di Daniela Danna. (xxd 1, ottobre 2010)
FORMALIZZAZIONE DELLE UNIONI GAY E LESBICHE, DIRITTI CONIUGALI E DELLA PERSONA: IL MODELLO MATRIMONIALE È IN CRISI PER LE COPPIE ETERO, POTREBBE ESSERE L’OCCASIONE PER RIPENSARLO A PARTIRE DALL’INDIVIDU*
Sacrosanta la battaglia per il riconoscimento pubblico per le coppie di persone dello stesso sesso – come si può pensare di essere in un paese civile se non è possibile dichiarare pubblicamente (ed essere ascoltate dai pubblici poteri!) che la propria compagna è quella donna, che è lei la ‘parente più prossima’ per dirla in burocratese, che il primo riferimento è un’altra donna e non un uomo? E comprensibile è l’equazione tra parità di diritti e accesso agli ordinamenti esistenti, cioè il matrimonio: la via più breve (si fa per dire) per ottenere un riconoscimento delle coppie dello stesso sesso è certamente quella di equipararle a quelle di sesso opposto e accettare il pacchetto delle leggi esistenti in nome dell’uguaglianza. Le coppie gay e lesbiche assistite dagli avvocati della Rete Lenford, nel momento in cui i comuni hanno rifiutato loro le pubblicazioni che avrebbero permesso loro di sposarsi, hanno affermato che: “Non vi è alcuna disposizione normativa che vieti il matrimonio tra omosessuali” – anzi, il codice civile italiano parla proprio di ‘persone’ che contraggono matrimonio. E poi: “L’evoluzione sociale rende ormai pienamente accettabile l’unione coniugale tra persone del medesimo sesso” – forse un tantino esagerato ma tendenzialmente condivisibile. E ancora: “La possibilità di contrarre liberamente matrimonio con la persona prescelta esprime un diritto inalienabile dell’essere umano” – e questo c’è proprio nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo, anche se probabilmente le Nazioni Unite non avevano affatto in mente il matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma quello tra persone di etnie o religioni diverse sì, unioni che nella storia anche recente sono state variamente proibite per razzismo o discriminazione religiosa. Però nel frequentare i numerosi convegni e comizi dedicati a questo tema un po’ di amaro in bocca si sente, perché l’accettazione del modello dato da parte degli oratori è veramente totale. Non si capisce bene se si tratta di tattica, cioè di retorica, o di vera convinzione. È già stato notato infatti come sia curioso che, in un momento storico di grande crisi del matrimonio, proprio gay e lesbiche aspirino ad entrarvi. In Italia la scelta di convivere la fanno molte giovani coppie eterosessuali, per poi magari sposarsi all’arrivo dei figli – ma non è un automatismo neanche questo. Ogni anno per quattro matrimoni celebrati si assiste a una separazione, e al momento finiscono con una separazione un matrimonio su dieci (o poco più) con un trend in crescita. Il modello è poi viziato dall’anomalia italo-cattolica per cui il divorzio avviene in due stadi – e il processo di separazione definitiva in caso di ricorso alla giudiziale dura due anni e cinque mesi (cinque mesi la consensuale), a cui si aggiungono i tempi del divorzio, dopo la moratoria di tre anni: in media 147 giorni su domanda congiunta e un anno e otto mesi con rito ordinario. E poi gli strascichi economici che moltiplicano le occasioni di contrasto tra ex non sono un granché edificanti – e non pare che la giustizia riesca veramente in questo modo a tutelare le fasce più deboli: il lavoro domestico erogato dalle donne non è considerato titolo per ottenere denari. Scrive l’Istat a proposito dell’assegno di mantenimento, che viene raramente stabilito: “Questa misura non ha una funzione compensativa, intesa nel senso di garantire un corrispettivo a uno dei coniugi per l’investimento di tempo nel lavoro familiare effettuato durante il matrimonio” (ragazze, siete avvertite…). Insomma, il matrimonio indissolubile della Controriforma, il matrimonio descritto da Christine Delphy come rapporto di servitù per le donne (vedi il fatto che le donne sposate e conviventi svolgono da sole quasi tutto il lavoro domestico, anche se hanno un impiego – e se manca il marito in casa lavorano non di più ma di meno!), il modello napoleonico per cui i mariti dominano le mogli (vedi i dati sulle violenze subite dalle donne da parte dei loro partner) pesano ancora tutti sulla realtà italiana – se non