DIRITTI PER LE INDIVIDUE!

di Daniela Danna. (xxd 1, ottobre 2010)
FORMALIZZAZIONE DELLE UNIONI GAY E LESBICHE, DIRITTI CONIUGALI E DELLA PERSONA: IL MODELLO MATRIMONIALE È IN CRISI PER LE COPPIE ETERO, POTREBBE ESSERE L’OCCASIONE PER RIPENSARLO A PARTIRE DALL’INDIVIDU*
Sacrosanta la battaglia per il riconoscimento pubblico per le coppie di persone dello stesso sesso – come si può pensare di essere in un paese civile se non è possibile dichiarare pubblicamente (ed essere ascoltate dai pubblici poteri!) che la propria compagna è quella donna, che è lei la ‘parente più prossima’ per dirla in burocratese, che il primo riferimento è un’altra donna e non un uomo? E comprensibile è l’equazione tra parità di diritti e accesso agli ordinamenti esistenti, cioè il matrimonio: la via più breve (si fa per dire) per ottenere un riconoscimento delle coppie dello stesso sesso è certamente quella di equipararle a quelle di sesso opposto e accettare il pacchetto delle leggi esistenti in nome dell’uguaglianza. Le coppie gay e lesbiche assistite dagli avvocati della Rete Lenford, nel momento in cui i comuni hanno rifiutato loro le pubblicazioni che avrebbero permesso loro di sposarsi, hanno affermato che: “Non vi è alcuna disposizione normativa che vieti il matrimonio tra omosessuali” – anzi, il codice civile italiano parla proprio di ‘persone’ che contraggono matrimonio. E poi: “L’evoluzione sociale rende ormai pienamente accettabile l’unione coniugale tra persone del medesimo sesso” – forse un tantino esagerato ma tendenzialmente condivisibile. E ancora: “La possibilità di contrarre liberamente matrimonio con la persona prescelta esprime un diritto inalienabile dell’essere umano” – e questo c’è proprio nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo, anche se probabilmente le Nazioni Unite non avevano affatto in mente il matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma quello tra persone di etnie o religioni diverse sì, unioni che nella storia anche recente sono state variamente proibite per razzismo o discriminazione religiosa. Però nel frequentare i numerosi convegni e comizi dedicati a questo tema un po’ di amaro in bocca si sente, perché l’accettazione del modello dato da parte degli oratori è veramente totale. Non si capisce bene se si tratta di tattica, cioè di retorica, o di vera convinzione. È già stato notato infatti come sia curioso che, in un momento storico di grande crisi del matrimonio, proprio gay e lesbiche aspirino ad entrarvi. In Italia la scelta di convivere la fanno molte giovani coppie eterosessuali, per poi magari sposarsi all’arrivo dei figli – ma non è un automatismo neanche questo. Ogni anno per quattro matrimoni celebrati si assiste a una separazione, e al momento finiscono con una separazione un matrimonio su dieci (o poco più) con un trend in crescita. Il modello è poi viziato dall’anomalia italo-cattolica per cui il divorzio avviene in due stadi – e il processo di separazione definitiva in caso di ricorso alla giudiziale dura due anni e cinque mesi (cinque mesi la consensuale), a cui si aggiungono i tempi del divorzio, dopo la moratoria di tre anni: in media 147 giorni su domanda congiunta e un anno e otto mesi con rito ordinario. E poi gli strascichi economici che moltiplicano le occasioni di contrasto tra ex non sono un granché edificanti – e non pare che la giustizia riesca veramente in questo modo a tutelare le fasce più deboli: il lavoro domestico erogato dalle donne non è considerato titolo per ottenere denari. Scrive l’Istat a proposito dell’assegno di mantenimento, che viene raramente stabilito: “Questa misura non ha una funzione compensativa, intesa nel senso di garantire un corrispettivo a uno dei coniugi per l’investimento di tempo nel lavoro familiare effettuato durante il matrimonio” (ragazze, siete avvertite…). Insomma, il matrimonio indissolubile della Controriforma, il matrimonio descritto da Christine Delphy come rapporto di servitù per le donne (vedi il fatto che le donne sposate e conviventi svolgono da sole quasi tutto il lavoro domestico, anche se hanno un impiego – e se manca il marito in casa lavorano non di più ma di meno!), il modello napoleonico per cui i mariti dominano le mogli (vedi i dati sulle violenze subite dalle donne da parte dei loro partner) pesano ancora tutti sulla realtà italiana – se non più nelle leggi sicuramente nei costumi. E non sottovalutiamo gli aspetti culturali che cementano l’immagine dei coniugi – certo nelle coppie dello stesso sesso non ci sarebbe la pesantezza del portato storico dei termini ‘moglie’ e ‘marito’ con le loro disparità fugate solo dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 – strano, a proposito, che non sia sotto attacco aperto come tutte le conquiste degli anni settanta, ma forse perché la tattica è stata quella di agire sottotraccia, per esempio con la legge che dal 2006 impone l’affido condiviso, secondo la Cassazione persino nei casi di violenza degli ex mariti (sentenza numero 2993 del 2009). Benché certamente già si senta un gay parlare di ‘mio marito’ e una lesbica di ‘mia moglie’, non sempre in senso ironico, io personalmente avrei comunque qualche difficoltà a chiamarmi ‘moglie’ di un’altra donna, la reazione istintiva è di fortissima allergia. Se l’aspirazione al matrimonio di molte coppie di persone dello stesso sesso è sicuramente sincera, direi però che si tratta di una convinzione piuttosto minoritaria – lo dico a naso, vedendo le vite lesbiche e gay che mi stanno intorno. Qualcuno dice ‘per sempre’, ma anche in questo caso, meglio riparlarne dopo un po’… Dalle ricerche sociologiche emergerà anche che la maggior parte di gay e lesbiche sono in coppia, ma si vede anche che solo una minoranza di queste coppie è convivente. Il fatto che non ci sia una possibilità di ufficializzare l’unione ci rende sicuramente più liberi (in molti contesti, certo non in tutti: siamo un paese in cui tanti giovani alla scoperta di essere omosessuali si suicidano!), tranne nei momenti cruciali in cui ci accorgiamo di non poterci veramente staccare dalle famiglie d’origine, in mancanza appunto della possibilità di formalizzare le nostre unioni sentimentali. E tuttavia – è il rovescio dei tanti momenti di libertà fuorilegge – il mancato riconoscimento delle coppie formate da persone dello stesso sesso costituisce un’emergenza civile. Alle Cinque giornate delle lesbiche a Roma è stata letta la lettera straziante di una donna la cui compagna è morta di un cancro divorante senza avere avuto il tempo di fare testamento. Da quando è stata ricoverata la famiglia di origine l’ha praticamente sequestrata, impedendo alla scrivente, che era sua convivente, persino di andarla a trovare. Ha saputo che la madre non ha chiesto la somministrazione della morfina, perché così avrebbe scontato i propri peccati. La donna è stata poi sfrattata dalla famiglia – i legittimi eredi – e ha perso anche l’auto, che usavano insieme ma le cui rate pagava la compagna deceduta, l’unica ad avere un lavoro regolare. Ma il matrimonio sarebbe stato l’unico rimedio possibile? Sono state calpestate due vite, con l’intrusione di una famiglia ostile al lesbismo della propria figlia – ma che dire della situazione della malata se non avesse avuto una compagna? Le sue sofferenze per essere strappata alla cerchia delle sue amicizie più care dalla sua feroce famiglia di origine ci sarebbero state ugualmente – così come l’atto orribile di privarla degli unici antidolorifici efficaci senza considerare quale avrebbe potuto essere la sua scelta. Per trovare il bandolo di questa matassa dobbiamo risalire alle concezioni illuministiche della libertà delle persone – degli individui, con terminologia liberale. Ricondurre alle scelte personali una sfera più ampia di facoltà rispetto a quelle garantite dalle leggi attuali: dal riconoscimento del testamento biologico alla facoltà di disporre liberamente dei propri beni – se i congiunti non versano in condizioni di indigenza. Riappropriarsi, contro la tirannia delle famiglie ma anche degli stati, della libertà di disporre del proprio corpo (non di vendita di parti del esso a fini di lucro!), al limite anche di autodanneggiarsi o rischiare di farlo con l’uso di sostanze – legali o illegali – che possono essere nocive, a fini ricreativi o di ricerca spirituale, il rifiuto di trattamenti sanitari, dell’accanimento terapeutico, l’estremo atto del suicidio. E non solo: se vogliamo vivere in uno stato laico, la scelta di promettersi di passare l’intera vita con un’altra persona (di qualunque sesso sia) non dovrebbe essere in alcun modo privilegiata. In questo momento di crisi serve tra l’altro a far risparmiare il già magrissimo welfare state italiano, dati gli obblighi di mantenimento reciproco che gravano non solo sui coniugi ma su tutti i parenti fino all’ennesimo grado – gradi che, manco a dirlo, per la legge italiana sono molti di più che negli altri paesi europei. Ma i diritti della persona dovrebbero avere una centralità maggiore rispetto ai diritti delle coppie. Ben un quarto delle ‘famiglie’ registrate dall’Istat all’ultimo censimento sono unipersonali. Tantissime coppie eterosessuali rifiutano di sposarsi, un po’ per allergia (anche loro!) verso il grande carrozzone organizzato dalle famiglie, un po’ perché non sentono il bisogno di una sanzione statal-pubblica per le loro unioni, un po’ perché sanno che “non c’è niente che sia per sempre”. E forse anche per disaccordo con alcuni contenuti specifici dello status coniugale. Che cos’è l’altra faccia del matrimonio ce lo dice la Corte d’Appello di Firenze (su sollecito delle coppie dello stesso sesso dei cui ricorsi abbiamo parlato sopra – il testo dell’ordinanza è disponibile su http://www.retelenford.it): “Ai diritti coniugali si contrappongono infatti pesanti limitazioni nella sfera delle libertà individuali, quali l’obbligo di coabitazione, l’obbligo di assistenza morale e materiale, l’obbligo di fedeltà sessuale, che sarebbero inconcepibili senza sottendere il perseguimento di una finalità superiore”. La Corte lo dice perché nessun contratto (il giudice di primo grado aveva rimandato gli aspiranti nubendi alla stipula di contratti privati) può comportare questi obblighi, invitando quindi i giudici costituzionali a pronunciarsi sul fatto se il rifiuto di sposare una coppia dello stesso sesso sia una discriminazione in base all’orientamento sessuale, proibita implicitamente dall’articolo 3 della nostra Costituzione. (Per gli specialisti: la Corte di Firenze afferma che “la tutela accordata agli sposi, grazie alla stabilità del quadro delle relazioni sociali, affettive ed economiche che comporta, agli obblighi e ai diritti che ne consegue, non trova eguali ed adeguate possibilità suppletive nell’autonomia di diritto privato”.) E il corrispettivo di questi doveri è nella finalità procreativa: “si collega[no] alla necessità di saldare un nucleo stabile iperprotettivo a fondamento della famiglia”. Il modello matrimoniale forse allora non andrebbe applicato automaticamente a tutte le coppie ma solo a quelle che hanno figli: cioè la struttura del matrimonio non dovrebbe riguardare affatto i rapporti nella coppia, ma la filiazione, che è solo un’eventualità nella vita di coppia – e che già si verifica sempre più spesso al di fuori del matrimonio. Dunque la filiazione è quella che va salvaguardata e ripensata accanto ai diritti delle individue (e individui, naturalmente) in una proposta che sia più sensata dei modelli vigenti. Per esempio la proposta di riforma del diritto di famiglia che nella passata legislatura è stata fatta dalla sinistra con Titti De Simone come prima firmataria, senza imporre un modello unico, apriva veramente molte possibilità di accedere a pari diritti relazionali: matrimonio, convivenza (anche tra più di due persone), unione civile, unione registrata, il tutto senza discriminare in base all’orientamento sessuale o al sesso dei contraenti (vedi il progetto di legge C. 1562 “Norme in materia di unione registrata, di unione civile, di convivenza di fatto, di adozione e di uguaglianza giuridica tra i coniugi”, presentato alla Camera il 2 agosto 2006). Che viviamo in coppia, con o senza figli, con amiche e amici, che abbiamo relazioni precedenti che in qualche modo continuano, anche di genitorialità, riteniamo che non sia più attuale prospettare il matrimonio dell’‘uniti per sempre’, soprattutto dal momento che non siamo più condannati a farlo dai preti (tranne che a Malta dove il divorzio è ancora proibito!). La durata di un rapporto non deve essere un feticcio: se le separazioni sono dolorose, altrettanto doloroso è rimanere insieme a tutti i costi – con la differenza che questa sofferenza dura più a lungo: finché morte non ci separi. E prima e dopo la coppia, c’è l’individua, con una sua rete di relazioni che vanno salvaguardate. Cominciamo a ragionarci seriamente.

