperienza sessuale. Un’altra volta passeggiavo in montagna con un’amica e a un tratto è venuto giù questo tizio nudo sullo slittino, con un’erezione. Abbiamo fatto finta di niente anche lì, e poi quando è scomparso ci siamo guardate: “Ma hai visto anche tu?” Allora abbiamo riso.

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UNA DONNA AL MESE – XXD 8

Sabrina mi aspetta appoggiata a un palo. “Sei sola?”. “No, mia mamma sta facendo la spesa”. Ebbene sì, avete letto bene: mamma. L’intervistata non è né una scrittrice affermata né una sportiva famosa. Sabrina, questo il suo nome, è una ragazzina di 14 anni come tutte le altre. Ciò che la contraddistingue? Una passione per le moto e la corsa che non lascia indifferenti. Perchè hai iniziato? Grazie a mio papà. Anche lui è un appassionato di moto ma non ha mai potuto comprarsene una, perciò ha deciso di trasmettere la passione a noi figlie [sono in quattro e tutte corrono, ndr]. Il mio primo quad [moto a quattro ruote, ndr] è arrivato quando avevo cinque anni. Correre mi ha subito appassionato ed è sempre merito di mio papà. Da parte sua non è mai stata un’imposizione. Andavamo la domenica in campagna a girare: era divertente, lui mi seguiva in bicicletta. E adesso? Adesso ho una moto da cross. Più avanti mi piacerebbe averne una da strada. Per ora mi diverto a girare libera, magari tra qualche anno comincerò a gareggiare. C’è tempo. Certo, d’altronde sei molto giovane. E cosa pensano le amiche di questo tuo hobby? Loro mi sostengono. Anche se spesso io preferisco uscire col mio ragazzo e i suoi amici. Con i maschi mi trovo meglio: non sono pettegoli come le femmine, sono più tranquilli a rapportarsi con le persone, ti aiutano se hai bisogno. Tra donne c’è competizione, ognuna guarda l’altra per trovare qualcosa che non va. In questo senso io mi sono sempre definita un maschiaccio. E i ragazzi come si comportano con te? Ormai mi considerano una di loro. Mi cercano, faccio parte del gruppo. Prima mi prendevano in giro perchè correvo…mi dicevano, “Tanto vado più forte io!”. Ma io corro da circa nove anni, loro se va bene da tre. Insomma, li battevo sempre! E alla fine hanno iniziato a rispettarmi. Già… sei riuscita ad acquisire la loro fiducia. Ma penso che tu sappia che rappresenti l’eccezione. Sì purtroppo! Io spesso vado a correre con mio papà e il mio cuginetto, ma non conosco altre ragazze che lo fanno (a parte la mie sorelle!). Penso che questo non sia giusto. Una volta ho sentito alla tv un tizio che sosteneva che le donne non potessero avere la stesse prestazioni di un uomo in moto o in macchina…ma non è affatto vero! Un conto è parlare di sollevamento pesi, magari in quel caso si può fare un ragionamento simile, ma in moto non c’è nulla che mi vieti di andare veloce quanto un uomo, a volte anche di più. Ma in F1 e nella MotoGp non ci sono donne… Questa cosa non mi piace. Invece ci dovrebbero essere. Però spesso le donne pensano che l’automobilismo e il motociclismo sia roba da uomini. Non è così. Torniamo un attimo alla tua esperienza. Hai mai avuto paura di salire in sella? Sì, all’inizio è normale. Parti, acceleri, poi ti prende paura e freni. Vai a scatti. Ma adesso è passata… con le marce è anche più facile gestirsi. Adesso vado come una scatenata senza nessuna paura. Però dipende anche dal carattere. Mia sorella ad esempio è più insicura e viaggia a scatti.. Mai fatti incidenti? Eccome! Mi sono anche fatta parecchio male. Il peggiore è stato quando stavo girando e mia mamma mi ha gridato “Ma non puoi andare un po’ più veloce?!”. Sono andata più veloce, però poi ho preso un ceppo e sono caduta, la moto mi è finita addosso. Ma non mi sono fermata, anzi. E cosa sogni nel tuo futuro? L’anno prossimo inizierò a frequentare una scuola che sia abbastanza leggera per poter portare avanti moto e ginnastica artistica [l’altra sua passione, ndr]. Per adesso non voglio trascurare nè l’una nè l’altra, nel futuro probabilmente dovrò scegliere. Mi dicono che per diventare davvero brava in moto avrei dovuto iniziare a tre anni. Ma io ho iniziato a cinque e penso che non servano due anni in più di allenamento per essere bravi. Serve solo impegno. E io… beh, io voglio correre nella MotoGP! Arriva la mamma, ha finito la spesa. Le chiedo se non teme che le sue figlie si facciano male in moto. “Basta che abbiano il casco e le protezioni!”. Il casco c’è. Le protezioni pure. Adesso basta aggiungere la voglia di riuscirci. Ed è fatta.