più nelle leggi sicuramente nei costumi. E non sottovalutiamo gli aspetti culturali che cementano l’immagine dei coniugi – certo nelle coppie dello stesso sesso non ci sarebbe la pesantezza del portato storico dei termini ‘moglie’ e ‘marito’ con le loro disparità fugate solo dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 – strano, a proposito, che non sia sotto attacco aperto come tutte le conquiste degli anni settanta, ma forse perché la tattica è stata quella di agire sottotraccia, per esempio con la legge che dal 2006 impone l’affido condiviso, secondo la Cassazione persino nei casi di violenza degli ex mariti (sentenza numero 2993 del 2009). Benché certamente già si senta un gay parlare di ‘mio marito’ e una lesbica di ‘mia moglie’, non sempre in senso ironico, io personalmente avrei comunque qualche difficoltà a chiamarmi ‘moglie’ di un’altra donna, la reazione istintiva è di fortissima allergia. Se l’aspirazione al matrimonio di molte coppie di persone dello stesso sesso è sicuramente sincera, direi però che si tratta di una convinzione piuttosto minoritaria – lo dico a naso, vedendo le vite lesbiche e gay che mi stanno intorno. Qualcuno dice ‘per sempre’, ma anche in questo caso, meglio riparlarne dopo un po’… Dalle ricerche sociologiche emergerà anche che la maggior parte di gay e lesbiche sono in coppia, ma si vede anche che solo una minoranza di queste coppie è convivente. Il fatto che non ci sia una possibilità di ufficializzare l’unione ci rende sicuramente più liberi (in molti contesti, certo non in tutti: siamo un paese in cui tanti giovani alla scoperta di essere omosessuali si suicidano!), tranne nei momenti cruciali in cui ci accorgiamo di non poterci veramente staccare dalle famiglie d’origine, in mancanza appunto della possibilità di formalizzare le nostre unioni sentimentali. E tuttavia – è il rovescio dei tanti momenti di libertà fuorilegge – il mancato riconoscimento delle coppie formate da persone dello stesso sesso costituisce un’emergenza civile. Alle Cinque giornate delle lesbiche a Roma è stata letta la lettera straziante di una donna la cui compagna è morta di un cancro divorante senza avere avuto il tempo di fare testamento. Da quando è stata ricoverata la famiglia di origine l’ha praticamente sequestrata, impedendo alla scrivente, che era sua convivente, persino di andarla a trovare. Ha saputo che la madre non ha chiesto la somministrazione della morfina, perché così avrebbe scontato i propri peccati. La donna è stata poi sfrattata dalla famiglia – i legittimi eredi – e ha perso anche l’auto, che usavano insieme ma le cui rate pagava la compagna deceduta, l’unica ad avere un lavoro regolare. Ma il matrimonio sarebbe stato l’unico rimedio possibile? Sono state calpestate due vite, con l’intrusione di una famiglia ostile al lesbismo della propria figlia – ma che dire della situazione della malata se non avesse avuto una compagna? Le sue sofferenze per essere strappata alla cerchia delle sue amicizie più care dalla sua feroce famiglia di origine ci sarebbero state ugualmente – così come l’atto orribile di privarla degli unici antidolorifici efficaci senza considerare quale avrebbe potuto essere la sua scelta. Per trovare il bandolo di questa matassa dobbiamo risalire alle concezioni illuministiche della libertà delle persone – degli individui, con terminologia liberale. Ricondurre alle scelte personali una sfera più ampia di facoltà rispetto a quelle garantite dalle leggi attuali: dal riconoscimento del testamento biologico alla facoltà di disporre liberamente dei propri beni – se i congiunti non versano in condizioni di indigenza. Riappropriarsi, contro la tirannia delle famiglie ma anche degli stati, della libertà di disporre del proprio corpo (non di vendita di parti del esso a fini di lucro!), al limite anche di autodanneggiarsi o rischiare di farlo con l’uso di sostanze – legali o illegali – che possono essere nocive, a fini ricreativi o di ricerca spirituale, il rifiuto di trattamenti sanitari, dell’accanimento terapeutico, l’estremo atto del suicidio. E non solo: se vogliamo vivere in uno stato laico, la scelta di promettersi di passare l’intera vita con un’altra persona (di qualunque sesso sia) non dovrebbe essere in alcun modo privilegiata. In questo momento di crisi serve tra l’altro a far