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PENSIONI PRECARIE

di Ornella Guzzetti. (xxd 1, ottobre 2010)
LE DONNE IN PENSIONE A 65 ANNI COME GLI UOMINI. UN’EQUIPARAZIONE CHE TIRA UNA LINEA DI SEPARAZIONE TRA LE GENERAZIONI, LE (BABY) PENSIONATE E LE GIOVANI PRECARIE, SENZA CAMBIARE LA CONDIZIONE DELLE LAVORATRICI
Pensare alla pensione è problematico se sei una giovane donna precaria o disoccupata, perché sei convinta che tanto non la prenderai mai. Se hai un lavoro stabile anche, perché guardi le detrazioni previdenziali sullo stipendio e pensi a come spenderesti quei soldi ora e che, comunque, ti ritroverai con una pensione da fame. Per le donne del pubblico impiego, che credevano di andare in pensione a 62 anni nel 2012, in mancanza del requisito di 40 anni di contributi, pensare alla pensione deve essere frustrante perché, grazie alla legge n.122, approvata il 29 luglio, dovranno aspettare i 65 anni. Forse son contente le donne in pensione che dopo una vita di lavoro possono contare su un reddito garantito, quelle che hanno raggiunto l’indipendenza economica, uno degli obiettivi del femminismo. Forse. Le pensionate sono meno ricche dei pensionati. L’Ocse ci dice che l’indice di povertà tra le donne ultra 65enni italiane è più alto di quello degli uomini. Le donne prendono pensioni più basse. Guadagnano in media il 15% in meno degli uomini a causa delle ineguaglianze del mercato del lavoro e di conseguenza versano anche meno contributi alle casse pensioni. Lavorano meno anni per via di percorsi lavorativi più discontinui di quelli dei maschi, per la difficoltà di conciliare lavoro e famiglia. Queste due circostanze determinano, alla fine della carriera lavorativa, minore consistenza dell’assegno di pensione. Gli uomini hanno pensioni più alte perché lavorano più anni, perché guadagnano di più a parità di impiego e sono più numerosi nelle posizioni di vertice, meglio retribuite. E non si occupano della casa e dei figli e dei genitori quanto le donne. Anche se sempre di più sono i redditi uniti della coppia a garantire alla famiglia una vita dignitosa, questo apporto della donna al ricchezza comune non cambia il fatto che gli uomini italiani hanno 80 minuti di tempo libero in più al giorno rispetto alle donne, la differenza più grande dei 18 paesi dell’OCSE. Gran parte del tempo libero delle donne è speso in ore di lavoro non retribuito in casa. E il dopo-lavoro domestico, si sa, fa risparmiare i costi di una persona terza addetta alle pulizie, della baby sitter, della badante, al bilancio familiare. E poi le donne sono sottooccupate, malgrado l’alto tasso di scolarità e il successo scolastico che le contraddistingue. Per esempio nella pubblica amministrazione, dove la selezione è guidata da criteri di accesso come il titolo di studio e il superamento di concorsi, in molti contesti la presenza femminile ha superato il 50%. Ma il tetto di cristallo resiste là dove si entra o si sale di livello per cooptazione diretta da parte del gruppo dirigente, dove le donne sono solo il 18% e l’impegno richiesto in fatto di conciliazione dei tempi è a ‘misura d’uomo’. Le donne giovani che lavorano sanno che, come le loro madri, dovranno farcela con pochissimi aiuti da parte dei servizi pubblici, se decidono di avere dei bambini, oppure contare sulle nonne, surrogando le notevoli carenze dei servizi all’infanzia e non solo, nel caso ci siano anziani di cui occuparsi. Il fatto di andare in pensione prima è sempre stata considerata una sorta di compensazione agli svantaggi che la donna incontra nella vita attiva, a causa degli oneri del lavoro di cura. Ma il principio ispiratore di queste scelte non è un fattore di parità bensì di protezione. Anche di protezione della famiglia patriarcale, se si considera un altro dato: la pensione di reversibilità del coniuge deceduto, ovvero del marito lavoratore per la moglie casalinga, è ritenuta fattore fondante di un modello sessuato di welfare dove le donne preferiscono non entrare nel mercato del lavoro, affidandosi al fatto che, come parte della famiglia, potranno contare sulla pensione del marito. L’Unione europea ha programmi di intervento per eliminare la discriminazione e realizzare la parità di genere e l’indipendenza economica delle donne, lavoratrici e pensionate, in tutti gli stati nazionali. Le donne in alcuni paesi hanno maggiore potere economico e politico, un più consistente rilievo sociale, la possibilità di un ruolo determinante nella gestione della famiglia e dello Stato grazie non solo a politiche sulle quote rosa ma anche all’attenzione posta nel sostenere il reddito delle donne e sgravarle dai carichi familiari del dopolavoro. I sistemi di protezione sociale possono eliminare i disincentivi che dissuadono le donne dall’entrare o dal rimanere nel mercato del lavoro, consentendo l’accumulo di diritti pensionistici individuali, ma c’è chi non giudica una ‘buona madre’ chi lascia il figlio al nido, posto che ci sia il servizio e che sia a costi accessibili. Le leggi sui congedi familiari possono rendere più appetibile economicamente per gli uomini rimanere a casa dopo la nascita del bambino e permettere così alle donne di non uscire dal mercato del lavoro o rientrarci con meno difficoltà, ma lo stigma sociale frena l’utilizzo di questa opportunità in Italia. Come i sistemi di welfare hanno lo scopo di controbilanciare le diseguaglianze prodotte dal mercato, così il diritto antidiscriminatorio nasce e si sviluppa per combattere le differenze che si traducono in esclusione. Welfare e legislazione di discriminazione positiva possono creare un sistema virtuoso di cambiamento, dare la spinta iniziale. Garantire che la vecchiaia non sia sinonimo di povertà è uno dei successi del modello sociale europeo ma è anche una promessa difficile da continuare a mantenere. Ogni paese deve affrontare le sfide poste dall’invecchiamento della popolazione e la Commissione europea tiene alta l’attenzione sul fronte previdenziale, dipinto come un ordigno a tempo sui conti pubblici degli paesi aderenti. Le riforme pensionistiche degli ultimi anni hanno in pratica deciso se in futuro ci sarebbero stati pensionati più poveri o contributi più elevati da pagare oppure un maggior numero di persone che lavorano di più e più a lungo. La prima opzione è stata perseguita in Italia con le politiche sulle assunzioni a tempo determinato e sgravi fiscali per le aziende. La recente disposizione della manovra di fine luglio va nella direzione della terza possibilità, innalzando l’età pensionabile per le donne del pubblico impiego a 65 anni come gli uomini. Non c’era possibilità di deroga, pena sanzioni economiche: erano già previsti passaggi graduali fino al 2018 ma l’intervento della Corte di Giustizia europea ha accelerato le cose con una sentenza che vieta all’Inpdap, l’ente previdenziale dei dipendenti pubblici, di applicare dei differenziali per età. In pratica, l’istituto è stato considerato una cassa professionale e la pensione una retribuzione sulla quale non devono esserci disparità di trattamento tra uomini e donne. Al contrario l’Inps, erogatore di pensioni sociali, è escluso dal diritto antidiscriminatorio: le donne del privato, per ora, continueranno ad avere il tetto a 60 anni. La pronuncia europea non ha obbligato l’Italia ad innalzare l’età di pensionamento delle donne del pubblico impiego a 65 anni, si poteva anche abbassare quello per gli uomini. È un interesse politico italiano quello di far ricadere sull’Unione Europea la responsabilità di dall’anno prossimo, le finestre di pensionamento saranno per tutti solo a fine anno, aggiungendo così 12 mesi di lavoro. Pare che nessuno si sia accorto che, dal 1° gennaio 2015, i requisiti anagrafici per l’accesso al sistema pensionistico dovranno essere adeguati all’incremento della speranza di vita accertato dall’Istat e dall’Eurostat, e si sa che le donne vivono di più. Alle lavoratrici dovrebbero essere garantiti un trattamento paritario ‘in ingresso’ e forme di tutela ‘in itinere’ piuttosto che un aiuto ‘in uscita’. Per le 25.000 donne del pubblico impiego su cui ricadrà la decisione di luglio non ci sarà nemmeno quello. Molte sono insegnanti. Nella scuola convivono le generazioni delle donne che non potranno andare in pensione fino al 2018 invece che nel 2012, come immaginavano, e tante giovani precarie che secondo le ultime dichiarazioni della Ministra Gelmini saranno assunte entro otto anni. La precarietà, la poca informazione sulle prospettive future in tema di pensione, il disorientamento dato da leggi sempre in mutamento, i dubbi sulla necessità di una previdenza integrativa, caratterizzano soprattutto le nuove generazioni. In passato, le organizzazioni sindacali fungevano da canale di informazione sui diritti, c’era più conoscenza e consapevolezza. Molto ci sarebbe da fare da parte delle istituzioni per diffondere la conoscenza dei meccanismi previdenziali che negli ultimi anni hanno continuato a cambiare e le cui conseguenze si toccheranno con mano tra molti anni, specialmente per chi entra ora nel mercato del lavoro. Il governo nella manovra di luglio ha inserire una norma che prevede che i risparmi dei mancati pensionamenti delle donne confluiranno in un fondo istituito presso la Presidenza del Consiglio, stimato in 1,450 miliardi di euro tra il 2012 e il 2019, vincolato ad ‘azioni positive’ destinate alla famiglia e alle donne. E ha istituito un gruppo di studio per decidere come utilizzarli. Magari pensare a una seria e capillare informazione su quello che sta succedendo nel sistema pensionistico italiano non sarebbe una cattiva idea. Forse dalla comprensione potrebbero nascere proposte condivise e trasparenti sul tema dell’occupazione femminile. Le donne italiane devono vegliare sul come verranno utilizzati quei soldi. Affinché non siano penalizzate ulteriormente dall’aumento obbligatorio dell’età di pensionamento senza ricevere le dovute compensazioni, anche intergenerazionali.