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UNA DONNA AL MESE – XXD 9

La parola “contesto” etimologicamente deriva dal verbo tessere. Come Penelope, è il contesto della mia vita che tesse e disfa il filo della mia identità sessuale. Mi ricordo di essere sempre stata consapevole di essere diversa dagli altri. Sembra che tutte le mie esperienze siano state diverse da quelle della massa e mi sono sempre sentita un’esclusa, ovunque io fossi. Probabilmente, nella mia vita, quella sessuale è stata una parte forte della mia identità, anche se la mia femminilità era problematica. Sono nata nel Quebec, in Canada, negli anni ’70, in un ambiente di spiriti liberi, femminista. Entrambi i miei genitori erano intellettuali anticonformisti e mi hanno incoraggiato a sviluppare una forte curiosità nei confronti della vita e della gente. I principi che hanno guidato la mia infanzia sono stati l’autonomia, l’indipendenza, l’integrità e il coraggio. Vivevamo in campagna, e probabilmente io non sono stata la studentessa ideale per gli insegnanti della mia scuola elementare, che non era l’ambiente ideale per me. Non ero un tipo silenzioso, tranquillo, non ero una pecora. Volevo capire. In quel momento ho iniziato a percepire che ero in qualche modo diversa e che avrei dovuto essere forte e fiduciosa, indipendente. Non fraintendetemi, avevo degli amici, ero una ragazza socievole. Ma non riuscivo a uniformarmi ed ero pesante, per la mia età, perché provavo un immenso piacere ad andare in fondo alle cose. Quindi, quando le altre ragazze hanno iniziato a parlare di ragazzi, ridacchiare e discutere le loro strategie, io non capivo. Preferivo giocare con i ragazzi. Comunque, come ho detto, la mia femminilità era problematica. A casa, essere autentici era la cosa più importante: non importava il genere, non importavano le scelte, fintantoché noi fossimo rimasti autentici. Quindi ero fiera di essere una ragazza e sicura di ciò che ero dal punto di vista intellettuale. Tenevano in conto il mio intelletto e il mio codice morale, ma per quel che riguardava il mio corpo e le mie emozioni era un’altra storia. La femminilità a casa era svalutata. Così i miei capelli erano corti, come quelli di un ragazzo; era più pratico. Ero troppo goffa per portare colori chiari o stoffe delicate, sicuramente le avrei macchiate o strappate. Il trucco era per le puttane. Femminilità voleva dire superficialità. A casa di amiche, ricordo di aver scoperto lo smalto, i nastri da mettere nei capelli, il rossetto rosso e una quantità di ombretti e di aver sognato che fosse così anche a casa. Ma erano considerazioni superficiali, bisogna essere apprezzati per ciò che si è, ossia per le proprie azioni. Così, da bambina, con i capelli corti, troppe domande, senza capire gli ambienti femminili, il ridacchiare e il pianificare, giocavo a pallone con i bambini e a volte lottavo anche per stabilire quanto fossi coraggiosa, nonostante fossi una ragazza. Forse, penso, non sono stata cresciuta né come una ragazza né come un ragazzo. Per questo non sono stata femminile fino a 16 anni, un’età di tantissime scoperte. Per me è stato come scoprire una droga: ne ho abusato, con la mia natura tipicamente eccessiva. Ero una teenager che giocava a fare la donna. Mi sentivo come il brutto anatroccolo che si guarda allo specchio, sorprendendosi di trovare un cigno. 36 luglio – agosto 2011 Ora che potevo avere un corpo, intendevo entrarne in possesso e usarlo. Mettere la mia mente in un corpo da cui potevo ricavare piacere mi faceva sentire potente. Però, non era abbastanza; volevo l’esperienza-donna completa. A 18 anni ho scoperto di essere incinta. Ho abbandonato il mio studio della musica, estasiata dal vivere quella che mi sembrava fosse l’esperienza più importante della femminilità. Mi sono anche sposata. Per me è stato un momento di felicità estrema, abitavo pienamente il mio corpo e avevo abbandonato l’infanzia nella fretta di avere un bambino. È stato improvviso perché, anche se stavo giocando a fare la donna, ora avrei dovuto esserlo. La mia famiglia, in larga parte, apprese la notizia con orrore: avrei avuto un bambino, cosa sarebbe successo a me, al mio futuro, alla mia carriera? Fu un modo brutale di diventare donna! Spesso avevo fame, i soldi erano pochi ed ero terrorizzata, ma era quello che avevo scelto: vivere quello che mi era stato rifiutato fino a quel momento. Tre anni dopo ebbi una seconda figlia e durante quella gravidanza decisi di prendermi una laurea breve e allo stesso tempo di lavorare per portare il cibo a tavola, avendo anche un bambino di due anni di cui prendermi cura. Per me, essere una donna voleva dire essere una superdonna: dovevo fare tutto, e farlo perfettamente. Quando le mie figlie avevano 7 e 4 anni, il loro padre e io abbiamo divorziato. Il divorzio mi ha costretto a rivalutare chi fossi e cosa avessi abbandonato. L’individuo, la donna, non esisteva molto, a questo punto. Sì, ero stata una moglie e una madre e mi ero dedicata completamente a questi compiti; ma la donna, chi era? Lentamente, la crisi d’identità mi portò a una ricerca spirituale. Chi ero? Chi avrei dovuto diventare? Se il mio matrimonio era stato un fallimento, se ero costretta a vivere come una madre single, se avevo cancellato la donna dentro di me, in questo momento la mia identità era fortemente in dubbio. Ma, come in ogni crisi profonda, alla fine arriva la primavera, l’alba, la rinascita. La superdonna morì per lasciar vivere una semplice donna. La mia fame di risposte, di pace interiore, di equilibrio mi ha portato, due anni fa, a convertirmi all’Islam. Questo, naturalmente, influenza immensamente la mia femminilità. Vorrei così tanto poter far luce sulle cosiddette donne musulmane oppresse. Ok, io non ne sono la tipica rappresentante. Io ho scelto l’Islam e sono sempre la stessa persona: femminista, uno spirito libero, indipendente. La mia personalità e io mio modo di affrontare la vita sono gli stessi. Però, l’Islam ha cambiato il mio aspetto. Io scelgo di vestirmi con modestia. Non vuol dire che debba essere sciatta. Vuol dire che mi concentro più sulla mia personalità che sul mio aspetto. In questo, mi trovo molto libera. Mi sento liberata, in larga parte, dallo sguardo impietoso che rivolgevo a me stessa. In questo modo posso trovare un certo equilibrio tra l’essere privata della femminilità, che ancora amo e proteggo, e essere luglio – agosto 2011 37 la schiava di un desiderio disperato di essere desiderata, la schiava del mio stesso sguardo, in veri tà molto crudele. Eventi traumatici mi hanno portato a crescere le mie figlie completamente da sola e anche a fare quello che gli dico sempre: niente è impossibile. Ho viaggiato dal Canada al Regno Unito per prendere una laurea specialistica. Ancora una volta, non è stata una scelta facile: l’esilio, l’isolamento e nessuna tregua con le ragazze. Ma sto realizzando un sogno. Può essere insensato per alcuni, ma non per me. Soprattutto ora, sento che la mia identità è molto fluida e frammentata. Sono nata in Quebec, ora vivo nel Regno Unito ma non so dove sarò tra qualche mese. Io vivo la mia spiritualità a un livello molto privato, così non percepisco un forte senso di appartenenza neanche in questo caso. La mia esperienza di vita mi fa pensare fortemente che l’identità sessuale è un costrutto. Le nostre esperienze danno forma alla nostra interpretazione di noi stessi e, di rimando, questa dà forma alle nostre esperienze. Io sono nata femmina, sono stata cresciuta secondo la concezione dei ruoli di genere che avevano i miei genitori. Ora, che ho più o meno 35 anni, voglio vivere una donnità libera, liberata da quello che mi è stato detto avrebbe dovuto essere. Io tesso e disfo la mia identità, adattandola al fluire della vita, ma quello che davvero voglio fare è restare fedele a me stessa, nonostante la sensazione di essere un’eterna outsider, e tessere una trama coerente.