risparmiare il già magrissimo welfare state italiano, dati gli obblighi di mantenimento reciproco che gravano non solo sui coniugi ma su tutti i parenti fino all’ennesimo grado – gradi che, manco a dirlo, per la legge italiana sono molti di più che negli altri paesi europei. Ma i diritti della persona dovrebbero avere una centralità maggiore rispetto ai diritti delle coppie. Ben un quarto delle ‘famiglie’ registrate dall’Istat all’ultimo censimento sono unipersonali. Tantissime coppie eterosessuali rifiutano di sposarsi, un po’ per allergia (anche loro!) verso il grande carrozzone organizzato dalle famiglie, un po’ perché non sentono il bisogno di una sanzione statal-pubblica per le loro unioni, un po’ perché sanno che “non c’è niente che sia per sempre”. E forse anche per disaccordo con alcuni contenuti specifici dello status coniugale. Che cos’è l’altra faccia del matrimonio ce lo dice la Corte d’Appello di Firenze (su sollecito delle coppie dello stesso sesso dei cui ricorsi abbiamo parlato sopra – il testo dell’ordinanza è disponibile su http://www.retelenford.it): “Ai diritti coniugali si contrappongono infatti pesanti limitazioni nella sfera delle libertà individuali, quali l’obbligo di coabitazione, l’obbligo di assistenza morale e materiale, l’obbligo di fedeltà sessuale, che sarebbero inconcepibili senza sottendere il perseguimento di una finalità superiore”. La Corte lo dice perché nessun contratto (il giudice di primo grado aveva rimandato gli aspiranti nubendi alla stipula di contratti privati) può comportare questi obblighi, invitando quindi i giudici costituzionali a pronunciarsi sul fatto se il rifiuto di sposare una coppia dello stesso sesso sia una discriminazione in base all’orientamento sessuale, proibita implicitamente dall’articolo 3 della nostra Costituzione. (Per gli specialisti: la Corte di Firenze afferma che “la tutela accordata agli sposi, grazie alla stabilità del quadro delle relazioni sociali, affettive ed economiche che comporta, agli obblighi e ai diritti che ne consegue, non trova eguali ed adeguate possibilità suppletive nell’autonomia di diritto privato”.) E il corrispettivo di questi doveri è nella finalità procreativa: “si collega[no] alla necessità di saldare un nucleo stabile iperprotettivo a fondamento della famiglia”. Il modello matrimoniale forse allora non andrebbe applicato automaticamente a tutte le coppie ma solo a quelle che hanno figli: cioè la struttura del matrimonio non dovrebbe riguardare affatto i rapporti nella coppia, ma la filiazione, che è solo un’eventualità nella vita di coppia – e che già si verifica sempre più spesso al di fuori del matrimonio. Dunque la filiazione è quella che va salvaguardata e ripensata accanto ai diritti delle individue (e individui, naturalmente) in una proposta che sia più sensata dei modelli vigenti. Per esempio la proposta di riforma del diritto di famiglia che nella passata legislatura è stata fatta dalla sinistra con Titti De Simone come prima firmataria, senza imporre un modello unico, apriva veramente molte possibilità di accedere a pari diritti relazionali: matrimonio, convivenza (anche tra più di due persone), unione civile, unione registrata, il tutto senza discriminare in base all’orientamento sessuale o al sesso dei contraenti (vedi il progetto di legge C. 1562 “Norme in materia di unione registrata, di unione civile, di convivenza di fatto, di adozione e di uguaglianza giuridica tra i coniugi”, presentato alla Camera il 2 agosto 2006). Che viviamo in coppia, con o senza figli, con amiche e amici, che abbiamo relazioni precedenti che in qualche modo continuano, anche di genitorialità, riteniamo che non sia più attuale prospettare il matrimonio dell’‘uniti per sempre’, soprattutto dal momento che non siamo più condannati a farlo dai preti (tranne che a Malta dove il divorzio è ancora proibito!). La durata di un rapporto non deve essere un feticcio: se le separazioni sono dolorose, altrettanto doloroso è rimanere insieme a tutti i costi – con la differenza che questa sofferenza dura più a lungo: finché morte non ci separi. E prima e dopo la coppia, c’è l’individua, con una sua rete di relazioni che vanno salvaguardate. Cominciamo a ragionarci seriamente.
nessuna colpa, nessuna vergogna!
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