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INCONTRO CON GABRIELLA PARCA

di Alice nel paese delle femministe. (xxd 1, ottobre 2010)
INTERVISTIAMO NEL SUO SALOTTO MILANESE GABRIELLA PARCA, AUTRICE DELLE PRIME INCHIESTE SU QUELLA CHE VENIVA CHIAMATA ‘LA CONDIZIONE FEMMINILE’ – O MEGLIO SUI RAPPORTI TRA I SESSI – NELL’ITALIA DEL DOPOGUERRA
Riannodo con lei il filo rosso del femminismo in Italia, partendo da ‘prima che voi nasceste’, come ci fa notare con la sua voce soave. Fin dall’inizio della tua attività di giornalista hai messo a fuoco lo sguardo sui rapporti uomodonna: lo hai fatto per una ragione personale, per aver toccato con mano nella tua famiglia o nel tuo percorso lavorativo l’ingiustizia sociale contro le donne, oppure osservando la società? L’una e l’altra cosa. Nel dopoguerra ho cominciato a lavorare al Messaggero (allora Giornale del Mattino) come cronista volontaria e avevo scelto, unica donna, la cronaca nera. Ero una ragazzina di diciannove anni, avevo tanto entusiasmo ed ero molto brava. Dopo sei mesi di volontariato era normale, visti i risultati, che fossi assunta come reporter. Invece i proprietari del giornale mi dissero: “Ah, ma lei è donna, perciò non la possiamo assumere. Anzi, si deve proprio allontanare dal giornale, non può neanche collaborare…” Mi ferì moltissimo. Essere donna era come essere un’appestata. Ho vissuto proprio sulla mia pelle la discriminazione anche in altri casi. Durante la guerra mi ero abituata a portare i pantaloni per difendermi dal freddo e perché era più comodo per muovermi. Poi continuai anche dopo, perché andavo molto in bicicletta, quando i mezzi pubblici scarseggiavano. Ma all’università, a Roma, se i colleghi ti vedevano con i pantaloni, te li strappavano di dosso e ti buttavano dentro la fontana della Minerva. È successo a te? A me no, perché facevo dei giri enormi ed entravo da un ingresso secondario, dopo che avevo visto fare questa violenza a un’altra ragazza. Non gliela volevo dare per vinta di non mettere i pantaloni. Più tardi, diventata giornalista, i fatti di cronaca, le inchieste, la ‘piccola posta’, mi hanno fatto molto riflettere sulla condizione della donna e mi hanno spinta a pubblicare Le italiane si confessano. Le inchieste per me sono state un arricchimento enorme, le interviste a gente qualsiasi che non può mai farsi sentire, che non può mai parlare perché nessuno li sta a sentire… Invece ti raccontano delle cose bellissime, molto più interessanti di quello che ti dicono deputati o ministri. C’era voglia di confessarsi? Forse era il mio interessamento sincero al loro vissuto che li portava alla ‘confessione’. Non c’era diffidenza. Certo, a volte c’era qualcuno che voleva fare lo spiritoso. Se si parlava di esperienze sessuali, come nell’inchiesta per I sultani, mi diceva: “Lo proviamo?” Io: “No, no, non ce n’è bisogno”. Alla domanda sulla donna ideale: “Eh, una donna come lei, una falsa magra come lei”. Mi ricordo che nella graduatoria delle preferenze, la donna intelligente veniva dopo la donna brutta, proprio all’ultimo posto. La donna ideale invece era quella ‘dolce e comprensiva’. …materna. Sì, certo. Ma i tempi non sono molto cambiati. Parlando con le giovani mi accorgo che ancora c’è questo desiderio degli uomini di essere trattati in fondo come dei figli, la comprensione è importante. Pensi sia stato più utile I sultani o Le italiane si confessano? Le italiane si confessano fu proprio una bomba, ruppe il silenzio. Le donne italiane erano sempre state considerate soddisfatte della loro vita, della loro posizione di mogli e madri. Le americane erano insoddisfatte, le francesi erano insoddisfatte, mentre le italiane erano tranquille e paciose, e far vedere che queste scrivono e dicono che sono scontente, insoddisfatte, inquiete, che si sentono ingannate e tradite, fu una sorpresa per tutti. Molti giornali scrissero che i panni sporchi si lavano in famiglia, altri invece che finalmente viene fuori un po’ di verità, c’è il coraggio di dire le cose come stanno. Ma persino L’Osservatore Romano mi attaccò. La cosa che preoccupava i preti era che non ci fosse più la fiducia nel padre spirituale, che si sostituissero i confessori con i consiglieri laici dei giornali. Questa era la cosa che li preoccupava di più. Le italiane si confessano fu subito tradotto in molti paesi, persino in Giappone, dove hanno fatto la copertina del libro più bella, molto ironica, con l’uomo che è adorato come un idolo dalla donna. I sultani in Italia fu molto osteggiato. C’erano amici che mi telefonavano per dirmi: “Ci hai sputtanato, che cosa hai fatto?!”, altri che mi toglievano il saluto, altri che se mi incontravano si voltavano dall’altra parte. E prima, quando io e la mia collaboratrice Maria Luisa Piazza siamo andate in Sicilia per fare le interviste, con gli uomini naturalmente, come nelle altre regioni, il Giornale di Sicilia scrisse che erano arrivate sull’isola due maniache sessuali. “State attenti!” Gli uomini dovevano evitare di parlarci. Ma gli uomini hanno parlato molto in questo libro, anche molto sinceramente. Sembra che non si rendessero conto di dire le cose terribili che dicevano. Il questionario era fatto molto bene. Mi avevano aiutato a predisporlo il prof. Perrotti, direttore dell’Istituto di Psicoanalisi, il prof. Meschieri, direttore dell’Istituto di Psicologia del CNR e il prof. Tentori, direttore del Centro Italiano di Antropologia Culturale, di cui facevo parte anch’io. Una delle prime domande era: con chi ha fatto da bambino i primi giochi sessuali? Si dava per scontata la cosa, e questo li lasciava all’inizio un po’ perplessi, però poi entravano in questa specie di gioco della verità ed erano felicissimi di parlare. Quando finiva l’intervista molti dicevano: “Ma come, è già finita?” ed era durata un’ora, un’ora e mezza. Ci appoggiavamo molto ai sindacati, ci hanno aiutato moltissimo per trovare i ‘soggetti’ da intervistare e renderli disponibili. Dovevamo sentire tot operai, tot professionisti, artigiani, pescatori, portuali… È stata una fatica terribile, ma ne valeva la pena! Questi due libri sono quelli che hanno avuto più risonanza anche all’estero, altri sono stati comunque importanti, per esempio quello sulle carceri, Voci dal carcere femminile pubblicato nel 1973 da Editori Riuniti. Non si era mai trattato l’argomento. Cominciai a fare un’inchiesta per L’Espresso, poi la continuai per il libro. Avevo un permesso speciale per entrare nelle carceri femminili di tutta Italia, e ne visitai diverse. In alcune le condizioni erano incredibili. A Trani la Casa di pena era sotto il livello del mare. Ma le donne dentro il carcere non parlavano, con la secondina davanti. Cercai allora quelle che erano già uscite, e quasi tutte accettarono di parlare, di raccontarmi la loro esperienza. Qualche volta si creava anche una specie di amicizia. Una ladra romana, poi, mi adorava. Mi diceva : “Vengo a trovarla a Milano alla prima fiera che c’è”. Le fiere sono i luoghi prediletti dai borseggiatori, e lei era un’abile borseggiatrice. Diceva: “Io ho cominciato per comprare gli occhiali a mio figlio, e adesso devo comprargli la Bmw, gliel’ho promesso”. Aveva fatto un fioretto: per un anno mentre il figlio era militare non aveva rubato per non creargli problemi. “Visto che può stare un anno senza rubare, perché non continuare così?” le dissi. E lei: “Ah, no, il lavoro è lavoro”. Pensi che le inchieste che hai fatto siano servite a portare avanti l’Italia, a cambiare anche le leggi? Non sono così presuntuosa. Ma penso che il mio lavoro, insieme a quello di tanti altri, a qualcosa sia servito. Per esempio, l’on. Loris Fortuna, promotore del progetto di legge sul divorzio, nel presentare a Milano il mio libro I separati nel 1969 disse: “Questo libro fa conoscere l’aspetto umano della separazione e fa capire quanto sia importante istituire il divorzio. Noi politici parliamo di leggi, dell’articolo tot, ma dell’aspetto umano non ne parliamo mai”. In realtà, i separati non erano né liberi né sposati e avevano tutti gli svantaggi degli uni e degli altri, senza averne i vantaggi. Questo faceva capire il mio libro. I separati, pubblicato da Rizzoli (come I sultani), era piaciuto molto, tanto è vero che dopo alcuni anni fui chiamata da un altro editore che mi propose di scrivere un libro su i divorziati. Cosa che feci, basandomi su un’ampia casistica. Nel 1984, dieci anni dopo il referendum, uscì I divorziati per i tipi dell’editore Bompiani. Sei stata la fondatrice Centro Problemi Donna qui a Milano. Si, Ma questo è un altro capitolo della mia attività e della mia storia personale, perciò vorrei parlarne a parte. Però posso dirti che proprio al CPD ho conosciuto la protagonista di un altro mio libro, Lo sballo – intervista a una ragazza che ha smesso di bucarsi – (Longanesi, 1980). Anzi, prima conobbi la madre che venne da me dicendomi: “Mia figlia vorrebbe parlarti”. Però agli appuntamenti che prendeva telefonicamente la ragazza non veniva mai. Alla fine la misi alle strette: “Sono stufa di perdere tempo con te. Non farti più sentire…” Per un po’ scomparve, poi un giorno si presentò, inattesa. Parlammo a lungo. E da quel giorno venne tutti i pomeriggi. Il suo racconto era come un fiume in piena, dall’infanzia all’ultimo buco. Questo libro allora ebbe molto successo sia tra i figli che i genitori. Era il primo del genere in Italia.. Una signora, a Porto Ercole, mi disse che era diventato la loro bibbia. Era la madre di una ragazza incappata nella droga e aveva amiche pure loro con figlie nelle stesse condizioni. Questo libro le era servito, non perché fosse un manuale, ma perché le aiutava a capire la mentalità e il comportamento di questi ragazzi. Per concludere, cosa ne pensi del percorso che hai visto fare dalle donne in Italia, dagli anni sessanta, in cui i tuoi libri hanno cominciato a porre l’attenzione su quelli che erano i problemi delle donne, a oggi? Le leggi sono cambiate, questo è importante. Perché c’è un’interazione: il cambiamento delle leggi agisce sul costume e a sua volta il cambiamento del costume spinge a far cambiare le leggi. Divorzio, aborto, abolizione del reato di adulterio femminile o per l’uso dei contraccettivi, cancellazione della vergogna del delitto d’onore dal codice mentre la magistratura apriva le porte alle donne, sono state tappe importanti nel nostro cammino. Per quanto riguarda le donne, oggi, forse bisognerebbe tornare ai gruppi di autocoscienza, per capire quello che sta succedendo. Appena una donna ha un po’ di potere, si comporta come o peggio di un uomo: assume il modello maschile della gestione del potere, te lo fa pesare, da padrone. Inoltre non c’è solidarietà femminile, che invece era un punto di forza del primo femminismo… Nell’Ottocento, quando si lottava per il voto, c’era eccome la solidarietà femminile! Andavano in galera tutte quante assieme, si difendevano tutte quante assieme. E gli uomini sono cambiati? L’uomo è cambiato a rimorchio delle donne, che sono cambiate molto più degli uomini in questi cinquant’anni. Volenti o nolenti, qualche cambiamento l’hanno dovuto accettare. Hanno a che fare con donne diverse dalle loro nonne, non è che possono andare a vivere su un altro pianeta