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UNA DONNA AL MESE – XXD 12

Io, Maria Mies, penso che la storia de La prospettiva della sussistenza ebbe inizio con mia madre. La ricerca della sussistenza comporta, inevitabilmente, il riconoscimento della fitta rete di interconnessioni tra la propria vita e la Storia. Quando mi chiesi da dove cominciare questa retrospettiva, mi ricordai di mia madre e della sua scrofa. In suo onore, vorrei raccontarvi questa storia. Era il febbraio dell’anno 1945. Non mancava molto alla fine della guerra. I miei genitori erano contadini e il nostro paese era nei pressi del fronte occidentale, vicino all’altopiano di Eifel. Cinque dei miei fratelli erano soldati, in qualche località a est. In quel periodo i soldati dell’esercito tedesco, logori e infestati dai pidocchi, ritornarono da ovest in cerca di un po’ di calore e di cibo offerto dai contadini. Tutte le sere mia madre preparava una pentola di zuppa di latte e bolliva le patate con la buccia. Tutte le sere i soldati sedevano al nostro tavolo con noi. La gente ormai aveva perso la speranza. Gran parte dei contadini macellava mucche e maiali e non si preoccupava né di arare né di seminare. Tutti attendevano la fine della guerra e non speravano in un futuro oltre quella fine. All’epoca mia madre portò la scrofa dal verro in un paese vicino poiché l’allevamento dei maiali e dei maialini era una faccenda da donne, oltre che una fonte di reddito. I vicini la derisero, dicendo che avrebbe dovuto macellare il maiale. Non si rendeva conto che ormai tutto stava per finire? Mia madre rispose “La vita continua”. Forse disse addirittura “La vita deve andare avanti!”. Portò la scrofa dal verro e alla fine di maggio, dopo che la guerra era finita, la scrofa ebbe dodici maialini. Nessuno aveva maiali, vitelli e puledri giovani. Poiché il denaro aveva perso valore, mia madre scambiava i maialini in cambio di scarpe, pantaloni, maglie e giacche per i suoi cinque figli, che erano tornati uno dopo l’altro dalla guerra. La vita andò avanti, ma fece tutto da sé ? Mia madre non decise di sedersi e dire “La vita andrà avanti” o, da brava contadina cristiana, “Il Signore provvederà per noi”. Lei sapeva che doveva agire e cooperare con la natura – solo così la vita avrebbe potuto continuare il suo corso. Questo è quanto continuava a ripetere: la vita deve andare avanti. Questo era il suo desiderio, la sua passione, la sua gioia che mai l’avrebbe abbandonata. Mia madre non era una femminista e non conosceva nemmeno la parola ecologia ma aveva intuito un qualcosa di cui oggigiorno abbiamo un grande bisogno, al pari del pane quotidiano, ovvero il dover rendersi responsabili della vita se vogliamo che essa continui. Le crescenti catastrofi ecologiche ci insegnano che la moderna società industriale distrugge, con la sua ricerca implacabile di un sempre maggior numero di beni e denaro, la capacità della natura di rigenerarsi, finché essa sarà novembre 2011 35 totalmente esaurita. Ciò si può applicare sia alla vita dell’uomo, in particolare a donne e bambini, che alla natura “non umana”. Donne, donne come mia madre, si sono addossate questa responsabilità nella vita quotidiana, in particolare dopo le guerre e altre catastrofi. La vita deve andare avanti per le figlie, i figli, i mariti e la natura. Queste donne hanno ripulito il mondo dalle guerre che gli uomini avevano intrapreso contro la natura e popoli stranieri. Per noi femministe la prospettiva di sussistenza, comunque, assume un significato che riguarda non solo il proseguimento della vita dopo le guerre patriarcali, ma anche che queste non si verifichino mai più. (“Mia madre e la scrofa. La vita deve andare avanti”, tratto da The substistence perspective. Beyond the globalised economy, di Veronika Bennholdt-Thomsen e Maria Mies, Zed Books-Spinifex Press 1999, pp.9-10.

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UNA DONNA AL MESE – XXD 13

Sono stata una di quelle bambine che hanno avuto la “fortuna” di sviluppare, come si diceva ai miei tempi, a dieci anni. Questo ha voluto dire che, mentre le mie coetanee correvano e giocavano, io stavo seduta in una pozza del mio sangue, con il mal di pancia, il sudore puzzolente di chi sta soffrendo ed è in preda a una tempesta ormonale e una seconda di seno che mi rendeva quella che ora chiamerebbero una jail bait. Come primo incontro con la pubertà, niente male. Anni dopo, alle medie, quando le mie coetanee non vedevano l’ora di avere il menarca che le avrebbe rese, nell’organo minuscono contenuto tra le loro orecchie, “donne”, io e loro ci guardavamo con disprezzo reciproco: non capivo, e tutt’ora non capisco, come si possa gioire di qualcosa che, nel migliore dei casi, è un incomodo e che sempre e comunque ti rende suscettibile al pericolo di avere bambini. Soprattutto, forse proprio perché ho avuto il primo ciclo quando ero totalmente ignorante e inconsapevole sessualmente, non ho mai collegato quel sangue marcio che mi colava in mezzo alle gambe (o la terrificante possibilità di restare incinta) all’attraente idea di femminilità, che ho sempre identificato con un’immagine curata, abiti lussosi, scarpe col tacco e colori da pastrugnarsi in faccia. Insomma, una completa scissione tra sesso biologico e genere. La mia famiglia, dati gli anni 70, mi ha dato un’impostazione femminista ondivaga, alternando il nuovo paradigma della donna indipendente, istruita e impegnata, alle paure di mia madre che la bambina sfuggisse al suo controllo e alla contraddizione paterna che mi voleva attivista politica e mi mandava a comprarmi qualcosa di carino ogni qual volta i discorsi diventavano troppo difficili per la pupa. Per anni ho avuto gran collezioni di scarpe e borse, che a tutt’oggi non ho ancora esaurito. Un’altra lezione che ho imparato prestissimo è stata che la colpa è sempre della vittima. Bambina tettuta, un bel giorno il maniaco di turno ha iniziato a strusciarmisi contro in metropolitana e io non ho reagito, ingenuamente pensando che la frizione fosse dovuta a uno di quei momenti di affollamento del mezzo pubblico che rendono possibile inspirare solo quando il tuo vicino espira. (Abbiate pietà, avevo 12 anni a dir tanto!). Mia madre, accortasi di tutto, mi ha incolpato del fatto che non avessi notato niente, senza spiegarmi cosa avrei dovuto notare. Ci ho messo anni a capirlo e a capire il fatto che, magari, io non avevo colpa se non del fatto di esistere. Comunque, da quel giorno, il vestitino rosso con quadretti vichy, che mi stava così bene e mi piaceva tanto, è sparito dal mio guardaroba. Insomma, la colpa era mia e di come mi vestivo. Da allora, la situazione non è cambiata di un centimetro: sia per il mio aspetto, sia per i maniaci. Dopo un po’, in qualunque consesso femminile alternativocentrosocialinidisinistrafemmini sta, c’è sempre un gruppetto di donne che mi guardano e fanno: “Ma come ti vesti? Ma dove devi andare, vestita così?”. I primi tempi restavo delusa e mi arrabbiavo, come è possibile che gente che dovrebbe essere anche più consapevole di me ricada nel vecchio paradigma che donnaconlagonna= alla ricerca di stupro? Possibile che anche queste donne non riescano a uscire dal conformismo che vuole l’impegno politico associato a un’uniformità e, soprattutto, un’uniforme “alternativa”? Adesso sorrido con aria scema per farle contente (“spread a little happiness” è sempre un buon motto) e frequento solo gente che non mi giudica in base al mio abitino vintage giallo, che arriva a capire che una singola donna può, contemporaneamente, indossare una gonna coi tacchi, truccarsi, abbinare la borsa al colore dello smalto, andare così vestita in manifestazione, perché magari ha due neuroni che si parlano e provare ribrezzo nei confronti dei bambini e degli orsetti rosa, perché questa donna è una persona e non uno stereotipo ambulante. Per quanto riguarda gli uomini, come dicevo, anche qua niente è cambiato. Anzi no, la tecnologia ha migliorato le mie condizioni di vita. Ora posso uscire armata di lettore di mp3, così non sento i commenti di chi si crede di avere il diritto di comunicarmi le sue fantasie sessuali in curati dettagli, arrogandosi il diritto di interrompere i miei pensieri (che chiaramente, essendo quelli di una donna, pardon, figa ambulante, sono irrilevanti). Quelli che si rendono conto che non li sento, interrompono il mio andare e mi si parano davanti perché non posso ignorare i loro insulti, è come se avessero paura di non esistere, altrimenti. E no, non vivo in un borgo dello stereotipico sud rimasto fermo agli anni 50, vivrei, in teoria, in una grande città del nord (ah ah ah!). Da queste formative esperienze ho sviluppato la convinzione che gli italiani ce l’abbiano con i musulmani perché hanno quello che loro vorrebbero ma che qui ormai è illegale o quantomeno apparentemente biasimevole: il completo controllo sul corpo della donna (la mente? quale mente?). La possibilità di poterne fare l’uso che vogliono quando vogliono. Insomma, proiettano sugli infedeli le proprie fantasie di controllo sessista. E quindi, cosa vuol dire essere femmina? Se si vive la posizione consapevolmente, per me, allo stato delle cose, vuol sostanzialmente dire fare una vita dimmmerda, ma si sa che “quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare”. Le altre, per favore, si levassero di torno, che io ho da fare, fosse pure shopping mentre marcio col tacco 12 circondata da drag queen durante il Pride.