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UNA DONNA AL MESE – XXD 1

Carina ha novant’anni anni, ha visto due guerre mondiali e le profonde trasformazioni della sua Carnia, da luogo di povertà ed emigrazione a regione discretamente prospera, che ha perso la sua vocazione agricola. Ci racconta del suo essere donna tra le montagne del Friuli nel secolo passato – peccato non poter riprodurre il suo dolce accento carnico. Ti faccio qualche domanda sull’essere donna: avresti preferito nascere uomo invece che donna? Eh, sì sì. Cosa vuoi… Secondo te fanno una vita più comoda? Non saprei dire, non so. A casa mia ho avuto una famiglia molto buona, mio papà era bravissimo, un buon uomo, era fedele alla moglie. A noi ragazzi ci insegnava tanto perché lui aveva studiato, era maestro. Era tanto gentile con noi, tanto bravo, mai un discorso con noi, con la mamma. Dio, nelle case son tante cose no… Sai cosa facevano, se c’era qualcosa di traverso loro non si parlavano, lasciavano i biglietti. Se vedevamo un biglietto sulla tavola: ah, oggi è tempesta. Ma poi non era tempesta, erano cose normali in famiglia. Noi si faceva le contadine, si andava in campagna, dopo arrivata di scuola si andava nell’orto a far l’erba. In casa dovevi lavorare appena eri uscita di scuola. Finita la quinta. Dopo eri già un po’ sviluppata, arrivavi a casa e dovevi accendere il fuoco per mettere su la pignatta grande, o dovevi dare da mangiare al maiale, o preparare il biberon per le bestie, dovevi andare nell’orto a prender l’erba che dovevi tagliar dentro. Facevate gli stessi lavori che facevano gli uomini? Gli uomini non andavano in campagna, dei nostri no! Infatti venivano tanti forestieri qui e dicevano ma come mai lavorano tutte le donne? Ma i nostri uomini andavano a lavorare fuori, a portar soldi. La campagna ti rendeva, perché avevi da mangiare. Cioè, se lavoravi avevi, se no non facevi niente. E poi avevamo le bestie nelle stalle, i conigli, le galline, insomma per mangiare non era una miseria di mangiare. Mancavano tante cose importanti, che ci volevano i soldi. Mio fratello andava a scuola a Tolmezzo a piedi. Anche tu andavi alla stessa scuola? No, io sono andata solo in paese, fino alla quinta. Io volevo andare a scuola, ma però dopo è nato un altro fratello. Diceva mio papà: il primo figlio è bravo d’intelligenza, allora bisogna che lo faccia studiare. Invece l’altro fratello non ha voluto studiare, è andato in fabbrica a Tolmezzo. E non ha pensato alle donne. Da noi in paese c’era un brutto vizio. Che dovevano pensare sempre prima ai figli maschi. Le donne se trovavano un uomo [si sposavano], se no ti arrangiavi in campagna e facevi la contadina. Mio fratello dopo per dire il vero era intelligente, era il più bravo della scuola a Tolmezzo e allora il direttore della scuola gli diceva a mio papà cerchi di mandare a scuola questo ragazzo, che se non lo mandi lo rovini. Mio papà diceva ma come faccio, che son sacrifici. Però sacrifici dovevamo farli anche noi a casa, noi lavoravamo, lui non poteva lavorare. Non c’era la corriera ancora quella volta, non c’era la bicicletta che gliel’ha comprata dopo di seconda mano, quindi andava via o a piedi o in bicicletta e se pioveva poi dio ci guardi. Poi ha detto ma non posso lasciare di mandarlo a scuola perché è troppo bravo. E di te cosa dicevano? Eri brava a scuola? Sì, abbastanza brava, quello è vero. Una volta non mettevano nove, dieci, mettevano ‘lodevolissimo’, insomma ero anche contenta. Le proprietà le passavano anche alle figlie femmine? Sì, avevan tutto anche le donne. Non è per quello, ma è che c’erano tre donne che studiavano in tutto il paese. Irene per esempio che era stata in Austria, lei era brava, faceva anche la sarta per la gente, poi 35 ottobre 2010 metteva anche a dormire la gente, li faceva mangiare, se c’era qualche persona importante andava sempre nella sua casa. Lei aveva cambiato ambiente, non era come noi che dovevamo star chiuse a casa. Anche io leggevo, in casa si leggeva sempre, avevo i libri di mio fratello che aveva studiato tanto. E un giornale non mancava mai perché mio padre gli piaceva leggere. Cercava di aiutarci lo stesso anche se eravamo donne, ma non era come adesso, che adesso studiano tutte le ragazze, se uno sta bene… e la campagna: se gli dici sai cos’è la campagna? non sanno neanche dove sono i prati, a dire il vero. Era una grande differenza, ma quella volta erano tutte così, e non c’era da dire ma questa va a scuola, tu hai studiato e tu no. Eravamo tutte al pari, solo queste due-tre donne, che avevano già girato un po’ il mondo. Le altre donne erano tutte donne di campagna, di lavori. Che cosa è per te una cosa bella dell’essere donna? Non so che dire io. Nei paesi non è bello mai, perché come ti ho detto uscivi di scuola vai nell’orto a far l’erba, vai a dare da mangiare alle galline, andavi a portare il secchiello del latte per mungere…

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ESOTERICHE? NO, METAFEMMINILI!

a cura della redazione. (xxd 2, novembre 2010)
Perché abbiamo scritto il Manifesto delle donne metafemminili? Perché volevamo presentarci con un’identità collettiva: non per fondare un gruppo politico ma semplicemente perché siamo stufe di sentirci dire come dobbiamo comportarci in quanto donne, e che quello che ci è lecito e illecito fare non è ciò che sta nelle facoltà del nostro corpo e del nostro essere persone, ma è limitato dalla legge degli uomini. Volevamo dire i nostri no, in modo che i nostri sì assumano il giusto significato. Nella discussione tra di noi siamo passate da “antifemminili” a ‘transfemminili’ per arrivare a scegliere la parola “metafemminili”. Ci siamo spostate innanzitutto dal negativo al positivo, da “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” ad affermazioni forti di aspirazione alla libertà e alla giustizia. “Metafemminile” per noi ha il senso di superamento del ruolo, il significato dell’essere una donna che cerca una modalità libera di essere femminile, lottando contro le prescrizioni che ci costringono in un ruolo di servizio verso i maschi. Non è una setta, non è un diverso imperativo cui sottostare, è solo un nome nuovo, cioè contemporaneo, per una cosa antica: il femminismo. Ci vogliamo riappropriare dei codici della femminilità per vivere quelli non imposti e non strumentali. Crediamo ne esistano di naturali e di appresi ma non disfunzionali, anzi utili anche per gli uomini che decidono di assumerli. Siamo donne che attraversano la femminilità, e diventandone consapevoli possiamo scegliere di rifiutarla, trasformarla o tenerla con un nuovo sguardo. E altrettanto ci piacerebbe che facessero gli uomini con il loro ruolo e le loro costrizioni, con le quali come noi hanno a che fare tutti i giorni, e che sempre più spesso scelgono di discutere e di modificare. Come prima cosa nel Manifesto abbiamo scritto: “Noi amiamo”. L’amore, come la vita e la libertà, si presta molto alla neolingua corrente – siamo nel post-1984 e come nel romanzo di Orwell il potere usa le parole rovesciandone il significato. Abbiamo quindi il partito dell’amore, cioè quello che ha introdotto in politica le urla e la sopraffazione verbale, avendo il mito di quella fisica. Abbiamo il movimento per la vita, che sarebbe quello che vuole ricacciare le donne a morire di aborto sanguinando negli scantinati. Abbiamo il popolo delle libertà, che è quello che ha fatto la legge che ti ritira la patente se fai un uso minimo di sostanze alteranti come l’alcool, e ti manda al Sert e anche in galera se ti fai una canna o coltivi una piantina (qualcuno ci muore anche, ma non è mai colpa della polizia). Per non parlare delle restrizioni alla libertà dei migranti, controllati quotidianamente se hanno la pelle scura dalle venti forze di polizia che imperversano a ogni angolo delle nostre città. Non lasciamo che il potere si appropri di questi termini, ed esprimiamo la nostra volontà di amore, di vita, di libertà. Diamo un significato vero a queste irrinunciabili parole e azioni.

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L’EUROPA E L’ALTRA

di Daniela Danna. (xxd 2, novembre 2010)
AL BIRKBECK COLLEGE DI LONDRA A SETTEMBRE SCIENZIAT* SOCIALI DA TUTTA EUROPA HANNO DISCUSSO LE POLITICHE SULLA PROSTITUZIONE. IN CHE DIREZIONE VA L’EUROPA NEI CONFRONTI DELL’ALTRA, LA DONNA PERDUTA, LA DONNA PER MALE?
Prima del 1989 la prostituzione non era più considerata un problema: era svolta da donne e uomini che lavoravano in un mercato favorevole al venditore, soprattutto a causa della diminuzione delle “nuove leve” tra le giovani generazioni. Oggi è tornata al centro dell’attenzione di politici e cittadini, che generalmente vorrebbero sbarazzarsi delle straniere, soprattutto quelle visibili nelle strade. Un seminario dell’European Research Council ha riunito una ventina di studiose e studiosi da undici paesi per confrontare i modelli di regolazione. Nella storia i modelli legislativi si sono diffusi da uno Stato all’altro: la regolazione nell’Ottocento e l’abolizionismo nel Novecento, in Italia con la legge Merlin. E il modello del Ventunesimo secolo sarà la regolazione come sex work o la persecuzione dei clienti? Sono diffusi ancora in pochi Stati ma catalizzano l’attenzione di tutti: Olanda e Germania considerano la prostituzione come un lavoro, Svezia, Norvegia e Islanda come una violenza di cui sono penalmente responsabili i clienti. La regolazione tedesca però quasi non esiste, come ha mostrato Rebecca Pates dell’Università di Lipsia: “Si suppone che la nuova legge liberale sulla prostituzione venga applicata, ma i Länder (regionistato) non lo fanno. Alcuni, in particolare la Baviera, argomentano che la legge morale è più importante di quelle federali. Un’eccezione è Dortmund, che ritiene che Ia legge abbia dei vantaggi, come portare trasparenza in un mondo piuttosto invisibile alle autorità. Le tasse sono ovviamente un altro vantaggio”. Nella sua ricerca sulla polizia della Sassonia ha chiesto quali ragioni si danno per interferire nelle vite e nelle abitudini di chi si prostituisce. La risposta per i poliziotti intervistati varia in base al genere e all’etnia. Nelle vite dei prostituti uomini l’interferenza non è legittimata. “Lo fanno per divertirsi, e non ci preoccupano”. Se si parla di donne invece i poliziotti trovano più interessante esercitare controllo. Se la prostituta è tedesca: “È una questione biologica: lo fa perché le piace. Però diffonde malattie, quindi dobbiamo controllarla e reprimerla.” Le straniere invece sono tutte vittime di tratta, nonostante il fatto che la maggior parte di loro hanno scelto di prostituirsi ritenendolo un modo accettabile, per lo meno in una fase della vita, per mantenere se stesse e la famiglia. “Il film Lilja forever ha la colpa di come consideriamo le migrazioni” dice Pates. È vero ma sorprendente: la vicenda tragica di Lilja comincia quando nella sua scuola viene etichettata come puttana. Da lì segue il rifiuto della famiglia, la migrazione, la vulnerabilità come migrante clandestina, e infine la prostituzione forzata – certo diversa dalla libera scelta. A proposito, dopo il 2004 le rumene, una volta diventate cittadine della UE, hanno cessato in blocco di essere vittime di tratta. L’impressione generale è che il dibattito sulla protezione della vittime di tratta sia negli altri paesi più arretrato che in Italia, dove dal 1996 si assicura un permesso di soggiorno alle vittime di violenza. Non è proposto proprio a tutte le donne che cadono nelle retate delle forze dell’ordine, ma comunque viene dato a circa un migliaio di donne all’anno. “In Francia”, racconta Lilian Mathieu dell’Università di Lione, “con la legge Sarkozy sull’ordine pubblico i poliziotti considerano le prostitute come colpevoli di adescamento – poi forse saranno anche vittime di tratta o di violenza, ma la prima cosa che fanno è denunciarle”. Anche Joyce Outshoorn, dell’Università di Amsterdam, racconta che: “Lo Stato olandese ha creato quattro tipi di prostitute. Chi non è cittadina europea ed è senza permesso di soggiorno è vulnerabile al ricatto, all’estorsione, alla violenza. È lo Stato ad aver creato il problema”. Se le risposte date all’arrivo delle straniere sembrano diverse, nella sostanza sono state repressive. L’Olanda nel 2000 ha dichiarato la prostituzione un mestiere, ma solo per chi appartiene alla UE, rendendo illegali con un tratto di penna circa i due terzi della prostituzione. La Svezia invece ha introdotto un articolo del codice penale contro coloro che anche solo tentano di acquistare servizi di tipo sessuale, pribendo la prostituzione. Ola Florin, della Direzione dei servizi sociali svedesi, ha sottolineato come non vi siano direttive particolari che obblighino i servizi sociali a rifiutare ogni politica di riduzione del danno (“Solo a Malmö distribuiscono preservativi”) e a ricattare le prostitute perché cambino mestiere. È piuttosto un segno del diffusa condanna morale di chi si prostituisce. Al contrario tra i funzionari pubblici olandesi la legalizzazione ha introdotto un atteggiamento pragmatico, attento sia ai bisogni di chi si prostituisce che ai problemi concreti legati al disturbo ai residenti nelle aree di prostituzione. Marjan Wijers, ricercatrice olandese indipendente dice: “Bisogna coinvolgere i residenti e i pubblici poteri, ma ora è molto difficile perché il quartiere a luci rosse di Amsterdam ha nuovi residenti che non accettano la presenza della prostituzione, perché vogliono aumentare il valore delle case”. Nel dibattito interviene Pates: “Però altri residenti sono a favore del mantenimento della prostituzione perché mantiene bassi gli affitti!” E Jo Phoenix dell’Università di Durham: “È una situazione che ha moltissimo in comune con la presenza nel quartiere di un insegnante di pianoforte: il flusso di persone è costante, è una fonte di inquinamento acustico. Nessuno però ha mai considerato la categoria degli insegnanti di piano come un problema politico”. Riprende Henk Wagenaar dell’Università di Leida: “Solo in questo particolare dibattito, carico di questioni morali, vediamo la proposta di soluzioni radicali, mai provate prima, di improvvisi cambiamenti di politica di cui non si conoscono le conseguenze. Spesso anzi la valutazione delle politiche usa causalità spurie, come attribuire la crescita della prostituzione alla decriminalizzazione, senza alcuna prova. Inoltre i comuni hanno bloccato il numero di licenze per i locali per la prostituzione, creando degli oligopoli che impediscono l’innovazione”. Marjan Wijers è anch’essa critica verso la politica olandese: “Lo Stato definisce le prostitute come coloro che possono essere sacrificate per il benessere degli altri, che hanno il potere di decidere qual è il problema, cosa che già implica quale sia la soluzione”. Le prostitute hanno però oggettive difficoltà a organizzarsi: “Non si fidano dello Stato, e non si identificano con quello che fanno. Per loro è solo un’attività temporanea”. Wijers dà un avvertimento ai ricercatori: “Dobbiamo stare attenti a non mettere la violenza e gli abusi solo dalla parte della ‘tratta’, perché anche nel lavoro sessuale volontario ci sono tantissime cose che non vanno bene”. Un altro tema comune nei diversi paesi è l’ossessione per i numeri. È difficilissimo mettersi a contare chi pratica lo scambio tra sesso e denaro (quali criteri usare? a pieno tempo o anche part-time? solo in strada o anche nella propria casa?), nonostante ciò le cifre volano di bocca in bocca e di giornale in giornale, sempre esagerate, ingigantite. In Danimarca sono state contate più volte donne che avevano avuto più di un colloquio con Il nido, una ONG protestante e a favore della criminalizzazione dei clienti. In questo paese è la sinistra ad essere a favore della criminalizzazione perché la prostituzione crea disuguaglianza tra i sessi: “Ciò ha a che fare con le preoccupazioni crescenti per i casi di tratta. Mi dicono in molti: ‘Ero contro la proibizione, ma il mondo è cambiato’”, racconta Jeanett Bjønness dell’Università di Århus. Anche a livello internazionale spesso la sinistra sceglie la criminalizzazione dei clienti, con iniziative ai Social forum mondiali della Marcia mondiale delle donne e di Attac Francia, che aderiscono al modello svedese di repressione dei clienti. Il New Labour ha fatto anch’esso notevoli danni: “C’erano solo due leggi sulla prostituzione e oggi ne abbiamo 15: è una quantità davvero straordinaria di attività governativa su questo tema”, dice Teela Sanders dell’Università di Leeds. “E sempre più sex workers finiscono in prigione. Non perché la prostituzione sia vietata ma perché non obbediscono agli ordini del giudice, per esempio di smettere di prostituirsi.” “il sistema di regolazione in Gran Bretagna”, racconta Jo Phoenix, “è in dissonanza completa con i cambiamenti socio-culturali nella considerazione del sesso, che è oggi visto come piacere, come attività del tempo libero”. A questo punto uno studioso si gira verso di me per far la battuta: “Non è che sia proprio un’idea nuova”. Non sono affatto d’accordo: forse per gli uomini non è nuova, ma per le donne il sesso è stato dovere, procreazione, violenza da subire senza reagire. Torniamo a Jo Phoenix: “Cercando di limitare lo sfruttamento sessuale dei giovani, il governo ha creato un sistema in cui controllare la loro attività sessuale è lo scopo principale, con ben 11 ordinanze, dal coprifuoco ai colloqui obbligati con i servizi sociali, per salvarli dal rischio della prostituzione. Si interviene considerando ‘bambini’ tutti i minorenni, e addirittura per assistenti sociali ed educatori gli interventi sono legittimi anche sugli adulti fino ai 26 anni”. Infine Belinda Brooks-Gordon, del Birkbeck, l’istituto che ci ospita: “Nei dibattiti pubblici le femministe proibizioniste impediscono di parlare alle sex workers, gli gridano contro. È una visione deprimente per una femminista come me. Come il fatto che le proibizioniste sono alleate con la destra morale, con la quale non si trovano d’accordo praticamente su nient’altro, dai diritti degli omosessuali all’aborto alla politica familiare. Se passa in Gran Bretagna la legge contro i clienti, sarà un aumento del potere maschile dei poliziotti sulle prostitute, che sono in gran parte donne”. La lotta alla prostituzione si traduce in lotta contro le prostitute, così come la lotta alla droga in realtà è costituita in gran parte dalle battaglie ingaggiate contro “i drogati”. Eppure vi è la stessa facile e larghissima disponibilità di sesso a pagamento e di droghe, con l’unico effetto di mettere fuorilegge grandi masse di persone. La legge come nuova forma di religione? In effetti si nota che la rigidità delle politiche sulla prostituzione quasi sempre in Europa riflette un’analoga rigidità nelle politiche sulle droghe. È stato da più parti notato, infine, che la regolazione promuove invece forme aziendali di lavoro sessuale, reprimendo ancora una volta coloro che lavorano sulla strada.