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POSTPORNOGRAFIA FEMMINISTA AL FESTIVAL QUEER DI LISBONA

di Stefania Doglioli. (xxd 1, ottobre 2010)
IL FESTIVAL DI CINEMA QUEER LISBOA CHE SI TIENE DAL 17 AL 25 SETTEMBRE PROPONE UN PROGRAMMA SULLA POSTPORNOGRAFIA FEMMINISTA, NE ABBIAMO PARLATO CON LA CURATRICE E PROGRAMMATRICE, RICKE MERIGHI
Un titolo molto accattivante quello del programma: Performing Bodies, Performing Genders. From sex-positive feminism to queer postpornography, ce lo vuoi spiegare? Postpornografia è un termine un po’ standard, che gira all’interno di ambiti sia movimentisti sia più di riflessione, che abbiamo scelto per usare parole condivise. Post è un prefisso complesso e probabilmente non ci sarebbe bisogno del post che non vuole dire molto, si potrebbe parlare di pornografia queer femminista, ma ad un certo punto è stato messo e accettato. Se il termine post pornografia è quello che si è affermato ed assestato in questo dibattito lo usiamo, le riflessioni le lasciamo alle filosofe, io sono più affezionata alle altre parole del titolo. Per esempio a me sembra centrale domandarsi il senso della parola queer. Sembra insito nella natura della pornografia femminista che ci si apra al queer. Interessante perchè la pornografia maschile/gay non è per forza queer, non lo è sicuramente la pornografia tradizionale che usa una rappresentazione delle lesbiche costruita sull’immaginario maschile. Abbiamo sotto gli occhi da svariati anni un numero di donne attiviste che fanno un tipo di prodotto queer per tutta una serie di motivi che hanno a che fare con la visione del corpo, con la degenitalizzazione del sesso, con la rappresentazione dell’identità di genere. È un tema complesso ed intrigante ed una riflessione che spiega perchè la pornografia femminista si trovi all’interno del festival. All’interno del programma sono stati proposti tre documentari, Too Much Pussy. Feminist Sluts in the Queer X Show, di Emilie Jouvet; Fake Orgasm di Jo Sol; Mutantes. Féminisme porno punk, di Virginie Despentes, in cui troviamo sex-workers, attiviste punk-queer, musiciste, artiste, registe, sex-performers in tour, attiviste, filosofe. Perchè questa scelta? L’idea della programmazione è da un lato dare esempi di vita vissuta, di attivismo come quello delle ragazze di Too Much Pussy o scelte politiche e artistiche come quella di Laslo Perlman, ma contemporaneamente cercare di capire da dove viene tutto questo. Quella che il titolo dichiara e sottolinea è la tradizione del femminismo sex positive in contrapposizione con il femminismo abolizionista che si scaglia contro la pornografia e la prostituzione. Un femminismo che mette la donna al centro come soggetto sessuato che fa delle scelte e la postpronografia femminista è una di queste. È un programma piccolissimo, sono tre titoli, solo uno stimolo al pubblico che se poi ha voglia può aprire la scatola. Ma quelli che fate vedere sono film porno? No, questo programma specifico è fatto di tre documentari molto diversi tra di loro soprattutto stilisticamente, uno è un documentario storico che traccia una panoramica dalle prime attiviste che hanno rivendicato il lavoro sessuale come scelta consapevole e femminista fino a giovanissime performer che iscrivono le performance sessuali all’interno di un diverso approccio politico. Il documentario di Despentes cerca di dare un senso storico di sviluppo di un movimento. È molto interessante come primo approccio al tema e offre un quadro di riferimento, tanto più che è un documentario pensato per la televisione e quindi didattico. Gli altri due sono diversi, uno è il diario di una tournée di sex performer in giro per l’Europa, femminismo “sex-positive” in azione. Analisi articolate e chiacchiere tra amiche durante le quali vengono fuori le motivazioni e l’effetto che queste scelte hanno sulle loro vite, gioco, emozioni e improvvisazione. Si vedono inoltre spezzoni di performance che ci danno l’idea di cosa può essere una performance sessuale femminista, dei luoghi diversi dove può accadere, dal locale, alla casa occupata, alla strada. Il terzo documentario è in realtà una performance in sé che contiene la parola ‘finto’ nel titolo, non è mai chiaro cosa sia realtà cosa sia inscenato, ciò che è chiaro è che il confine è estremamente labile, tanto che seguiamo il protagonista in una galleria in cui si proiettano interviste a Butler e Preciado che discettano sul tema “il genere è una performance” e lo è per tutte e per tutti non solo per Lazlo che decide di farlo sul palco. Ciò che mi intrigava di un film che può essere problematico è che saltasse il limite tra documentazione e performance in maniera molto coerente, dove la forma ci mostra anche il contenuto. Ma si sono viste produzioni post-porno durante il festival? Il festival ha una sezione dedicata alla pornografia mentre questo programma è stato inserito nella sezione della queer art dedicata alla video arte, alle performance artistiche e all’indagine della cinematografia non narrativa e abbiamo lasciato che i materiali pornografici andassero nella programmazione porno curata in maniera unitaria e dove la pornografia femminista è mescolata agli altri prodotti, metterli nel mio sarebbe stato riprodurre categorie e limiti che le nostre autrici ci dicono non avere senso. Non mi piaceva oltretutto l’idea di offrire una pappa preconfezionata come se fosse un percorso facilitato. Se a qualche spettatrice viene poi voglia di andare a vedere dei porno senza averlo fatto prima io ne sono felice ma non costruisco un corridoio preferenziale. Era possibile capire quali film della programmazione porno potevano essere riportati alla categoria post porno? Io credo che si possa dare un po’ di fiducia ai/alle programmatori/trici. Il festival non ha prodotto scelte convenzionali, si corre sempre il rischio di entrare a vedere un film che non ci interessa, ma basta uscire, si può poi chiedere, si può avvicinare la programmatrice e chiedere consiglio, così come si fa con tutti gli altri film. Fare programmazione implica delle responsabilità, se qualcun* mi chiede di vedere qualcosa che incarna l’atmosfera del postporno un paio di titoli li posso consigliare, in particolar modo qualcosa che esce dal cofanetto svedese di corti porno Dirty Diaries pensati per le donne, che portano il desiderio della donna al centro. Perchè questa programmazione? È un tema che trovo stimolante. Ha mille implicazioni diverse, da un punto di vista più esplicitamente artistico è interessante come da qualche anno ci sia una zona dove si toccano lavoro sessuale, pornografia e video arte che ha fatto si che donne che si percepivano come sex workers hanno trasportato il loro lavoro in ambiti artistici, che ci sollecita rispetto alla domanda “che cosa fa di una azione una performance artistica”. Lo trovo interessante anche dal punto di vista della produzione dei contenuti, un porno è femminista perchè è realizzato da donne, fatto da donne rivolto alle donne? Sono tutte domande che non hanno risposte secche, ma che stimolano riflessioni, discussioni, ulteriori domande. Non si esaurisce certo tutto con la settimana del festival, su internet si trova molto, quello che mi interessa è che si apra un dibattito. Quello che vorrei è che si parlasse di ciò che piace o no, che si scambiassero informazioni su siti e titoli al di là della programmazione del festival. Mentre preparavo il programma ho parlato con molte donne di quale pornografia ci piace o no, del nostro desiderio, della sessualità di ognuna ed è quello che mi piacerebbe capitasse a chi ha visto questi documentari.

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PERCHÈ UNA RUBRICA SULLA POSTPORNOGRAFIA?

di Stefania Doglioli. (xxd 1, ottobre 2010)
PER SPIEGARVI UNA NUOVA PAROLA ‘INTERVISTIAMO’ VIRGINIE DESPENTES, O MEGLIO IL SUO LIBRO KING KONG GIRL, USCITO PER LA COLLANA STILE LIBERO EXTRA DI EINAUDI
Ho scoperto di essere più sensibile ai film postporno che a quelli porno, non perchè mi eccitassero di più o mi dessero migliori idee, ma perchè mi turbavano di più. Ci ho pensato e ho capito, forse, che questi mi mettevano veramente in discussione perchè ponevano al centro la mia sessualità. Come essere turbata dall’immaginario erotico maschile, dalla sua banalità, dalla sua ripetitività, utilizzato in ogni occasione, presente in tutte le immagini con cui sono cresciuta? Molto più difficile invece trovarsi di fronte alla sessualità femminile vissuta liberamente, comunicata senza filtri, messa a disposizione del mio immaginario con la forza di una energia che mi raggiunge solo quando parte dalle donne. Mi sono chiesta se fosse il risultato di secoli di repressione o se fosse al contrario la causa che ha indotto gli uomini a reprimerci per secoli. Non ne ho idea e non voglio neppure discuterne ora, volevo solo comunicarvi quanto può essere forte ritrovarsi di fronte all’espressione di una sessualità prodotta, agita, pensata da donne per le donne. E ho pensato di aver voglia di parlarne ogni mese e di aprire nuovi canali per questa energia. Dentro questa rivista troverete quindi una rubrica sulla post-pornografia che abbiamo pensato valesse la pena di presentare con un articolo che in qualche modo introducesse alcune idee. Questa rubrica vuole essere un viaggio a tappe poco organizzate dentro il desiderio, in nuovi modi di essere femministe, un viaggio nella consapevolezza, pieno di emozioni, dubbi, reticenze, passioni, proposte di percorsi che ognuna vivrà a modo suo, che potrà costruire e decostruire come vorrà, pensare e riconsiderare, filtrare e arricchire, vivere e abbandonare e che avrà come unica guida il desiderio stesso, di conoscere, pensare, sentire, provare e chissà cos’altro. Ho pensato a come poterla presentare e ho scelto di usare le parole di Virginie Despentes, si tratta di alcune parti di King kong girl, che potrete ovviamente leggere per intero se vi andrà, ma che ora mi sembravano un buon modo di iniziare poichè ci possono dire perchè il post porno è anche una pratica femminista. Ogni volta che leggiamo un libro troviamo risposte alle nostre domande e a volte altre domande, è un dialogo continuo, questa è la mia intervista al libro di Despentes: Perchè è così difficile affrontare il tema della pornografia? Ci si domanda che cosa avviene di così cruciale nel porno tanto da conferirgli un tale potere blasfemo … I siti antiporno sono più numerosi e veementi dei siti contro la guerra in Iraq per esempio. Stupefacente vigore intorno a quello che altro non è se non un cinema di genere. L’immagine porno non ci lascia scelta: ecco quello che ti eccita, ecco quello che ti fa reagire. Ci fa sapere qual’è la molla che scatena in noi la reazione. Sta in questo la sua grande forza, la sua dimensione quasi mistica. Ed è per questo che molti militanti antiporno si irrigidiscono e urlano. Non vogliono che si parli direttamente del loro desiderio, che venga loro imposto di sapere delle cose di se stessi che hanno scelto di tacere e ignorare. Il porno pone un autentico problema: da libero sfogo al piacere e gli propone un appagamento, troppo rapidamente per permettere una sublimazione. Le nostre fantasie sessuali parlano di noi, alla maniera indiretta dei sogni. Non dicono niente su ciò che desideriamo succeda de facto. Non so niente, io, del perchè è eccitante fino a questo punto vedere altre persone che scopano dicendosi delle sconcezze. È che funziona. Meccanica. Il porno rivela in maniera cruda questo altro aspetto di noi: il desiderio sessuale è una meccanica, non molto complicata da mettere in moto. Eppure la mia libido è complessa, quello che dice di me non mi fa necessariamente piacere, non quadra sempre con ciò che mi piacerebbe essere. Ma posso scegliere di saperlo, piuttosto che girare la testa dall’altra parte e dire il contrario di quello che so di me, per preservare un’immagine sociale rassicurante. Che cosa offende veramente le donne nella pornografia? I detrattori del genere si lamentano della povertà del porno, sostengono che esiste un solo tipo di porno. Amano far circolare l’idea che il settore non è inventivo. Il che è falso. Le donne, non si capisce bene in che cosa la loro dignità sarebbe particolarmente minacciata dall’uso di un pene artificiale. Le sappiamo sufficientemente agguerrite per comprendere che una messa in scena sadomaso non indica che desiderano farsi frustare arrivando in ufficio, né imbavagliare quando lavano i piatti. In compenso, basta accendere la tv per vedere delle donne in posizioni umilianti. I divieti sono quelli che sono e hanno la loro giustificazione politica (il sadomaso deve restare uno sport d’élite, il popolo non è in grado di coglierne la complessità, si farebbe del male). Ciò non toglie che si prenda a pretesto la ‘dignità’ della donna ogni volta che si tratta di limitare l’espressione sessuale… Le condizioni di lavoro delle attrici, i contratti aberranti che firmano, la loro impossibilità di controllare la propria immagine quando abbandonano il mestiere, o di essere retribuite quando essa viene utilizzata, questa dimensione della loro dignità non interessa ai censori. Che non esista nessun centro di assistenza specializzato dove esse possano recarsi per ottenere le diverse informazioni sulle specificità molto particolari del loro lavoro non inquieta granché i poteri pubblici. C’è una dignità che li preoccupa e un’altra di cui tutti se ne infischiano. Ma il porno si fa con della carne umana, della carne d’attrice. E in fin dei conti, pone un solo problema morale: l’aggressività con cui vengono trattate le attrici hard. È cruciale a livello politico rinchiudere la rappresentazione visiva del sesso in ghetti delimitati, chiaramente separati dal resto dell’industria in modo da relegare il porno in un lumpen proletariat dello spettacolo, così come è cruciale rinchiudere le attrici hard nella riprovazione, nella vergogna e nella stigmatizzazione. Perché il porno è appannaggio degli uomini? Perchè nel momento in cui l’industria dei film a luci rosse ha trent’anni, ne sono loro i principali beneficiari economici? La risposta è la stessa in tutti i campi: il potere e il denaro sono sminuiti per le donne Si devono ottenere ed esercitare solo attraverso una accordo con l’uomo. Solo gli uomini immaginano il porno, lo mettono in scena, ne traggono profitto, e il desiderio femminile è sottoposto alla stessa distorsione: deve passare attraverso lo sguardo maschile. Gli uomini si sono subito impossessati di questo orgasmo femminile: è attraverso di loro che la donna deve godere. La masturbazione femminile continua ad essere disprezzabile, accessoria. L’orgasmo che si deve raggiungere è quello prodigato dal maschio. L’uomo deve sapere come fare. Come nella bella addormentata nel bosco, si china sulla bella e la fa impazzire di piacere. Cosa può succedere se si mette il desiderio femminile al centro dell’attenzione? Il desiderio femminile è passato sotto silenzio fino agli anni cinquanta. La prima volta che delle donne si riuniscono in massa e fanno sapere: “abbiamo delle voglie, siamo attraversate da pulsioni brutali, ineslicabili, i nostri clitoridi sono come dei cazzi, reclamano soddisfazione” è in occasione dei primi concerti rock. Subito: disprezzo. Isteria da fan. Non si vuole ascoltare quello che sono venute a dire, ossia che sono bollenti e piene di desiderio. Questo fenomeno di fondamentale importanza viene occultato. Gli uomini non vogliono sentirne parlare. Il desiderio è il loro ambito, esclusivo. Tutta l’eleganza e la coerenza maschile riassunte in un atteggiamento: “dammi quello che voglio, te ne prego, perchè poi possa sputarti in faccia”. La sola maniera di fare esplodere il rituale sacrificale del porno sarà di portarvi le ragazze di buona famiglia. Ciò che esplode, quando esplodono le censure imposte dalle classi dirigenti, è un ordine morale fondato sullo sfruttamento di tutti. La famiglia, la virilità guerriera, il pudore, tutti i valori tradizionali mirano ad assegnare a ogni sesso il suo ruolo. Agli uomini, quello di cadaveri gratuiti per lo Stato, alle donne, quello di schiave degli uomini. Alla fine, tutti asserviti, le nostre sessualità confiscate, controllate, regolamentate. C’è sempre una classe sociale che ha interesse a che le cose restino come sono, e che non dice la verità sulle sue motivazioni profonde.