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DIALOGHI INCROCIATI CON MIGRANTI

di Ava Caradonna. (xxd 2, novembre 2010)
A LONDRA C’È UNA SCUOLA DI INGLESE PARTICOLARE, È STATA FATTA DA MIGRANTI CHE LAVORANO NELL’INDUSTRIA DEL SESSO. DONNE E UOMINI CHE LA ORGANIZZANO E FREQUENTANO RACCONTANO QUESTA ESPERIENZA.
L’idea di x:talk nasce nel 2005, quando una sex worker di nome Alice lavorava in una casa/bordello nella periferia di Londra assieme a due altre donne. Le due donne che lavoravano con lei provenivano dalla Tailandia e guadagnavano meno, perché Alice veniva considerata europea – quindi più cara. Al contrario delle altre, Alice parlava inglese ed era quindi in grado di negoziare e contrattare meglio con i clienti. Le altre due donne erano entrate illegalmente in Inghilterra, e dovevano ripagare una considerevole somma di denaro alle persone che avevano loro facilitato l’entrata, prima di poter cominciare a guadagnare per se stesse. Quando Alice venne a sapere della loro situazione, chiese loro se c’era qualcosa che poteva fare per aiutarle, ma loro resero ben chiaro che non volevano essere aiutate, anche se avrebbero molto voluto imparare la lingua. Così sono cominciate le prime lezioni di x:talk, tra un cliente e un altro in un bordello del nord di Londra. Il progetto x:talk si è costituito come un gruppo autoorganizzato di sex workers che organizza lezioni gratuite di inglese per le/i migranti che lavorano nell’industria del sesso e che per vari problemi di mancanza di documenti, criminalizzazione e isolamento, hanno un accesso ristretto a corsi di lingua ufficiali. X:talk vuole essere un luogo di scambio di conoscenze importanti come la lingua, per poter comunicare meglio tra di noi, per lavorare meglio e in condizioni più sicure e anche per avere i mezzi necessari per rivendicare i propri diritti. X:talk è presto diventato un punto di incontro e di organizzazione politica. Infatti, nel corso delle lezioni varie studentesse/studenti si sono unite al collettivo di organizzazione e hanno partecipato a mobilitazioni ed interventi in difesa dei propri diritti come migranti e come lavoratrici. Quando si tratta di sex workers migranti, è molto raro che si senta parlare di soggetti autonomi, con un proprio progetto migratorio, con degli obbiettivi di vita e persino delle rivendicazioni politiche. Quando si parla di sex workers migranti si sentono esclusivamente storie di violenze, abusi, lavoro coatto e traffico di donne e bambini. In poche parole, si sente parlare solo di vittime, e le vittime in quanto tali non hanno voce. Vanno protette, salvate, e vengono interpellate dalle autorità che vogliono essere condotte dal trafficante, stereotipicamente il criminale uomo, migrante anche lui. Se poi queste vittime, come in Inghilterra succede nella maggior parte dei casi, non risultano totalmente “innocenti” (si scopre per esempio che erano al corrente del fatto che avrebbero lavorato nell’industria del sesso) o se non hanno documenti validi, vengono prontamente assistite al rimpatrio, cioè in pratica deportate. Negli ultimi decenni in tutta Europa si sente parlare del binomio migrazione e lavoro del sesso quasi esclusivamente in relazione al traffico di esseri umani (quasi esclusivamente di donne e bambine). Le politiche contro la tratta, a livello nazionale come europeo, si aggiudicano il consenso morale della maggior parte delle persone, in quanto ovviamente poca gente si dichiarerebbe a favore dell’abuso di donne e bambini e del lavoro coatto. Ciò che rimane purtroppo completamente nascosto dietro a queste politiche sono le cause strutturali che stanno alla base dello sfruttamento del lavoro delle migranti e dei migranti in generale, e il ruolo ricoperto dallo stato nella riproduzione di tali cause. In particolare, si possono individuare quattro elementi strutturali celati dietro le politiche dell’anti-trafficking: • Vittimizzare delle persone considerandole “trafficate” nasconde e nega qualsiasi loro volontà di migrare, volontà ovviamente mediata da specifiche realtà economiche e politiche, le quali però non vengono affatto cambiate per mezzo di deportazioni criminalizzazione o con la condanna di pochi “trafficanti”. • Se molte migranti arrivano a pagare qualcuno ed a indebitarsi per poter entrare illegalmente in un paese è proprio perché altrimenti non riuscirebbero ad oltrepassare le frontiere, e allo stesso tempo se molte/i rimangono a lavorare nell’industria del sesso è anche perché non hanno accesso a molti altri lavori per mancanza di documenti. • La criminalizzazione dell’industria del sesso (sempre più spesso nel nome dell’anti-trafficking), così come la criminalizzazione dell’immigrazione “illegale”, invece di ridurre lo sfruttamento delle e dei migranti lo incrementa rendendo il loro sostentamento sempre più precario e limitando ulteriormente la possibilità di rivolgersi alle autorità per denunciare abusi e sfruttamenti. • I discorsi sulla tratta tendono a ritrarre il lavoro del sesso come sinonimo unico di sfruttamento e lavoro forzato. Così facendo, si nascondono tutte le altre occasioni di sfruttamento e abuso del lavoro dei migranti che vengono in gran parte condonate dallo stato, si pensi solo allo sfruttamento nell’ambito del lavoro domestico, e del lavoro agricolo o industriale. Questa realtà di vittimizzazione e criminalizzazione delle sex workers migranti serve a coprire la natura politica ed economica delle migrazioni e a mascherare come diritti umani delle politiche che sono invece meramente dirette a ridurre la migrazione e a criminalizzare l’industria del sesso. In Inghilterra, ciò è divenuto più che evidente con la recente adozione del pacchetto legge chiamato Policing and Crime Bill, che punisce i clienti che comprano servizi sessuali da migranti “trafficati”. Il fatto che tali clienti possano essere accusati e condannati di tale reato prevede necessariamente la constatazione da parte della polizia che la lavoratrice sia stata in precedenza “trafficata”. Se lo scopo è salvare lei non ci si spiega perché non si agisca prima che il cliente compri i suoi servizi. Ciò che accade sono invece retate della polizia nelle case dove lavorano sex workers migranti, spesso la chiusura di queste case, che poi riaprono in luoghi più nascosti, e ancora più spesso la deportazione delle persone trovate senza documenti. Il Policing and Crime Bill è passato questo scorso aprile, nonostante le proteste organizzate da x:talk e da altri gruppi di sex workers e nonostante i dati riportati da ricerche intraprese direttamente con sex workers migranti, altro esempio del fatto che non si ascoltano le loro voci. In un tale contesto di vittimizzazione, criminalizzazione e isolamento delle sex workers migranti, e di stigmatizzazione delle sex workers in generale, x:talk si propone come una piattaforma da cui poter far sentire la propria voce come sex workers e come migranti, per poter rivendicare il diritto alla residenza ed al lavoro, contro paternalismi, vittimizzazioni e deportazioni. Per noi il lavoro del sesso è un lavoro, e proprio in quanto lavoro ed in quanto fonte di lucro è un possibile teatro di sfruttamento, non di per sé perché abbia a che fare con il sesso o con delle “povere vittime migranti”. Quanto più il lavoro del sesso e la migrazione verranno illegalizzati e combattuti, tanto più tutte le/i sex workers rimarranno vulnerabili e stigmatizzate. È per questo che riteniamo di fondamentale importanza continuare a lottare per la legalizzazione del lavoro del sesso e di tutte le/i migranti in quanto persone.