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IO SONO SANA

di Alessia Muroni. (xxd 1, ottobre 2010)
DA UNA PARTE LA PUBBLICITÀ USA IL CORPO FEMMINILE, DALL’ALTRA ALIMENTA UNA SERIE DI OCCULTI PREGIUDIZI SULLA CORRUZIONE E LA SPORCIZIA DELLE PARTI INTIME. MA LE DONNE SONO SANE E LE MESTRUAZIONI NATURALI
Una volta eravamo diverse. Migliori. Per superare le nostre più intime problematiche femminili, bastava infilarci tra le gambe un’assorbente, e poi ci era permesso tutto. Andare in moto. Saltare con il paracadute da un aereo. Fare ginnastica intorno a un palanchino da restauratore. Anche ostinarci a metterci quei cazzo di pantaloni bianchi aderenti. O minigonne bianche. La televisione ci forniva, attraverso pubblicità al limite – in ogni senso – esempi in fondo positivi. Hai le mestruazioni, ma puoi condurre una “vita normale” – per inciso, come si dice ai portatori di handicap, ah no, ai diversamente abili, tanto per lavarsene le mani. Un giorno scoprimmo, però, che alcune di noi puntavano appositamente la sveglia, la notte, per cambiarsi l’assorbente. Personalmente, ne rimasi turbata. Non avrei mai sospettato tale pratica demenziale. Per fortuna, per arginare sanguinolente alluvioni notturne, cascate ematiche senza freni e dissanguamenti ultralunari, ci veniva fornito l’apposito assorbente XXL. Qui devo aprire una parentesi. Produttori di assorbenti, pensate che le nostre vulve misurino ettari? Recuperate la vostra antica vocazione, smettete di produrre materassini e tornate a dimensioni normali. Non siamo noi la categoria antropologica fissata con le misure. Chiusa parentesi. Intorno alla metà degli anni Ottanta, poi, scoprimmo che non solo la donna ha le mestruazioni, il che già di per sé sembra proprio imperdonabile tant’è che non si riesce neanche a pronunciarne il nome, ma che in generale ha nel corpo una fessura aperta che potenzialmente potrebbe rilasciare indefinibili perdite. Maleodoranti. Per nostra fortuna la pubblicità aveva cominciato a proporci il salvaslip. Anche le mutande devono essere protette dalla malefica influenza delle donne. Ottenemmo quindi un vero e proprio lasciapassare per entrare nella vita di tutti i giorni, noi portatrici di sessi scolanti. Mi ricordo in particolare che in quell’arcaica meraviglia che era La TV delle ragazze – molte epoche fa – Cinzia Leone, mi pare, o forse era Maria Amelia Monti o Angela Finocchiaro – faceva strage della propria famiglia, poi scendeva in strada, sparava sulla folla e sventolava davanti ai poliziotti accorsi a fermarla il suo regolamentare salvaslip. I due agenti, sollevati, la lasciavano andare. Ai nostri giorni, il salvaslip si è aggiornato. Lasciate le sue vesti di anonimo rettangolo, è diventato espanso-sagomatomodellato- formato-tangapassepartout- decorato-epersino- trapunto. In televisione ci lasciano capire che sedendoci, potremo ritrovare tutta la fresca sensazione del poggiare la vulva: a. su una nuvola b. su un gigantesco petalo c. in una poltrona. Cavolo, certe donne sono proprio sensibili. In ogni caso estratti di aloe, di mille fiori, di menta, di corna d’alce ed altre puttanate continueranno per nostra fortuna a frenare i disgustosi effluvi che da ogni femmina umana naturalmente promanano. Alla fine degli anni Ottanta, poi, lavande e saponi intimi uscirono dalla farmacia e infilarono la porta del supermercato. Ai nostri giorni c’è in televisione una tipa con l’aria incredibilmente angelica che ti sorride con sguardo tra il deliziosamente innocente e il vagamente lascivo, e tu puoi leggerle negli occhi cos’ha nelle braghe. Fantastico. Ma qui siamo ancora nella gestione della norma, no? Ok, andiamo avanti. “Nonna, giochi con me?” “Elena, lo so che sei la vedova del mio migliore amico, ma sei una roba pazzesca, insomma, vuoi ballare?” “Signora Carla, benvenuta, la lezione di aerobica comincia tra poco, vuole forse cominciare a fare riscaldamento con la cyclette?” A queste domande nonna, Elena e Carla rispondono pronte: “Sì, perché ho messo l’assorbente che limita le mie inconfessabili perdite urinarie”. Altra scena. Si apre la porta dell’ascensore. Due donne, eleganti, curate, non troppo giovani né troppo agée, si congratulano reciprocamente per avere il coraggio di usare l’ascensore. Infatti, il mercato ha finalmente prodotto per loro l’assorbente che non solo limita le inconfessabili perdite urinarie che tutte le donne hanno, ma pone finalmente una seria barriera a quella puzza stantia di piscio che normalmente le alona come il nimbo alona i santi del paradiso. Sono volgare? No, lo è il sottinteso di questa pubblicità. Al piano successivo, entra un giovane maschio elegante e curato. Le due arpie si fanno l’occhiolino, perché non appena l’ascensore si chiuderà, gli salteranno addosso e lo sbraneranno, tanto l’innocente non conosce la realtà che si nasconde nelle loro mutande. Una breve digressione. Circolano due pubblicità, attualmente, sugli schermi del circuito televisivo interno di bus e metropolitane. Offrono pochi, essenziali dati: Il 75% delle donne italiane soffre di stitichezza. 3 donne su 4 soffrono di emorroidi. Non si citano fonti. Seguono consigli e prodotti, yogurt, creme, ecc. Torniamo a noi. Tipico esterno metropolitano. Due giovani ragazze, felici, sorridenti. Ne arriva una terza. Ella pronuncia una frase, con pudibonda timidezza: “Ragazze, scusate il ritardo, ma avevo un fastidioso prurito intimo…”. Compare un tubetto di crema. Aspettate, lo voglio tradurre per le meno eteree: “Scusate il ritardo, mi prudeva la fica e invece di uscire di casa ho passato le ultime tre ore a grattarmela”. Riassumendo, dagli anni Settanta ad oggi, nonostante il femminismo, nonostante la fame nel mondo, nonostante le sfide epocali del nuovo millennio, nonostante l’imminente disastro ecologico, le donne devono preoccuparsi soprattutto di non puzzare, non scolare, non grattarsi, defecare con garbo. Naturalmente, ammesso che i problemi della vita siano davvero questi, è un problema solo femminile: se infatti la maggior parte delle pubblicità di deodoranti è rivolto a un pubblico femminile e promette loro di poter far parte del consorzio civile, solo pochi analoghi prodotti sono rivolti agli uomini, con la promessa che sicuramente una principessa accorrerà festante a coronarne lo sforzo in vari soddisfacenti modi. Abbiamo d’altronde avuto modo di apprendere, da altra pubblicità, che un minatore può uscire dalla miniera e mentre guida con il gippone su anguste stradine di montagna potrà pulirsi con fazzolettini umidificati, arrivando fresco, pulito, stirato e praticamente nuovo in una casa in cui una femmina non vede l’ora di dargliela. Certo, esistono prodotti specifici per l’igiene maschile, intendo le schiume da barba, ecc. Ma fateci caso: dove, alle donne, viene insinuata un’idea di insicurezza ed inadeguatezza, cui eventualmente il prodotto può venire in soccorso, il messaggio rivolto agli uomini è completamente diverso, e va nella costruzione di sicurezza, di prestigio, di sex-appeal. Riflettiamo insieme. Un tempo si diceva che tacchi, capelli cotonati, bustini, borsette ed altre frattaglie modaiole erano modi per controllare il corpo delle donne. Adesso che le donne si vestono un po’ come gli pare, per controllare il corpo e, già che ci siamo, dare una bella botta anche alla psiche, basta inculcare loro l’idea che il loro corpo è qualcosa di disgustoso. Che puzza spaventosamente, che scola in continuazione e in ogni fase fisiologico-anagrafica-ormonale. Non solo. Quando ha le mestruazioni, la donna va fuori di testa. Costringendo poveri impiegatini (ma molto intelligenti) ad avere in ufficio cassetti pieni di medicinali antisindrome premestruale, allo scopo di arginare la potenziale invasione di ferocissime zombie che ciclicamente minaccia il luogo di lavoro. A chi è diretto questo messaggio? Alle donne, certo. Molte delle quali faticano a difendersene. Alcune delle quali se ne sbattono, per fortuna. Altre delle quali vedono riconfermati i pregiudizi che loro stesse accolgono e coltivano in sé. E agli uomini – che però fanno anche un po’ pena, poverini, obbligati come sono dalla società eterosessuale e patriarcale a rapportarsi con questi esseri ripugnanti… Ma chi colpisce, prima ancora? Le bambine. In cui fin da piccole viene inculcata l’idea dell’imperfezione naturale del corpo femminile. E i bambini. Che imparano a vedere nelle bambine e nelle donne esseri dall’anatomia discutibile, sanzionabile ed in generale inferiore. Nessuna pubblicità infatti consiglia gli uomini sull’igiene intima, di cui pure avrebbero bisogno. Nessuna pubblicità sta lì a ricordare continuamente le umane, meschine e normali imperfezioni e disfunzioni maschili. Se ciò accade, trattasi sicuramente di rassicurante Pubblicità Progresso, il cui primo scopo è confortare. L’odio per le donne nei secoli si è costruito e fomentato intorno al disgusto per i loro corpi, aristotelicamente appartenenti al regno oscuro delle tenebre, del sangue, del freddo, dell’acqua, della terra, della passività, tutt’altra cosa dall’apollineo corpo maschile. E quest’idea continua ad essere veicolata tutt’ora dagli schermi, dalle riviste dai cartelloni della nostra festosa civiltà, che lavora ormai apertamente a ricacciarci indietro, in ogni ambito sociale e politico. Il nostro corpo di donna, mestruato, giovane, anziano, sessuato, è sano. Normalmente pulito senza troppi sforzi. Di solito rilascia liquidi e solidi nei tempi fisiologici ed ormonali medi, senza tragedie né stigmi sociali. Se accade diversamente ottobre 2010 14 può esserci un problema di salute, che non è la norma. E che non rappresenta tutte le donne. Non connota la femminilità. Le mestruazioni sono qualcosa di normale. Se ci lasciassero fare, se non tentassero di problematizzarle e medicalizzarle in ogni modo, come tutte le cose femminili da cui l’uomo è escluso – pensiamo alla gravidanza e al parto, divenuti ormai eventi a massimo tasso di innaturalità – forse sparirebbero anche la maggior parte delle sindromi pre-mestruali. Una volta dicevamo “Io sono mia”. Adesso siamo costrette a proclamare “Io sono sana”. Non è per niente rassicurante.

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