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EMERGENZA SICUREZZA PER LE SEX WORKERS

del Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute Onlus, TAMPEP Network Italia. (xxd 2, novembre 2010)
A DUE ANNI DAL DECRETO SICUREZZA TIRIAMO LE FILA DI CIÒ CHE HA SIGNIFICATO PER LA VITA DELLE PERSONE CHE SI PROSTITUISCONO.
In questi ultimi due anni lo Stato ha voluto ergersi a difesa di una supposta moralità condivisa in nome di ciò che hanno definito un’ “emergenza decoro sicurezza”. Tutto è cominciato con il decreto sicurezza (L. 125/2008) che ha autorizzato i sindaci ad emettere ordinanze contro la prostituzione di strada con sanzioni per chiunque si presuma sia lì per vendere o comprare sesso. Anche la proposta di legge Carfagna- Alfano, un ddl approvato dal Consiglio dei ministri e di cui ogni tanto si risente parlare, visto che dovrebbe sostituire la legge Merlin, rispecchia in parte le ordinanze e instaura un orientamento fortemente repressivo. Ci sono state nuove norme sull’immigrazione che hanno previsto il reato di ingresso e soggiorno illegale, respingimenti, il divieto di iscrizione anagrafica, complicazioni per i matrimoni e i ricongiungimenti e così via. La politica chiede l’intervento delle forze dell’ordine facendo partire una vasta offensiva che si allarga a macchia di leopardo e in alcune regioni a macchia d’olio. Vengono coinvolte tutte le categorie di tutori dell’ordine, dalla polizia municipale alla guardia di finanza. L’apparato burocratico si attrezza con moduli prestampati per sanzionare con multe fino a 500 euro donne, trans e clienti. Si registrano trattenimenti per un’intera notte nei commissariati, anche di cittadine da sempre italiane, l’invio ai CIE (i centri di identificazione, detenzione ed espulsione degli stranieri sans papier) delle cittadine non comunitarie, espulsioni e deportazioni verso i paesi di origine caricandole a forza sugli aerei, la consegna di fogli di via obbligatori. Non mancano tecniche repressive di intervento come le retate nelle strade, le retate nei locali notturni per ‘stanare’ chi cerca luoghi alternativi di lavoro, identificazioni con foto segnaletiche e schedature (non solo di straniere), inseguimenti nei campi per catturare chi cerca di sfuggire: ci sono stati dei tragici incidenti in cui donne sono morte travolte da auto mentre fuggivano. Vi è stata poi un’intensificazione dei raid negli appartamenti dove le forze dell’ordine entrano senza mandati, perquisiscono, sequestrano preservativi e telefonini. Anche lì le donne vengono schedate e molte denunciate e i locatari denunciati per favoreggiamento. La lotta a difesa del decoro e di una presunta insicurezza continua prendendo di mira i giornali e i siti internet dove si pubblicano gli annunci. Alcuni giornali vengono denunciati (Il Piccolo, l’Agenzia Manzoni) e i siti oscurati e i gestori denunciati per sfruttamento e favoreggiamento. Quali gli effetti di queste azioni? La prostituzione ovviamente non scompare, si trasferisce nelle zone più nascoste e più pericolose o al chiuso in appartamenti e locali. Cambiano gli orari di lavoro per evitare le retate, ci si avventura alla ricerca di nuove strade e nuove città dove poter lavorare. Per chi non è regolarizzato/a diventa sempre più importante l’appoggio della rete informale o criminale di sostegno per poter trovare posto in un locale o in un appartamento. Le unità di strada delle associazioni che si tengono in contatto con le prostitute e offrono loro servizi faticano a seguire il target nei nuovi luoghi, gli operatori vengono anche minacciati di essere multati dalle forze dell’ordine. Ciò che appare più evidente è l’aumento della vulnerabilità. La condizione delle persone che si prostituiscono peggiora notevolmente sotto la pressione che scompiglia il mercato. L’aumento della mobilità provoca la perdita di punti di riferimento (come le unità di strada), peggiora la qualità della vita poiché ci si deve confrontare con luoghi e servizi che non si conoscono, si crea una maggiore dipendenza da “mediatori” con conseguente perdita di autonomia. Si è inevitabilmente più ricattabili poiché la difficoltà a contattare i clienti fa diminuire i guadagni con la conseguenza di aumentare le pratiche di rapporti sessuali non protetti ed esposizione a situazioni di rischio. In aggiunta diminuisce la frequentazione dei servizi sanitari per la paura creata dal dibattito sulla denuncia di clandestinità. Ma per chi volesse comunque legittimare queste scelte esistono altre considerazioni che non si possono tralasciare. Un prezzo così alto corrisponde al raggiungimento degli obiettivi dei politici? Si può cogliere quanto meno una logica all’interno delle azioni dei legislatori e degli amministratori che ci possa far pensare che promuovendo una politica repressiva e “vittimizzazione secondaria” delle persone vittime di tratta, nascoste nel sommerso e rese invisibili. L’invisibilità e la semplificazione per attuare le espulsioni possono rendere inefficaci gli strumenti legislativi per la lotta al traffico di persone e per il sostegno e la protezione delle vittime. La preclusione all’accesso alla assistenza, alle cure mediche e alla protezione sociale, derivanti dalle normative e dalle politiche messe in atto dal governo italiano costituiscono una violazione dei diritti umani in primis delle vittime di trafficking e anche dei sex workers migranti. In nome della sicurezza viene agita violenza, poiché quella a cui ci troviamo di fronte non è altro che una forma di violenza istituzionale. L’applicazione delle attuali politiche è in sé una violenza per i metodi usati e per gli abusi perpetrati dai tutori dell’ordine pubblico. La condizione di maggiore vulnerabilità espone ad una aumentata violenza da parte dei clienti (ricordiamo le aggressioni e gli omicidi sulle transessuali); il clima creato nel paese dalle campagne mediatiche a sostegno delle operazioni ‘strade pulite’ ha aumentato lo stigma e il razzismo verso chi si prostituisce incrementando atti di violenza e aggressioni verso di loro. Le ordinanze e la crisi economica di fatto limitano il mercato e lo rendono più selvaggio, esplodono violenze fra le stesse lucciole.

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SGUARDI PATERNI

di Alessia Muroni. (xxd 2, novembre 2010)
LA VISUAL ART IRRITA I GENITORI. UN’INSTALLAZIONE SUL CORPO DELLE DONNE VIENE ELIMINATA DA UNA RASSEGNA ARTISTICA PER LE PRESSIONI DEI VISITATORI.
Vi racconterò un episodio occorso in Roma il 12 ottobre, un fatto di cui solo io vi parlerò, non essendo il genere di notizie che può ambire a scala non dico planetaria ma almeno regionale, se non nazionale. I fatti, anzi, gli antefatti: il giorno 8 ottobre, presso il Museo della Civiltà Romana, Planetario e Museo Astronomico di Roma, viene inaugurata Sguardi Sonori 2010-2011, festival artistico multimediale giunto ormai al suo quinto appuntamento: live performance, visual art, video art, sound art, architetture, art & food, installations, e tutte le altre possibili declinazioni fighette. L’evento è organizzato con tutti i crismi del caso, organizzazione Faticart, curatori Sandro Cecchi e Carlo Fatigoni, grossi nomi tra i patrocinatori, guest star come Ennio Morricone, Gualtiero Marchesi, tra gli artisti Giosetta Fioroni, addirittura la Nasa che permetterà a Ennio Morricone di dirigere nel marzo 2011 un concerto intergalattico con un’orchestra terrestre e un solista tra le stelle, l’astronauta Roberto Vittori a bordo dello Space Shuttle. Vogliamo anche dire che ci saranno stati finanziamenti, probabilmente pubblici? Ma fin qui va tutto bene. Il problema non è questo, il problema lo crea Lucia. Lucia Cadeddu. La quale, sventatella, invece di esporre mazzi di fiori ben pettinati o digestivi paesaggi modello ‘Intervallo’ televisivo di tanti anni fa, decide di esporre Via!, una video installazione dedicata al corpo delle donne. Il video presenta quindi un corpo di donna. Un corpo pieno, pesante, vero, bello. Su quel corpo vero e bello che vediamo analizzato con tutte le sue particolarità di cosa vera, peli e nei compresi, si muovono fastidiose come mosche una serie di macchinine, arroganti, sicure di possedere quell’immenso spazio carnale, sgommanti e rumorose come solo le macchine sanno essere. Ma il corpo non le subisce passivamente, e con pochi movimenti le butta via, le schiaccia, le allontana, per poi accogliere quietamente una gentile biciclettina che esplora con amorevole attenzione curve, avallamenti e misteriose cavità. Saranno riusciti gli spettatori a cogliere il sottotesto lesbico? Non lo sappiamo. Sappiamo però che quello spazio museale – intendo quello del Museo della Civiltà Romana, non quello del corpo – è molto frequentato, per via dei suoi plastici ricostruttivi, da scolaresche e famigliole. Scolaresche e famigliole sono di solito guidate da capibranco, che si chiamano genitori e professori. Ebbene, genitori e professori si sono rivoltati in massa contro Lucia Cadeddu, la quale il giorno 12 ottobre è stata richiamata dalla direzione del museo a causa delle proteste dei visitatori. Lucia è andata lì. L’installazione era stata spenta, le hanno addirittura fatto capire che c’era poco personale per sorvegliare le costose apparecchiature. Insomma, Lucia Cadeddu smonta tutto e lo porta via. Nel quaderno dei visitatori, la traccia eloquente dell’ira dei capibranco: “installazione sgradevole, inopportuna”, opera di cui è “totalmente sconsiderato l’inserimento”, video “non educativo”. Riflessioni finali con esercizi: 1. Accendiamo la televisione, colleghiamoci ad Internet, sfogliamo le pagine pubblicitarie di giornali e riviste e scendiamo in strada cercando con lo sguardo i cartelloni pubblicitari. 2. Pensiamo: cosa nell’opera di Lucia Cadeddu può aver ferito la sensibilità di tanti virtuosi genitori? In che modo loro e i loro innocenti pargoli ne sono stati feriti nello sguardo e nell’infante pudore? Il fatto che la donna fosse nuda? E cosa vediamo noi, loro e tutti, ovunque e sempre? Non vediamo sempre e solo carne femminile esposta come in vendita con la scusa di vendere? Abbiamo visto donne nude e seminude, o loro parti sezionate, offerte allo sguardo per proporre di tutto, dagli abiti alle macchine, dal silicone sigillante ai profumi maschili. Abbiamo visto seni utilizzati per vendere cibo per animali. Vorrei domandare a questi tremebondi genitori, avete mai protestato? Qualcuno di voi si è mai turbato per i balletti scosciati e ammiccanti presentati in televisione preserale? Vi siete mai accorti dei nudi che appaiono ovunque sulle più normali pagine in Internet, dai portali alle pagine web? Non vi siete offesi del fatto che una nota marca di abbigliamento utilizzi una modella che simula un rapporto orale con dei cetrioli? No. Perché il vero scandalo consiste nel fatto che Lucia Cadeddu abbia osato esprimere un rifiuto. Perché il corpo femminile da lei esposto si ribella, colpisce i suoi molestatori, dà seguito ad un’esasperazione che è di tutte noi. Ed è perciò che scandalizza, offende, impaurisce: sottraendosi al ruolo sociale delle donne, che è quello di essere l’oggetto passivo di un piacere sessuato, eterodiretto, fondamentalmente rassicurante, atto ad essere così mostrato perché così si costruisce l’ordine di questa società. Mi viene in mente anche un’altra opzione: il corpo esposto da Lucia Cadeddu non è opportuno perché è vero. Perché non è la cosa depilata, truccata, omologata, plastificata, contraffatta ed eterosessualizzata che passa nei media per corpo femminile. Perché rimanda ad una concretezza che, come tutte le realtà della vita, dispiacciono ad un tempo e ad una cultura che fanno della rimozione della realtà il fondamento della propria sopravvivenza.

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UNA DONNA AL MESE – XXD 2

Ho 27 anni, sono egiziana del Cairo e faccio un master a Istanbul in Relazioni internazionali. Prima mi sono laureata in Comunicazioni di massa. Sono una giornalista, ma ora voglio studiare politica per scrivere più nel mondo accademico che nel giornalismo. Ho lavorato a Islam on line. Come hai scoperto di essere femmina, che cosa ha significato per te? È una questione lunga! In ogni epoca ci sono visioni differenti e differenti pensieri su cos’è essere una donna. Qualche volta è positivo, è molto bello essere una donna, si ringrazia Dio per non essere un uomo, e a volte l’opposto. Dipende. Dipende dalle varie situazioni in cui sei, dalla tua società, dai tuoi scopi e dalle tue ambizioni. Qualche volta i tuoi scopi nella tua società sono accettati e allora essere donna non fa nessuna differenza, fai quello che vuoi. E qualche volta se vuoi fare qualcosa non te lo fanno fare perché sei una femmina, non ti è permesso. Quando ho scoperto di essere una donna? Da bambina, sai, quando vedi che tu sei una ragazza, loro sono ragazzi, ci sono differenze, possono fare cose che io non posso fare. E viceversa? Hai scoperto anche che puoi fare cose che tuo fratello (seduto vicino) non può fare? Sì, può essere ma da piccola non era molto chiaro. Noi facevamo tutti le stesse cose. Io ero una ragazza con tre fratelli e facevo tutto quello che facevano loro, giocavo ai loro gli stessi giochi, proprio come i maschi. E a 7-8 anni ho cominciato a mettere l’hijab. Nessuno mi ha chiesto di farlo, ma volevo essere come mia madre e le sue amiche e le mie amiche. Ho cominciato a mettere l’hijab e non c’era nessuna differenza, indossavo i miei abiti normali e poi l’hijab. E continuavo ad andare ovunque e fare le stesse cose. Era ok essere una ragazza! La mia opinione, basata sulla mia esperienza in Egitto, è che le donne nelle nostre società hanno più libertà oggi. Perché nelle nostre società se tu non indossi l’hijab tutti ti guardano, tutti osservano che cosa fai. Ma quando indossi l’hijab pensano che tu sia a posto, che non farai niente di sbagliato, e ti danno più libertà. Questo nelle nostre società. Forse altrove è diverso, ma nelle nostre società se vuoi essere più libera, indossa il velo! Formalmente in Turchia, dove studio, è proibito andare in università con il turban o il bashortu, ma in alcune università non prestano alcuna attenzione a questa cosa formale. Da amiche turco-egiziane ho sentito che vanno all’università, persino pubblica (ma non sono molto informata perché io vado a una privata) a volte persino con un hijab completo. Cos’è un hijab completo? È questo (mostra il foulard che le avvolge i capelli), si può indossare così oppure far girare gli estremi intorno al collo, così. Che cosa pensi di questa proibizione? Penso che sia una cosa molto deludente. Ho molte amiche turche, molte di loro indossano l’hijab, o persino il charshef, si chiama così il vestito nero, non è un burqa. Con il viso coperto fino agli occhi? No, mostrano il viso. Qualche volta lo chiudono, in questo modo. Circa il 70% delle donne turche indossano l’hijab, e se guardi le donne turche nei villaggi probabilmente lo portano tutte. E se siamo il 70% e ci dici che non ci è permesso andare all’università, che cosa significa? Ma la proibizione è molto antica, no? Arriva da Atatürk. Sì, ma dopo la guerra si è persa. Negli anni Novanta era persa. Non lo so molto bene, ma ho letto che nel 1997 quando Arbakan (leader del partito islamico AKP) è diventato primo ministro ha cercato di fare qualcosa, non ricordo bene cosa ma voleva essere più vicino ai musulmani, così tutto l’esercito si è preoccupato e hanno cercato di resistere. Così nel 1997 è stata fatta questa legge che è proibito portare l’hijab in tutte le università. Prima era permesso, ora è l’esatto contrario di come era prima. Ora che l’AKP è al governo la proibizione non è così stretta. Conosci il dibattito in Francia? Ti chiedo della Francia anche se vengo dall’Italia perché probabilmente il dibattito in Francia è più conosciuto. Sì, mio fratello fa un master là. E io ho lavorato a Islam on line, e questo è un grande tema, di grande interesse per noi. Diresti lo stesso per la Francia? Noi tendiamo a discutere del velo come se la situazione fosse la stessa in ogni paese, ma in ambienti diversi ci sono significati diversi: in Francia o in Turchia non è lo stesso. Io credo che in Francia ci sia un equivoco. Chi ha votato questa legge e la gente che la sostiene pensa per prima cosa che tutte le donne che indossano l’hijab sono obbligate a farlodalla famiglia, dai padri. E come seconda cosa pensa che ci siano delle restrizioni ai loro spostamenti, al loro pensiero, così vogliono liberarle. Non sono sicura che sia questa l’idea, ma è quello che noi capiamo. Non sempre è questo il caso. A volte sì, so che le donne sono veramente costrette dalla famiglia a indossarlo ma non è sempre così. Puoi paragonarlo a forzarle a toglierlo. In Francia le costringono a toglierlo, e le donne devono scegliere da che parte stare

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